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CONTINUA LA MALEDIZIONE DELL’ OLIVETTI

Confermata la fine dell’ Istituto Italiano per l’ Intelligenza Artificiale

Respingendo l’ Assedio di Torino,
il Ducato di Savoia divenne regno

Nel Settembre 2020 il Governo aveva annunziato che, nell’ambito della Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale,  sarebbe stato creato a Torino un Istituto Italiano per l’ Intelligenza Artificiale.

Avevamo sostenuto il progetto con la massima energia, dedicandovi addirittura il libro “L’Istituto Italiano dell’ Intelligenza Artificiale”, con una prefazione di Markus Krienke, nel quale avevamo ricostruito le basi storiche e filosofiche del progetto, nonché il laborioso iter nelle Istituzioni Europee e nei Ministeri. Avevamo presentato il libro al Salone del Libro 2020. Quest’anno, abbiamo pubblicato un secondo libro, con la prefazione di Enrica Perucchietti, dedicato a”L’Intelligenza Digitale e l’Agenda Digitale”.

FIAT:un impero multinazionale

1.Una delusione prevedibile

Nel settembre del 2020, la sindaca  Appendino aveva annunciato: “L’Istituto italiano per l’Intelligenza artificiale sarà a Torino e avrà l’obiettivo di coordinare le attività di ricerca in questo campo”. Non era mai stato così. L’ attuale sindaco, Stefano Lo Russo, intervistato da La Stampa, conferma: “Quel progetto, va detto con chiarezza, non è mai stato attuato dal Parlamento e non è più tale già da luglio dello scorso anno, quando il governo ha deciso di fare di Torino la sede di un centro per l’intelligenza artificiale associata alla mobilità sostenibile”, uno dei 10 centri che dovrebbero sorgere nel nostro Paese.

L’Istituto  avrebbe dovuto costituire, per così dire, il “risarcimento” di Torino per la mancata  candidatura a sede di una corte secondaria del Tribunale Europeo dei Brevetti (TUB), ma chi aveva letto con attenzione le decisioni prese da governo e parlamento nel 2021 già sapeva che il progetto era stato fortemente ridimensionato, come avevamo anticipato proprio in questo blog. Le novità è che ora tutti lo ammettono, e che, inoltre, l’assegnazione all’ Italia (e la stessa nascita) della corte dei brevetti, è in alto mare (sicché anche l’ “indennizzo” per Torino avrebbe poco senso).

Il caso è tornato di attualità  sui media perché  venerdì 27 maggio il ministro dell’Innovazione e della Ricerca, Maria Cristina Messa – parlando a investitori e istituzioni alla Nuvola Lavazza, riuniti per discutere del PNRR – aveva detto che, sull’intelligenza artificiale, Torinodovrà partecipare a un bando come tutti” e che per la città è previsto invece “un Centro per la mobilità sostenibile che però non ha competenze specifiche sull’intelligenza artificiale”. La legge istitutiva definisce tale centro come segue: “Al fine di incrementare la ricerca scientifica, il trasferimento tecnologico e più in generale l’innovazione del Paese nel settore dell’automotive e di favorire la sua ricaduta positiva nell’ambito dell’industria, dei servizi e della pubblica amministrazione, è istituita la fondazione Centro italiano di ricerca per l’automotive, competente sui temi tecnologici e sugli ambiti applicativi relativi alla manifattura nei settori dell’automotive e aerospaziale, nel quadro del processo Industria 4.0 e della sua intera catena del valore, per la creazione di un’infrastruttura di ricerca e innovazione che utilizzi i metodi dell’intelligenza artificiale. La fondazione ha sede a Torino. Per il raggiungimento dei propri scopi la fondazione instaura rapporti con omologhi enti e organismi in Italia e all’estero.
Sono membri fondatori della fondazione il Ministero dell’economia e delle finanze, il Ministero dell’università e della ricerca e il Ministero dello sviluppo economico, ai quali è attribuita la vigilanza sulla fondazione medesima”.

Il problema a questo punto è che neanche la Fondazione è mai nata. Entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge il Ministero dell’economia (d’accordo con Mise e Miur) avrebbe dovuto nominare il Comitato di coordinamento. Ma questo non è mai avvenuto.

Inizio modulo

Da venerdì, a Torino circola infine la voce che il Centro italiano per l’intelligenza artificiale alla Città dell’Aerospazio sia stato “scippato” dalla “solita Milano”.

Tuttavia, non è questo il problema principale.

2.Il veto al rilancio di Torino

Togliatti: la città industriale
italo- russa, oggi ferma

Ciò che preoccupa veramente è l’assoluta assenza di programmi, da parte dell’ Europa, per l’intelligenza artificiale, e, da parte dell’ Italia, per Torino.

Per ciò che riguarda l’Europa, avevamo pubblicato l’anno scorso “European Technology Agency”, in cui reclamavamo un progetto centralizzato dell’Europa per stare al passo, da un lato, della legislazione cinese (Made in China 2025 e China Standards 2035), e, dall’ altra, di quella in preparazione in America (lo “Endless Frontier Act”). L’attuale approccio dell’Unione Europea, basato su un investimento molto inferiore a quello dei nostri concorrenti, come pure su un’organizzazione troppo decentrata della ricerca, dove la parte del leone è fatta da hubs” a livello locale e da piccole e medie imprese, sembra fatto apposta per non fare ombra ai GAFAM, i quali sono comunque coinvolti con un ruolo direttivo nelle iniziative europee (come nel caso di GAIA-X).

Come aveva rilevato già l’anno scorso il Prof. Metta, direttore dell’ Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, nel Piano Italiano per l’ Intelligenza Artificiale, l’IA è vista come qualcosa che si compra presso altri, non come una tecnologia che si sviluppa autonomamente, e che eventualmente si vende ad altri.

Non parliamo poi dell’idea di Don Luca Peyron, di orientare il previsto Istituto verso la tematica dell’etica dell’ Intelligenza Artificiale. Troncare, sopire, sopire, troncare! Come quando, a proposito della Olivetti, Valletta disse che la Divisione Informatica era “un neo che occorre estirpare”.

Per ciò che riguarda l’Italia, richiamiamo i nostri due libri  “L’Istituto Italiano dell’ Intelligenza Artificiale” e ”Intelligenza Artificiale e  Agenda Digitale che illustrano il collegamento strettissimo fra Intelligenza Artificiale, economia nazionale, geopolitica e futuro dell’ Umanità.

L’Istituto Italiano dell’ Intelligenza, ed ancor più l’Agenzia Europea per la Tecnologia, avrebbero dovuto affrontare di petto proprio il problema dell’ inadeguatezza di Torino, dell’ Italia e dell’ Europa, dopo la distruzione dell’ Olivetti,  ad affrontare l’Era delle Macchine Intelligenti, portando i nostri territori a un livello di Paesi sottosviluppati.

Questo è il risultato del rapporto di tipo coloniale che intratteniamo con gli Stati Uniti, rapporto che risulta sempre più evidente ora che gli USA impongono la loro volontà, come nella riunione di Ramstein, gli Europei pagano (al DoD, ai GAFAM, alla Russia, all’ Ucraina), e gli Ucraini combattono e muoiono per un  “Occidente” a cui non appartengono.

Nell’abisso di arretratezza in cui questa situazione ci sta sprofondando, risulta più che mai urgente immergerci totalmente nella cultura (unica attività che non ci sia stata ancora preclusa), per studiare il rapporto fra cultura e tecnica, fra tecnica e geopolitica, fra informatica e Occidente, fra Occidente e mondo, elaborando una filosofia, una dottrina politica e militare, una strategia economica incentrati sul riscatto del nostro Continente.

Il nostro ultimo libro tratta dell’assenza europea, italiana e torinese

3.Da Emanuele Filiberto al Principe Eugenio, al Senatore Agnelli

I periodi di grandezza di Torino sono sempre stati avviati da atti di forza: dalla battaglia di San Quintino, all’assedio del 1706, a “Terra, Mare, Cielo”.

Quando manca il potere politico, anche l’economia langue. L’ultimo grande sforzo di Torino, con l’espansione internazionale (Togliatti, FIAT Polski, New Holland, Pegaso) è fallito di frante alla delusione del fallimento della Perestrojka.

Oggi, le fabbriche FIAT all’ estero, quando non siano state ri-nazionalizzate per volontà della NATO (come per esempio l’ Avtovaz), sono passate sotto il controllo straniero, quando non addirittura chiuse.

100 anni di sforzi di generazioni di managers, tecnici, lavoratori, per portare il lavoro italiano in tutto il mondo, dall’ Ungheria all’ Indonesia, dall’ Egitto alla Spagna, dal Marocco all’ Argentina, dalla Polonia alla Yugoslavia, dalla Russia al Brasile, dalla Turchia agli Stati Uniti, si sono rivelati inutili. Non siamo più destinati ad essere il centro di imperi economici, bensì docili colonie delle multinazionali del web. E ci stupiamo pure che altri non vogliano condividere questa stessa nostra sorte, e continuino a battersi per restare fra coloro che hanno voce in capitolo circa il futuro del mondo.

LA RIVINCITA DELLA MITBESTIMMUNG

Battiamoci per un vero piano industriale europeo

Volkswagen in Cina

Le ormai prossime elezioni amministrative dovrebbero cvostituire (ma non lo sono) un momento di approfondito  ripensamento sul futuro dei nostri territori.

La perdita, da parte  di Torino, di quasi tutte le prerogative tradizionali che la caratterizzavano  almeno nell’ immaginario collettivo costituisce un caso estremo del più generale fenomeno di deindustrializzazione dell’Italia e dell’Europa, che non può essere metabolizzato se non mediante un radicale rovesciamento delle vocazioni economiche dei nostri territori. Contrariamente a quanto annunziato un anno fa in un eccesso di entusiasmo, il Recovery Plan non sta realizzando nulla in questo senso, dato il suo carattere d’urgenza, i limiti dei trattati europei e quelli delle culture dominanti. La politica europea si rende forse oggi conto che, subito dopo il “Recovery Plan”, insufficiente e tardivo, occorre un secondo, ben più energico, intervento (la “Strategia Industriale Europea”), ma dubitiamo che saprà veramente lanciarlo.

In questo post, vediamo in primo luogo come si possano emendare gli errori attuali, indotti dalle limitazioni culturali e antropologiche della classe dirigente, per poi arrivare a parlare di un vero e proprio “progetto economico europeo” che dovrebbe, a nostro avviso, costituire il nocciolo duro della suddetta “Strategia Industriale Decennale Europea”, già anticipata, e perfino rivista, dall’ Unione, che la Francia vorrebbe proporre energicamente nel suo semestre europeo, che inizia il 1° Gennaio 2022, ma che, a causa dei fallimenti del passato, si presenta fin dall’ inizio come troppo limitativa.

Partiamo, per fare questo, dalla situazione di Torino e del Piemonte, che consideriamo paradigmatica di quella europea, per terminare, come usiamo fare, con una visione comparativa delle diverse situazioni di Europa, USA e Cina.

I miei 4 lettori mi perdoneranno se, nel fare ciò, farò qua e là riferimento alle mie esperienze di lavoro, a Torino e in Europa, che mi hanno permesso di constatare in prima persona quali siano stati gli effettivi , trasparenti, meccanismi  attraverso i quali la situazione dei Torino, dell’ Italia e dell’ Europa si è deteriorata nel corso degli ultimi 50 anni.

  1. L’eutanasia dell’Olivetti e della Fiat

Dovrebbe stupire innanzitutto che, in tutte le analisi che vengono pubblicate sul declino del Piemonte, non si riveda mai la dinamica concreta della sua de-industrializzazione, basata sulle catastrofi parallele e complementari dell’industria metalmeccanica, di quella informatica e di quella culturale, e causata, in tutti e tre i casi, dalla mancanza di progettualità da parte delle autorità europee, e, innanzitutto, italiane. Il cosiddetto “corporativismo democratico” teorizzato da Fanfani, incarnatosi nella difesa “a pioggia” dei soggetti di fatto esistenti ha fatto sì che si gonfiassero a dismisura automotive ed occupazione operaia a scapito di altre attività produttive (per esempio, informatica, aerospaziale, cultura e servizi), molto più promettenti nella prospettiva della Quarta Rivoluzione Industriale.

A cavallo della IIa Guerra Mondiale, erano stati inventati, tra l’altro, l’energia atomica, la cibernetica, il motore a reazione, la missilistica, la televisione, tutte tecnologie decisive per la divisione internazionale del lavoro nell’ era industriale. Tuttavia, per ragioni legate essenzialmente all’ esito della guerra e alla successiva Guerra Fredda, l’applicazione in Europa di quelle tecnologie strategiche sarebbe tardata, o ben presto abortita. Si svilupparono invece le industrie destinate ai prodotti di largo consumo, fabbricate, come al Lingotto e a Mirafiori, in stabilimenti prima prevalentemente militari, e, come tali, finanziati, durante la guerra, essenzialmente dal settore capitale pubblico, e poi “ereditate” dagli imprenditori.

Questo tipo di sviluppo dell’economia europea  non aveva fin dall’ inizio la capacità di reggersi nel lungo periodo, perché fondato, essenzialmente, sulla non ripetibile situazione post-bellica, caratterizzata dall’impressionante base industriale creata dall’ Asse per fini bellici e dalla copiosa offerta di mano d’opera qualificata e sottopagata in seguito alla smobilitazione, situazione anticipata dagl’incontri durante la guerra fra la FIAT e il dipartimento americano dell’ Industria.

Nei successivi 75 anni, l’Europa, trincerandosi dietro una retorica iperliberista incompatibile con le sue dichiarate ambizioni di potenza economica subcontinentale, si è sempre rifiutata di adottare le contromisure contro questa situazione di programmato sottosviluppo tecnologico, denunziata da rari teorici come Servan Schreiber, e, anzi, ha boicottato, dietro le pressioni americane documentate come nei casi di ENI, Olivetti ed Airbus,  le proprie imprese che tentavano di uscirne. I lamentati interventi “statalisti” hanno avuto anch’essi un carattere “a pioggia”, non atti a sostenere la sovranità tecnologica delle nostre imprese, condannate ad essere eterne “followers” di quelle americane.

Ancor oggi, i documenti dell’Unione sono basati sull’ insostenibile presupposto che, per rilanciare l’economia europea, bastino una politica monetaria espansiva,  il supporto alla ricerca e sviluppo e l’incoraggiamento delle “alleanze” fra piccoli produttori europei, senz’ affatto considerare che certi tipi di attori (come le piattaforme di Internet) sono in Europa totalmente assenti, sì che il mercato (non solo digitale) è interamente dominato dai GAFAM americani. Non solo, ma questi ultimi stanno accrescendo ulteriormente il loro potere sul mercato, da un lato entrando in nuovi settori strategici come l’industria spaziale, e, dall’altro, ottenendo continui dilazionamenti, di anno in anno, delle misure già predisposte contro di essi dalle autorità americane e soprattutto europee (divieto di esportazione dei dati, web tax, fine degli abusi di posizione dominante).

Questo è particolarmente grave perché, come aveva rivelato già Milward, fin dal principio era stato chiarito al nostro mondo industriale che il boom trainato dalla conversione, in industria dei trasporti, dell’industria bellica, concentrato su vetture di bassa gamma, come consigliato dal dipartimento americano dell’Industria, non avrebbe potuto durare in eterno, proprio a causa del prevedibile successo di tale boom e della conseguente “trappola del reddito medio”. Inoltre, come dichiarato a suo tempo alla stampa dal compianto Ing. Chou dell’ Olivetti,  era stato anche soffocato il tentativo, veramente innovativo, dell’azienda di Ivrea  di entrare da leader nel mercato e nella cultura dell’informatica, la quale ultima domina oggi ogni aspetto dell’economia e della politica mondiali. Anche l’industria culturale torinese (Einaudi, Loescher, IPSOA, ISVOR)  avrebbe potuto svilupparsi solo seguendo l’approccio multidisciplinare favorito da Olivetti, mentre invece il suo ossequio ai dettati del “mainstream” politico ne aveva decretato l’insostenibilità nel lungo periodo.

Ne consegue che l’idea di cedere a un partner estero il controllo della FIAT e, di conseguenza, di disinvestire anche dal vastissimo indotto auto (cioè, in sostanza, da tutta l’economia del Piemonte), non è di oggi. Fin dagli inizi, nel 1971,  della mia vita lavorativa nell’ industria metalmeccanica cittadina, avevo assistito al prevalere di  quell’ orientamento, inaugurato dalla cessione della maggioranza italiana in  prestigiose aziende  componentistiche come RIV e Way-Assauto, per le quali avevo lavorato. Dopo di allora, a quante dismissioni avevo dovuto assistere! Sono stato perfino preposto all’ Ente “Dismissioni” della SEPIN.

Ricordo però che quando, nel 1985, si era profilato l’accordo FIAT-Ford, l’opposizione del management torinese, di cui facevo parte, era stata determinante, perché, a dispetto della retorica della “fusione fra eguali”, era chiaro a tutti già fin da allora che l’accordo avrebbe significato la subordinazione di Torino a Detroit. Cosa che, allora, la tecnostruttura FIAT giustamente rifiutava, e l’Avvocato Agnelli era restio a imporre, conscio che la vera forza della sua famiglia consisteva nel catalizzare le energie culturali, politiche, tecnologiche e professionali del Piemonte, che non era certo il caso di alienarsi :”Alla fine la Ford era pronta a cedere il controllo della nuova società alla Fiat, ma solo per un periodo transitorio da 5 a 7 anni. Ghidella avrebbe dovuto guidare la società per questo periodo o almeno per la prima parte di questi anni. Quindi la nuova società sarebbe stata posseduta al 51% dalla Fiat e al 49% dalla Ford per i primi anni e dopo il controllo sarebbe passato nelle mani degli americani”.

Il progetto era però, come dicevamo, in preparazione da tempo (forse dalla Seconda Guerra Mondiale). E infatti esso,  alla prima occasione, fu ritentato, questa volta con General Motors, nel 2000. Ma qui era stata la stessa proprietà a voler rescindere l’accordo già firmato, approfittando delle favorevoli clausole di uscita previste nel contratto:”Esso prevedeva che GM sottoscrivesse una partecipazione del 20% in Fiat Auto, in cambio di azioni della stessa GM per una quota pari a circa il 5,1% (percentuale tale da far diventare Fiat il primo azionista industriale in GM) della capitalizzazione della società di Detroit equivalente ad un valore di 2,4 miliardi di dollari (www.fiatgroup.com). L’intesa ha portato alla creazione di due joint venture paritetiche, una negli acquisti e l’altra nei motori e nei cambi. L’accordo è stato firmato per Fiat dal presidente di allora Paolo Fresco e dall’amministratore delegato Paolo Cantarella. Per GM, invece, erano presenti l’ad John Smith e il presidente Richard Wagoner. Nell’area degli acquisti Fiat Auto e GM sfrutterebbero le proprie capacità specifiche, compresi il team interfunzionale “piattaforma componenti” di Fiat Auto e i “creativity teams” di GM. Il volume totale di acquisti delle due società consentirebbe importanti possibilità di sinergie. Inoltre, Fiat Auto e GM, con il suo partner nei motori diesel Isuzu, intendono sfruttare le proprie risorse per incrementare l’offerta di motori e cambi, migliorare le prestazioni e ridurre i costi. Gli accordi prevedevano anche il riconoscimento a favore del Lingotto di un diritto d’opzione per cedere il restante 80% a General Motors, nel periodo tra il 24 gennaio 2004 (spostata poi al 2 febbraio 2005) e il 23 luglio 2009 (24 luglio 2010)”.

Del resto, era stato lo stesso Avvocato Agnelli, in un libro-intervista, a teorizzare una sorta di “nazionalismo economico” di Torino incentrato sul ruolo internazionale della FIAT. In quel libro, Agnelli usciva dal solito schema della città operaia, per includere, fra i beneficiari dell’ egemonia torinese, i fornitori, i professionisti e il ceto medio (gli “stakeholders”).

In effetti, a dispetto della retorica “mainstream” sul preteso carattere impersonale e a-nazionale delle concentrazioni industriali internazionali, queste sono rette invece da una ben “localizzata” volontà di potenza, che si manifesta attraverso i tre capisaldi del controllo unitario, della nazionalità e della politicità (basti pensare a tutta la politica attuale delle “Golden Shares”).

Nel 2012, la crisi della Chrysler (già ceduta alla Mercedes, ribattezzata Daimler, ma poi rimessa sul mercato per via giudiziaria grazie al sostanzioso supporto politico di Obama) aveva dato a qualcuno l’illusione di poter acquisire il gruppo americano mantenendo il controllo in Italia. Una’illusione infondata, visto che il precedente accordo Daimler-Chrysler era fallito proprio per la pretesa del socio americano Cerberus che la promessa di Schremp di un “merger among equals” venisse poi veramente mantenuta dai Tedeschi, che non lo potevano invece fare a causa della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa (Mitbestimmung), che non avrebbe potuto essere preservata con una fusione alla pari. La politica dell’ “America First” non aveva mai mancato, fino da allora, d’incidere pesantemente anche sulle fusioni societarie internazionali, con pesanti pressioni affinché fosse mantenuta sempre almeno una funzione di controllo americana (cosa poi realizzatasi soprattutto con la complessa legislazione  fiscale su quelle transatlantiche)

Fu così che, per prevenire le suscettibilità americane, fu necessario rendere labile e irriconoscibile, non solo la nazionalità degli Elkann, ma anche il reale centro di FCA (con una spartizione di fatto fra Dearborn, Londra e Amsterdam, e l’esclusione di Torino).

Il “Patriottismo industriale torinese” di Giovanni Agnelli
  • 2. In Stellantis, comanda la Francia

Questa dinamica “geopolitica” dei M&A (Mergers and Acquisitions) è stata confermata, nel caso della recente “fusione” tra Fiat-Chrysler (FCA) e il Gruppo Peugeot Sa (PSA), dal ruolo determinante dell’industria di Stato francese (supportata dalla “participation”, corrispettivo francese della Mitbestimmung), e dal “portage” di azioni da parte di prestanomi.

Anche qui l’illusione del “merger among equals” (alimentata questa volta dai Francesi) non si è potuta mantenere, perché in realtà c’è sempre qualcuno che, grazie ai patti parasociali, comanda, e le autorità di banca e borsa lo vogliono sapere. La risposta ufficiale è stata che comanda la “PSA”, vale a dire il Gruppo francese il cui azionista di riferimento (come anche nella Renault) è il Governo francese (unico soggetto politico ed economico smanioso di estendere il proprio controllo sull’ industria europea, mentre Stati e famiglie imprenditoriali sembrano fare a gara per cedere il controllo ad estranei).

Come da accordi, ognuno dei due gruppi ha nominato cinque membri, con l’undicesima poltrona assegnata a Carlos Tavares, già presidente del consiglio di gestione di PSA, il quale ha ottenuto la carica di amministratore delegato. Proprio questa nomina è il peso che fa pendere l’ago della bilancia dalla parte transalpina, concedendo di fatto la maggioranza assoluta, nel cda, a PSA, mentre la presidenza affidata a John Elkann è più di rappresentanza che non decisionale. Del resto, per capire chi comanda, basta vedere che Tavares guadagna 4 volte più di Elkann.E sarebbe assurdo se così non fosse, dato che la quota aggregata di John Elkann, grazie ad un sistema di scatole cinesi oggi messa in discussione dalla madre Margherita, è appena dell’ 1,75%.

Come si può vedere, nonostante tutte le retoriche ufficiali, siano esse liberistiche o statalistiche, l’industria automobilistica è sempre stata  politicamente determinante e determinata, e il controllo ultimo, la “golden share” appartiene da sempre a un Governo o qualche oligarca legato a un Governo. Con tutto quello che si dice di Cina e Russia, sono poi invece sempre i Paesi europei quelli che si riservano maggiormente il controllo (anche se discreto) delle loro grandi imprese. Solo l’Italia sembra essere un’eccezione, perché la FIAT è stata da sempre, più che sotto il controllo italiano, sotto quello di governi “amici”. Infatti, il Governo italiano  si è sempre rifiutato di influenzare direttamente le scelte strategiche delle sue grandi imprese, a tal punto che sono state spesso le imprese stesse (e perfino quelle di Stato) a dare ordini al Governo, e non viceversa, come nel caso della legge fiscale modificata in concomitanza con il trasferimento all’ estero della sede della FIAT.

Non è un caso  che, mentre le bombe alleate radevano al suolo mezza Torino, e in particolare chiese e monumenti, la FIAT, massima industria militare del Paese, per giunta  presidiata dalla Wehrmacht, fosse sopravvissuta indenne a tutta la guerra. Né che Raffaele Mattioli avesse affermato di avere pilotato egli stesso, dagli uffici della Comit di Milano, l’intera transizione da Mussolini a Badoglio,  passando niente po’ po’ di meno che attraverso la rivolta del Gran Consiglio del Fascismo, il colpo di Stato del Re, l’Armistizio di Cassibile e il Processo di Verona.

Non stupisce allora neanche che oggi, nel Consiglio di Amministrazione di  Stellantis, non sieda alcun rappresentante dei lavoratori italiani, mentre sono rappresentati quelli del gruppo PSA. Infatti, politici e sindacati italiani hanno sempre rifuggito ogni discorso sulla rappresentanza societaria degli stakeholders (oggi pressoché universale in Europa), unico (anche se misconosciuto) reale baluardo contro l’alienazione de controllo sulle imprese strategiche (come ha dimostrato la storia delle imprese tedesche e francesi, ambedue all’ avanguardia nel campo della cogestione).

Singolare il meccanismo di rappresentanza dei lavoratori che nella sostanza aggira le prescrizioni delle leggi francesi, tedesche ed europee sulla partecipazione di quelle italiane. Nel board di Stellantis non c’è alcun rappresentante dei dipendenti italiani e tedeschi mentre c’è Jacques de Saint-Exupery (che non è un sindacalista operaio) a rappresentare (ma solo formalmente) quelli francesi. Fiona Clare Cicconi, nominata da FCA quale rappresentante dei suoi lavoratori, è  invece l’ex responsabile delle risorse umane della contestatissima Astrazeneca (anglo-svedese). I sindacati italiani lamentano che: «Fca ha deciso di fare da sé nell’individuare il componente che dovrebbe, simmetricamente a quello già presente in PSA, rappresentare i lavoratori in Stellantis».

Abbiamo così il paradosso di una Stellantis che vpotrebbe essere un modello perfetto di “società europea” e invece ha lo statuto di una Naamloze Vennootschap olandese, è dominata dal Governo Francese e non ha una rappresentanza europea dei lavoratori.

Mercedes in Cina

3.Torino deliberatamente umiliata

Non può quindi infine stupire in alcun modo il drastico ridimensionamento, non solo economico, ma, anche e soprattutto, sociale e culturale, della Città di Torino, città simbolo di questa cultura “anti-partecipazione” dei Governi, dei sindacasti e degl’imprenditori.

Gli effetti di questa cultura sono eclatanti soprattutto se confrontati alla storia della capitale della Volkswagen, Wolfsburg, oggi più che mai centrale nel mondo dell’ auto anche quando la maggior parte delle auto Volkswagen viene prodotta e venduta in Cina.

Intanto, coerentemente con i piani dell’accordo messo nero su bianco lo scorso dicembre fra FCA e PSA (il “Combination agreement”), sono saliti a 800 gli esodi incentivati nell’area metropolitana. Coinvolte la Teksid di Carmagnola e l’ ex TEA di Grugliasco. Pensione anticipata anche per 350 dipendenti del settore impiegatizio. Solo cento i nuovi assunti. L’ha reso noto la FIOM dopo la firma dell’accordo alla Carrozzeria di Mirafiori per l’uscita incentivata di 160 addetti e quello per i 100 della Maserati di Grugliasco. Sin qui i circa 300 esodi volontari già comunicati per quanto riguarda il polo torinese che comprende Mirafiori e l’ex Bertone.

Agli inizi di settembre, inoltre, verrà perfezionato l’accordo per gli impiegati degli Enti Centrali, che prevede 350 uscite e un centinaio di ingressi.

Intanto, non è stata assegnata a Torino la cosiddetta “Gigafactory” della Stellantis per le batterie elettriche (la quale per altro neppure a Termoli compenserà gli attuali licenziamenti).La Maserati si trasferisce a Mirafiori e l’ex stabilimento Bertone di Grugliasco rischia di diventare presto un pezzo di archeologia industriale, con la chiusura definitiva di quello che era nato come “polo del lusso”, con la Maserati, che oggi lavora a singhiozzo, e in cui le ore di cassa integrazione superano quelle di attività.  Si tratta dell’accorpamento di tutta la produzione torinese a Mirafiori, con l’affiancamento alla Levante delle produzioni di Gran Cabrio e Gran Turismo, tutti modelli Maserati. A Grugliasco resterà un’attività residuale legata a Ghibli e Quattroporte.

Situazione ulteriormente aggravata dalla chiusura di Melfi e Pomigliano.

Tutto ciò ammesso che le politiche della transizione ecologica accelerata non portino di fatto (come alcuni paventano) alla chiusura di tutte le fabbriche europee di auto di lusso.

Tutto ciò nonostante che la FCA abbia contratto un prestito COVID-19 con lo Stato Italiano, che proteggerebbe l’occupazione dei siti italiani. Sebbene il prestito ricevuto da FCA nel 2020, erogato da Banca Intesa Sanpaolo e garantito dalla società pubblica SACE, contenga clausole legate al reinvestimento esclusivamente in Italia dei fondi ricevuti,  Stellantis da allora ha cessato le attività in ben 4 stabilimenti italiani e continua a ridurre l’occupazione.

La cogestione è attualissima anche nella società delle macchine intelligenti

4.Ci  sarebbe voluta anche in Italia la cogestione

Ribadiamo che la chiave di lettura di questa  vera e propria cancellazione del nucleo originario della FIAT va ricercata, non tanto in un processo ineluttabile di crisi del mercato automobilistico e di delocalizzazione, né in una cattiva volontà della proprietà, bensì nelle scelte autolesionistiche della politica, dei sindacati e degli stessi lavoratori.

Nella generale trasformazione del mercato veicolistico in seguito al “middle income trap” in Occidente e alla crescita dell’ Asia, l’industria veicolistica europea può essere salvata (almeno temporaneamente, in attesa di cambiamenti più radicali) proprio con la strategia adottata dai Gruppi tedeschi, basata sulla partecipazione dei lavoratori, sull’ altissima qualità, sull’ automazione e sul presidio diretto del mercato cinese, forte di 30 milioni di vetture all’ anno. Il loro contesto societario, dominato dalla cogestione dei lavoratori e dalla separazione della proprietà dal management, era stato concepito, a partire dal caso Volkswagen negli anni 50,  come una formula per evitare la cannibalizzazione dell’industria tedesca,  allora più che mai possibile per via del regime di occupazione e delle epurazioni. Ricordiamo che la Volkswagen apparteneva originariamente al sindacato nazista “Front der Arbeit”.

In Italia, gl’insostenibili miti dell’insuperabilità della lotta di classe e dell’inaccettabilità di limitazioni ai diritti della proprietà hanno prodotto una debolezza tanto delle direzioni aziendali, che dei lavoratori, di fronte alle inevitabili pressioni delle grandi potenze, dei partiti, della finanza e della concorrenza,  e allo smantellamento delle nostre imprese.

E’ ben vero che, in un’Europa unita con un miliardo di abitanti, non avrebbe probabilmente senso che tutti i Paesi abbiano tutti i tipi di produzione, e quindi l’ Europa del Sud avrebbe dovuto comunque “barattare” con il Nord e con L’Est la manifattura con la cultura, l’ecologia e i servizi,   ma ciò avrebbe dovuto essere deciso dall’ Europa e negoziato fra i Paesi, non già essere il risultato di una serie di fatti compiuti imposti dai più furbi.  In pratica, nulla vieta che le holding dei grandi gruppi siano collocate in Europa Centrale, né che le fabbriche siano in Cina, purché i centri di ricerca, gli uffici finanziari e commerciali, l’indotto del terziario, siano sparsi in tutta Europa, e che, in cambio, vengano collocati nell’ Europa mediterranea istituti e industrie culturali.

Questo per dire che la pur necessaria ristrutturazione, anche territoriale, dell’ economia europea è stata non solo iniqua, ma anche e soprattutto inadatta a combattere efficacemente la concorrenza internazionale.

In conclusione, l’infausta sorte della nostra “Città dell’Auto” era scritta da molti decenni, da quando tanto la  politica, quanto l’imprenditoria, quanto il sindacato avevano rifiutato di seguire il modello tedesco, basato sulla cogestione, sull’ alta qualità e su delocalizzazioni controllate. Oggi, le imprese tedesche, seguendo la clientela,  producono e vendono la maggior parte delle loro auto all’ estero, però la “testa” è sempre più fermamente a Wolfsburg, a Stoccarda e a  Monaco, con la partecipazione alla gestione e agli utili del Governo, del management, delle Autorità locali e dei lavoratori. Addirittura, il Governo cinese ha loro permesso nel 2020, in anticipazione del Trattato UE-Cina poi “congelato”, di acquisire il 100% della proprietà delle fabbriche cinesi loro partner. Le imprese cogestite tedesche sono più forti, non solo della loro dispersa “proprietà”, bensì dei Governi, cinese, tedesco e perfino americano.

Come risultano cocenti, alla luce di questo confronto internazionale, gli ultimi smacchi delle Autorità, managers, lavoratori, torinesi, avvezzi da decenni a prendere schiaffi da proprietà e governo, costituiscono il naturale esito dell’ autolesionismo della strategia fino ad oggi perseguita. Basti pensare al trasferimento all’ estero della sede della FIAT, poi alla scomparsa del marchio, e ora alla chiusura  (e addirittura, vendita all’asta) dello storico edificio del Lingotto, simbolo, non solo della FIAT, ma anche dell’architettura razionalistica italiana, e perfino della tradizione del movimento operaio. A parte il fatto che, contemporaneamente, si stanno vendendo anche le Cartiere Burgo, e perfino la Galleria del Romano, su cui affacciava la stanza del Nietzsche “torinese”. Infine, è stato praticamente azzerato l’ Istituto Italiano per l’Intelligenza Artificiale, senza che le nostre Istituzioni siano riuscite ad ottenere nulla dal Governo.

Altro che “fare squadra” per la città! Siamo di fronte a una sommatoria di carenze, errori e tradimenti che hanno portato a una sconfitta totale. Colpa di Chiamparino o di Cota, di Ghigo o della Bresso, di Fassino, dell’ Appendino o di Ghigo? In realtà, sembra che le colpe risalgano ancor più indietro, e vadano equamente condivise. La colpa è fondamentalmenten degli elettori torinesi, che hanno votato quei politici e continuano a votare gli stessi partiti.

Senza l’ Istituto Italiano per l’ Intelligenza Artificiale, il futuro di Torino è più difficile

5.Il futuro di Torino, dell’ Italia e dell’ Europa

Fino a qualche giorno fa, tutti parlavano ancora di un futuro di Torino nel settore autoveicolistico. Perfino dopo quest’ultima doccia fredda, in piena vigilia elettorale, i politici reclamano ancora una rinegoziazione con Stellantis e con il Governo per una (o due )nuova/e “gigafactory” di batterie. Questo gran parlare è  semplicemente grottesco, per una serie di ragioni, prima fra le quali è che il ridimensionamento, in questi 50 anni, dell’industria metalmeccanica piemontese, è oramai talmente macroscopico, che ne restano solo le briciole, che riguardano al massimo qualche decina di migliaia di operai, su quasi un milione di abitanti di Torino (quando, come noto, un tempo  già soltanto i quadri della FIAT erano 40.000). E’ quest’ultima la classe sociale più penalizzata.Comunque, è oramai evidente che a Torino non vi sarà nessun’attività direzionale, né progettuale, e che anche l’occupazione operaia sarà ridotta ai minimi termini.

Il peggio è che neppure le attività alternative all’automobile sono state gestite meglio di questa. L’enorme patrimonio naturale e storico non viene valorizzato se non in minima parte. Non si studia sufficientemente la nostra storia antica e medievale, né  gli agganci con le diverse culture europee (i Poeti Provenzali, De Maistre,  Nietzsche, Michels..).Ne deriva la  mancanza di “appeal” della nostra offerta culturale e politica.

Neppure il carattere fondamentalmente “museale” della città è stato rispettato, inserendo , in un contesto  di valore architettonico unico, due banali grattacieli (di cui uno -costruito sulle macerie del mio ufficio alla gloriosa FIAT Avio- e mai terminato). Non parlamo poi dell’ industria spaziale, distrutta dallo spezzatino della FIATV AVIO e dall’ assenza dell’ Europa dai più avanzati settori dell’ industria spaziale.

Tutto questo lo scrivo a ragion veduta perché:

-da più di 50 anni ho detto e scritto che ciò sarebbe inevitabilmente avvenuto se non si fosse perseguito un progetto alternativo di città, sulle orme di Adriano Olivetti, fondato sulla sinergia fra cultura, politica, finanza ed europeizzazione programmata delle industrie di alta tecnologia;

-mi ero dedicato appositamente allo studio del lavoro comparato perché vedevo chiaramente che solo un sistema di partecipazione del lavoro a tutti i livelli sul modello tedesco avrebbe potuto ovviare (seppure parzialmente), alle catastrofiche tendenze di lingo periodo dell’”establishment” italiano;

-ancora nel 2019 avevo presentato al Salone del Libro di Torino un libro (“Il ruolo dei lavoratori nell’ era dell’ Intelligenza Artificiale”), esito di un convegno presso l’ Unione Industriale, nel quale tentavo di dimostrare che il modello tedesco di Mitbestimmung è più che mi attuale nell’ era delle Macchine Intelligenti;

-fin dal 1977, mi ero attivato, nell’ ambito del Gruppo CIR, e, più tardi, di quello FIAT, per promuovere una delocalizzazione dell’industria piemontese verso i Paesi in Via di Sviluppo ed ex socialisti basata sul mantenimento sul territorio del controllo e sull’ “upskilling” della società piemontese,   con il rafforzamento delle funzioni politiche, finanziarie e manageriali di Torino, intesa quale centro dell’ economia europea e mondiale;

-anche l’attività di promozione culturale svolta negli ultimi 16 anni da parte di Alpina è andata in questa direzione, puntando tutto sull’ europeizzazione e sul rafforzamento dell’identità della città, come nel caso del progetto di Torino Capitale Europea della Cultura;

-ho appena pubblicato, per il marchio “Alpina”, un nuovo libro bianco sull’Istituto Italiano per l’ Intelligenza Artificiale, che pubblicheremo al prossimo Salone del Libro (14-18 ottobre);

Purtroppo, tutti questi sforzi pluridecennali sono stati inutili, di fronte alla palese volontà di una città di suicidarsi.

6.Il velleitarismo: copertura ideologica delle responsabilità dell’establishment

Purtroppo, sta prevalendo, in quei residui di classe dirigente che ancora sopravvivono a Torino, inaudite retoriche, secondo cui il fatto di essere stata, la nostra Città, fino al 1990, il centro di un impero industriale – come si diceva un tempo, ”Terra, mare cielo”- legittimerebbe la stessa a pretendere che le Autorità europee e nazionali e perfino Stellantis  concentrino qui alcune (per altro marginali), loro attività. In particolare, a proposito di batterie, vorrei ricordare che appena 5 anni fa la FIAT (oggi Stellantis) aveva venduto ai Giapponesi una delle più importanti imprese nel settore batterie per auto: la Magneti Marelli, di cui mi onoro di essere stato, fra il 1986 e il 1988, il responsabile dei Servizi Legali. Perché allora nessuno era venuto fuori con appelli per il mantenimento in Piemonte della manifattura? Avevamo ancora il bastone di comando anche in questo campo, in un colosso presente in tutto il mondo, e ora veniamo a piatire dalla Stellantis la creazione di una fabbrica che, nella migliore delle ipotesi, ci porterebbe in 10 anni 500 posti di lavoro da operaio. Perfino Termoli, che riceverà già a prima di queste fabbriche, si è lamentata del fatto ch’essa non compenserà certo i licenziamenti in corso pure laggiù.

Esemplare (in senso negativo), l’articolo di Salvatore Tropea su “La Repubblica” dell’8 agosto, che titolava con un’ affermazione già a prima vista insostenibile:”Il rilancio di Torino si fonda sull’ eccellenza del passato”. Ma quale eccellenza, se, nel giro di 50 anni, abbiamo ceduto tutte le nostre posizioni industriali alla Silicon Valley, a Milano, alla Motor Valley emiliana,  a Roma, a Parigi, a Detroit, a Shenzhen,  a tutte le province cinesi che, producono, ciascuna, anche con marchi tedeschi, più auto delle singole nazioni europee.

L’eccellenza industriale della Torino del passato era fondata innanzitutto sulle virtù politiche e militari dei Savoia e dei sudditi sabaudi, sulla grinta del sindaco Luserna di Rorà, di Gramsci,  del Senatore e dell’ Avvocato Agnelli, così come  sulla creatività di Adriano Olivetti. Una volta finite quelle generazioni, né la politica, né la cultura, né l’imprenditoria, né il management, si sono rivelati all’altezza di un passato sempre più lontano. Hanno prevalso la ristrettezza di orizzonti, il conformismo professionale e ideologico, gl’incesti fa politica ed economia, il servilismo dei gate-keepers, la mentalità burocratica del management,  la debolezza di carattere delle nuove generazioni, un’interpretazione quietistica del “pensiero unico” che incita all’ accettazione passiva di un presunto “corso della storia”.

Non vedo poi come Tropea possa affermare, con un riferimento criptico al recentissimo ridimensionamento dell’Istituto Italiano di Tecnologia, che quella sarebbe stata una “scorciatoia”, mentre invece Torino dovrebbe continuare a fare ciò che ha fatto in passato (anche se gliene sono stati tolti i mezzi). Ma si rende conto Tropea che, in questi 75 anni, nel resto del mondo le vocazioni economiche prevalenti sono cambiate molte volte, con l’avanzare trionfale, prima, del terziario, e, ora, del digitale?che le multinazionali americane “tradizionali” hanno ceduto alla Big Tech i primi posti nelle classifiche del Dow Jones? che la Cina non è più, né un Paese in via di sviluppo, né un Paese agricolo, né la “fabbrica del mondo”, bensì il “cervello del mondo”, e non importa più, bensì esporta, tecnologia? E noi invece aspiriamo solo a tornare ad essere, molto in piccolo, ciò che eravamo, in grande, nel secolo scorso?

Purtroppo, di questi grandi temi non sentiamo parlare nella campagna elettorale oggi in corso, e ci chiediamo se qualcuno abbia una qualunque, seppur misera, idea da proporre in proposito agli elettori.

Un Progetto Economico Europeo non può avere al centro se non la programmazione della transizione digitale

7.Un  Progetto Economico Europeo al di là della “Strategia Industriale Europea”

Situazioni come quelle di Torino sono presenti ovunque in Europa, anche se in modo meno drammatico. Esse dipendono dall’ assenza di un qualunque serio accenno di capacità programmatica. Come abbiamo viso, il processo di specializzazione e riqualificazione delle varie aree dell’Europa, lasciato senza “paletti” a un mercato d’ imprese sub-marginali esposte a concorrenti enormi, agguerriti e liberi di muoversi, ha portato a risultati assurdi, come il concentrarsi di fatto del controllo dei grand gruppi europei nell’Europa Centrale, il predominio nell’ Europa Meridionale di manifatture obsolete e di una pletora d’ imprese familiari nei settori commerciale e dei servizi alle persone. Non sono state presidiate le aree, oggi determinanti, della cultura, dell’informatica, dell’aerospazio, oggi completamente in mano agli USA e alla Cina.

L’attuale Unione Europea, anziché porsi, come sarebbe  nelle sue ambizioni,  quale il “Trendsetter del Dibattito Globale”, insegue faticosamente i nuovi scenari mondiali. Per esempio, la “Strategia Industriale Europea” era stata annunziata il 20 marzo 2020, vale a dire il giorno prima che l’OMS dichiarasse iniziata la pandemia di Covid. Ma la Cina aveva già fornito ben tre mesi prima le famose informazioni sul Covid, che qualcuno pretenderebbe “ritardate”. Com’è possibile che, a Bruxelles, nessuno si fosse ancora accorto che la pandemia avrebbe modificato profondamente lo scenario economico mondiale?

E, infatti, un anno dopo, la Commissione si è vista costretta a emettere una rettifica alla strategia dell’anno scorso, focalizzata sulla ricerca di rimedi contro le cosiddette “dipendenze” dell’Europa. Ma anche questa rettifica è monca: essa non tratta in alcun modo del problema più grave dell’Europa: la mancanza di  industrie digitali europee. La quale costituisce la più spettacolare fra le nostre dipendenze, in quanto lascia cultura, difesa, politica ed economia europee in balia dei GAFAM, che ci sottraggono continuamente dati, risorse, intelletti e materia imponibile, trasferendoli  fuori della UE.

I provvedimenti previsti dal documento della Commissione affrontano poi la questione in un modo così indiretto, da condannare l’iniziativa all’ insuccesso.

Innanzitutto, vi sono l’”Alliance on Processors and Semiconductor Technologies” ,l’ “Alliance for Industrial Data, Edge and Cloud “, l’”Alliance on Space Launchers” e l’”Alliance on Zero Emission Aviation”. Come si era però visto nel settore aerospaziale, queste “alleanze” sono paralizzanti, tant’è vero che tanto Arianepace, quanto Airbus, sono state poi trasformate, per renderle efficienti, in società di capitali , come avevo potuto constatare personalmente in qualità di responsabile del servizio legale della FIAT Avio, partner e fornitrice strategica di ambedue. Non per nulla era stato creato appositamente vlo strumento della “Societas Europaea”

Questa inefficienza si è vista ancora pochi giorni fa coll’annullamento, per l’opposizione spagnola, dell’ assegnazione dell’ appalto per il centro di supercomputer di Barcellona, alla ditta franco-americana ATOS (di cui il Commissario Breton era stato fino a poco fa il presidente), quando invece gli Spagnoli ritenevano più competitiva quella  di un consorzio sino-americano.

Il bello è che, mentre gli Stati Uniti godono (forse ancora per poco), di una posizione dominante a livello mondiale nei settori di alta tecnologia, ma sono riluttanti ad applicare, alle proprie imprese in posizione dominante, i principi della libera concorrenza da essi tanto decantati, e applicati così rigorosamente fino a un secolo fa (casi Standard Oil e AT&T), e l’Europa, che pur stando appena emettendo, in questo campo, i primi vagiti, pretenderebbe di costituire il modello mondiale della governance digitale, la Cina, che solo in questo secolo ha raggiunto gli Stati Uniti, non solo li sta superando industrialmente, ma sta anche applicando, con la precisione di un manuale, ai propri BATX, tutte le regolamentazioni  previste dai prolifici legislatori americani ed europei, ma completamente disapplicate dai relativi Enti regolatori. In tal modo, la Cina sa proponendo a mondo un modello di mercato digitale continentale retto sulla concorrenza perfetta fra molti produttori nazionali e controllato attentamente da regolatori di mercato retti dalle migliori norme europee  e americane (il vero “Trendsetter del Dibattito Mondiale”), togliendo all’ Europa anche questo primato.

I riferisco in particolare a:

a) l’Antitrust: L’Amministrazione Statale per la Regolamentazione del Mercato (ciò che è in USA la Federal Trade Commission), creata appena nel 2018, ha incriminato, e, in molti casi, multato, 35 aziende informatiche nazionali per fusioni non dichiarate, contratti di esclusiva vietati e tattiche commerciali non trasparenti;

b)la Protezione dei Dati:L’Amministrazione Cinese del Ciberspazio, creata nel  2014, ha sospeso la quotazione negli Stati Uniti della società cinese Didi per violazione dei protocolli di sicurezza;

3) “Espansione disordinata”.Altre imprese sono state penalizzate per altre violazioni delle regole del mercato.

Secondo alcuni commentatori, la  Cina starebbe abbandonando il modello americano, incentrato sull’ high tech, per abbracciare quello “tedesco” fondato sulla “fabbrica intelligente”, anche per controbilanciare le pressioni americane per sabotare le filiere di fornitura cinesi; secondo altri, queste misure sarebbero state adottate per venire incontro al desiderio dei cittadini cinesi di vedersi maggiormente tutelati contro le multinazionali, come promesso da tutti i Governi del mondo, ma attuato seriamente solo dalla Cina. Ambedue obiettivi assolutamente legittimi, e che a parole sarebbero comuni anche ai legislatori e regolatori europei, che però in realtà non li perseguono per nulla , lasciando  i nostri concittadini, le nostre imprese e i nostri lavoratori,  assolutamente indifesi, con i risultati che vediamo nella nostra Città.

Soprattutto, l’attuazione di quelle politiche rende  il sistema industriale cinese un modello completo e avanzato, tanto dal punto di vista strutturale che da quello dei diritti, superando dunque, nel primo caso, i monopoli tecnologici americani, e, nell’ altro, le pretese di leadership dell’ Unione Europea quale Trendsetter del Mercato Globale.

Speriamo che si possano criticare tutte queste “défaillances” nella Conferenza sul Futuro dell’Europa, con l’obiettivo di una “perestrojka” radicale del sistema economico del nostro Continente e della rinascita delle nostre Città.

“GIGAFACTORY”, INTELLIGENZA ARTIFICIALE, FACOLTA’ DI STUDI STRATEGICI

Continua il declassamento di Torino

Un legionario romano misura il territorio per la fondazione di una città

La notizia dell’assegnazione a Termoli della terza “gigafactory” per le batterie di Stellantis è stata accolta con atteggiamenti diversi da Autorità  e organizzazioni sindacali.

Premesso che quello di fare sempre commenti a caldo, pro o contro, è una sorta di malvezzo, perché i fenomeni sociali vanno valutati nel loro complesso, a noi sembra che comunque, per Torino e il Piemonte, le nuove notizie siano sempre più negative.

Infatti, la notizia della Gigafactory a Termoli è arrivata insieme a quella di un drastico ridimensionamento dell’ Istituto per l’ Intelligenza Artificiale (che non si chiamerà più così, ridotto a uno dei tanti hub, con soli 20 milioni di Euro, e limitato al trasferimentio di tecnologie ad auto, spazio e robotica).

Infine, non c’è più il progetto dei compressori, e, dulcis in fundo, si parla anche di abolire la Facoltà di Scienze Strategiche e di Sicurezza.

Bonifacio del Monferrato, conquistatore del Levante

1. Trasformazioni inevitabili

 Certo, è scontato che, con il passare del tempo, un mercato di beni di consumo, com’è quello dell’auto, si sposti sempre più verso i paesi di recente industrializzazione, dove ci sono miliardi di nuovi clienti. Basti dire che in Cina si producono oggi mediamente trenta milioni di veicoli all’ anno, di fronte ai quali anche i due milioni dell’ Italia nei tempi migliori non possono che impallidire.Per non parlare dei 400.00 dell’ Italia di oggi,  dei 40.000 di Torino-quantità assolutamente irrilevanti-.

E’ anche vero che le case automobilistiche decidono le strategie  in base alle loro convenienze, e che in Italia c’è ancora una politica per il Mezzogiorno, di cui la stessa FIAT aveva fruito a suo tempo ad abundantiam. E’ la FIAT, non Stellantis, né il Ministro Giorgetti, ad avere costruito Termoli.E’ la FIAT, non Stellantis, né Giorgetti, ad avere trasferito la propria sede all’ estero.  E’ anche vero che Stellantis è ormai, nella sostanza, un’impresa degli stakeholders, corrispondente agli standards europei di “public company” e al vecchio ideale mitteleuropeo dell’ “Unternehmen an sich” esaltato da Rathenau, ed è quindi logico che, semmai, guardi a un interesse generale europeo piuttosto che a interessi settoriali locali o cittadini (pensiamo al classico esempio della Società dei Battelli del Reno).

Tuttavia, resta il fatto che una politica locale democratica mantiene un qualche senso se essa persegue interessi a lungo termine degli specifici territori. Proprio gli stakeholders sono per natura “situati”(“geortet”). Interessi che dovrebbero essere coordinati con quelli generali, attraverso il concetto di “missione” e gl’istituti giuridici della partecipazione (dei lavoratori, del management, del Governo). Secondo un insegnamento tradizionale, le nazioni europee avrebbero ciascuna una loro “missione”, e, in ciascuna nazione, i singoli territori dovrebbero avere le loro specifiche missioni. Inoltre, in un’impresa cogestita secondo il modello mitteleuropeo, le rappresentanze dei vari settori aziendali e dei vari territori dovrebbero essere bilanciaste, come accade ad esempio nel Gruppo Volkswagen, ma non nel Gruppo Stellantis (dove la Francia è sovrarappresentata). E qui mi chiedo quale sia la responsabilità dei sindacati, che ora tanto si lamentano, ma non hanno mai voluto loro rappresentanti negli organi societari.

Torino nel 1706: la più grande fortezza d’Europa

2.Le vecchie missioni di Torino

In passato, l’idea di una “missione di Torino” era stata in un modo o nell’ altro perseguita, con l’idea del federalismo quale contributo dell’Italia all’ Europa (vedi per esempio il Movimento “Comunità”), e quella della FIAT quale fabbrica intelligente di Torino in Europa. Pensiamo alla Fondazione Agnelli, alle mostre organizzate al Lingotto e a Palazzo Grassi. Ma l’intero sistema Fiat andava molto al di là della Città dell’ Auto, con la finanza, il management, la cultura, i giornali, i sindacati, la Difesa, l’aerospazio, lo sport,…con una logica di “patriottismo cittadino” teorizzata dall’ Avvocato Agnelli.

Ora, tutte queste tradizioni sembrano spezzate. L’Europa non riesce a farsi valere nel mondo, anche perché non sa  diventare nemmeno una federazione (quando dovrebbe oramai essere uno Stato-civiltà), e Torino, dopo la distruzione dell’ Olivetti e il trasferimento  della CIR e della  holding FIAT, non è più (contrariamente a quanto si continua a millantare)una metropoli industriale.

Il che, di per sé, non sarebbe un problema se, negli ultimi 50 anni, i poteri forti della città avessero lavorato nel senso, a suo tempo promesso, di una conversione al settore dei servizi, quella conversione per cui noi avevamo lavorato, nella proprietà intellettuale, nel diritto del lavoro, nel business development, nei mergers  acquisitions: un centro d’innovazione tecnologica e sociale capace di irradiarsi nel  resto del mondo (come attraverso le infinite controllate che aveva il Gruppo FIAT, un centro di finanza internazionale, come aveva tentato di essere il gruppo CIR, la Città della Cultura promessa dalle amministrazioni locali). In realtà, nessuno di questi progetti è stato seriamente perseguito, né dal mondo imprenditoriale, né da quello politico,  i quali, incapaci d’incarnare idee forti e competitive,  hanno preferito inchinarsi ai trend dominanti, cedendo la leadership ad altri, siano essi la Silicon Valley, la piazza finanziaria di Londra, i paradisi fiscali, la Cina, la Francia, anche soltanto Milano.

Il Principe Eugenio di Savoia, comandante in capo delle armate imperiali, massimo condottiero d’Europa

3. Fine del progetto modernista europeo

Il tragico è che, anche in un mondo competitivo come quello attuale, tutti i territori sono costretti, volenti o nolenti, a reinventarsi continuamente una nuova missione. Chi l’avrebbe detto, quarant’anni fa, che Shenzhen sarebbe diventata la capitale dell’informatica o Dubai del turismo di lusso?)

Quindi, nonostante gli sconvolgimenti in corso negli scenari mondiali, è normale che i cittadini continuino ad attendersi, dalle loro classi politiche, se non delle soluzioni, almeno delle proposte in tal senso. Invece,  anche se forse loro malgrado, i politici locali riescono sempre meno a fare proposte sensate, perché è la società europea nel suo complesso che non ha progetti. E questo lo dicono oramai tutti, anche i vertici dell’ “establishment” locale, che non si rendono conto di essere loro la causa di tutti questi problemi.

Nell’Ottocento, gli Stati europei perseguivano  obiettivi di forza politico-militare perché questa permetteva la razionalizzazione delle infrastrutture e la partecipazione all’ impresa coloniale(i treni, la flotta); nel ‘900, essi si attribuirono una funzione sociale per trainare l’industrializzazione e i consumi (l’auto, le assicurazioni sociali, l’edilizia popolare,la televisione); alla fine del secolo scorso, si perseguirono progetti di promozione sociale (il welfare State europeo) per coinvolgere le masse nella globalizzazione. Oggi, av prescinere dal fatto che quelli precedenti avessero un senso, i Governi europei non hanno più progetti. Il Green New Deal è innanzitutto un progetto cinese (massimo produttore di attrezzature per l’economia “verde”). La digitalizzazione europea è stata subappaltata ai GAFAM. La leadership della globalizzazione è passata, prima all’America, poi alla Cina; il benessere si diffonde negli ex Paesi sottosviluppati; la pretesa dell’Europa di essere leader della società dell’ informazione è sempre meno credibile.

Il Next Generation EU e il PNRR, gli ultimi miti dell’Europa, si stanno rivelando per quello che sono: dei modesti rattoppi su una situazione compromessa. Intanto, essi rappresentano una quota infinitesimale  del PIL europeo e italiano. Inoltre, come ha rilevato il  Giorgio Metta, direttore scientifico dell’ Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, essi considerano l’Intelligenza Artificiale, che è l’asset centrale del futuro, non come “una disciplina su cui investire a livello di ricerca” bensì come  “una commodity da acquistarsi da qualcuno”. In queste condizioni, è chiaro che l’Italia e l’Europa sono condannate a divenire delle colonie tecnologiche. Anche Torino, un tempo, con l’auto e il cinema, la moda e l’aeronautica, la cultura e la finanza, cuore pulsante dell’ economia italiana e una delle principali metropoli europee, non può fare altro che ripiegarsi su se stessa, rassegnandosi a una forma di musealizzazione. Una “Residenz”, come la chiamava Nietzsche, ma che aveva il suo stile (parzialmente conservato fino ad ora) solo grazie al fatto di essere ancora, dopo la perdita della capitale, la patria dei Grandi del Regno .

In Corso Marconi, dove c’era la Holding FIAT, s’erano incontrati nel 1821, gl’insorti della Cittadella di Alessandria e gli studenti rivoluzionari

4.Schizofrenia delle Autorità

Le Autorità locali hanno un bel gridare all’unisono al tradimento (da parte del Governo), finalmente in modo “bipartisan”, ma quale obbligo  avrebbero quelle nazionali di sostenere questa o quella città?

Secondo il Presidente Cirio e la Sindaca Appendino, la “gigafactory” doveva essere collocata a Torino per via della tradizione automobilistica  della Città “che ha inventato l’automobile”. Ma non è vero!L’auto fu inventata in Francia e in Germania da Cugnot, Lenoir e Benz.  E poi, chi l’ha detto che, anche cambiando totalmente l’economia mondiale, le città debbano continuare a produrre eternamente le stesse cose? Infine, già oggi c’è più automobile nel Sud Italia e in Emilia Romagna che a Torino. (400.000 auto prodotte in Italia contro le 40.000 a Torino).

Poi, non è neanche vero che la Gigafactory ha bisogno del Politecnico di Torino.500 dipendenti entro 10 anni,. Una cifra infinitesimale dei 7.000 managers degli ex “Enti centrali” che Stellantis si accinge a licenziare. E, poi, non si crederà mica che per fare andare avanti una fabbrica automatizzata di batterie ci vogliano tanti managers o progettisti locali? Basta andare a vedere la fabbrica modello della Lamborghini di Sant’Agata Bolognese, dove il capo progettista è Mitja Borkert, inviato dal Gruppo Volkswagen. Gli “operai” sono essenzialmente dei periti usciti dalle ITIS bolognesi e forniti di uno speciale training.

Non si può, né si deve, poi, arrivare, agli estremi di garantismo della cosiddetta “Embraco” (che in realtà è l’Aspera Frigo di Riva di Chieri),  ceduta al cliente  Whirpool, che la cedette a sua volta  alla sua controllata brasiliana Embraco, che a metà degli anni ’80 vantava 2500 lavoratori impiegati ed una produzione di 4 milioni e mezzo di compressori. Ma anche la Embraco venne ceduta dalla Whirlpool  ai Giapponesi, che di Riva di Chieri non ne vollero sapere. Il Governo italiano aveva tentato di riciclare lo stabilimento, con il trasferimento del ramo d’azienda alla Ventures Srl (israeliani e cinesi). Questa avrebbe dovuto diversificare la produzione (non più compressori ma robot) assicurando lavoro e reddito agli ultimi sopravvissuti di quella che fu una grande azienda, vale a dire più o meno 500 lavoratori in cassa integrazione. Invece giunsero la magistratura, la Guardia di Finanza, le perquisizioni e i sequestri: la Ventures fallì prima di iniziare l’attività, portando sulle spalle il peso di un’accusa di bancarotta fraudolenta.

Adesso è fallito l’ ennesimo progetto governativo: la fusione tra l’ Ex-Embraco e la ACC-Wanbao (entrambe in crisi): nome Italcomp; obiettivo, salvare 700 posti di lavoro in totale. Il tutto con l’intervento economico di soldi pubblici e privati.

Ma che senso ha che si sostenga per decenni un’attività che nessuno vuole (né la FIAT, né gli Americani, né i Brasiliani, né i Giapponesi, né gl’Israeliani, né i Cinesi) quando ce ne sarebbero cento altre da creare in Italia, molto redditive  richieste dai mercati di oggi?

Gli scontri di Piazza Castello nel 1864

5. Le missioni delle città sono sempre “polemiche”

D’altronde, la cosa non si è mai detta fino in fondo, ma la fortuna di Torino quale città della metalmeccanica è un’eredità della politica militaristica dei Savoia e del fascismo. La FIAT decollò con la guerra  italo-turca e divenne quel colosso che era grazie alla prima e alla seconda guerra mondiale. Anche dopo la seconda, la conversione all’ economia di pace fu facilitata dalle commesse militari. Con il diminuire delle guerre in Europa, e con la tecnicizzazione delle stesse, non c’è più bisogno di un’enorme industria meccanica nazionale. La “reindustrializzazione” è di moda negli USA perché essi si preparano a una guerra e non si fidano degli alleati. Ma, a parte il fatto che gli Europei sono più pacifisti, qui abbiamo bisogno di un’industria meccanica europea integrata, non già nazionale. Semmai, ci sarebbe bisogno di un’industria elettronica ed aerospaziale europea, a cui però gli Stati Uniti non ci vogliono dare accesso, come dimostrato già cinquant’anni fa dalla vicenda Olivetti.

E’per questo che l’Istituto Italiano per l’Intelligenza Artificiale  sarebbe stato così importante, ed è per questo ch’esso è stato “smontato”, trasformandosi in un innocuo “hub” per il trasferimento di tecnologia alle (scvarse) industrie esistenti.Infatti, le più recenti formulazioni di compromesso parlano di soli 20 milioni (contro gli 80 originari),  destinati solo al trasferimento di tecnologie alle industrie esistenti: automotive (che quasi non c’è più), robotica e aerospaziale.

Resterebbero la cultura e il turismo, ma anche queste non vengono coltivate come dovrebbero perché un loro approfondimento implicherebbe anch’ esso di evidenziare aspetti non “politicamente corretti”, quali le onnipresenti radici sabaude e cattoliche, il carattere polemico ed anticonformistico della cultura piemontese, da Alfieri a Salgari, da Nietzsche a Gramsci, da Burzio a Pavese.

Vogliamo ricordarlo che, a fasi alterne, sono stati tabù le lettere di Nietzsche, i Quaderni dal Carcere, il Demiurgo di Burzio e il diario segreto di Pavese?

Perfino l’enorme influenza del modello del Lingotto sull’ architettura razionalista è stata tenuta nascosta per le sue assonanze futuristiche e littorie. Non parliamo poi di quando si era scoperto che la Juergen Ponto Platz di Berlino era stata copiata da Via Roma.

Adesso vogliono togliere a Torino anche  qualcosa del corso di laurea di Scienze Strategiche e della Sicurezza, erede ultima delle tradizioni antiche delle “Regie Scuole Teoriche e Pratiche di Artiglieria e Fortificazione” volute da Carlo Emanuele III di Savoia.

L’occupazione delle fabbriche a Torino nel 1921

6. Che fare?

Perfino i giornalisti mainstream, come Luigi La Spina sui La Stampa, giungono a conclusioni sconfortanti: ”parole di cui abbiamo già sentito, di cui abbiamo già verificato i risultati e che non vorremmo più ascoltare nella loro genericità, e quindi, inutilità, il mistero delle concrete scelte  dei candidati alla poltrona di sindaco resta insondabile”.

Alla fine, la stessa Stampa invita all’ astensionismo alle prossime elezioni amministrative: ”E crescerà la voglia di sottrarsi a una così allettante competizione”.

Non crediamo che sia questa la soluzione. La tradizione storica di Torino è polemica come poche altre. Dal villaggio taurino incendiato da Annibale perché si opponeva all’ invasione dell’ Italia, ai legionari le cui centuriazioni si vedono ancora dal Bosco del Vai, alle lotte solitarie del dissidente vescovo Claudio di Torino, dell’autoproclamato Re d’Italia Arduino, di Bonifacio del Monferrato, che tentò di conquistare la Macedonia e del Colonnello Arnaud, fino alle vittorie geopolitiche di Emanuele Filiberto e il Principe Eugenio, comandanti in capo delle truppe del Sacro Romano Impero, fino alla più grande fortezza d’Europa, alle guerre risorgimentali, all’ occupazione gramsciana delle fabbriche (esaltata da Gobetti come “Rivoluzione Liberale”,  al programma “Terra, Mare, Cielo”, alla Resistenza, all’Autunno Caldo, alla produzione dell’F104, del Tornado e del Typhoon.

Perfino Mussolini, in un discorso a Torino, si era sentito in obbligo di scusarsi per il fatto che parlava di pace a un pubblico ch’egli riteneva particolarmente bellicoso.

A questo punto, c’è da chiedersi: ha senso che i Torinesi accettino ormai da gran tempo tutte queste “capitis deminutiones” senza mai reagire?

Certo, non sono più i tempi dell’insurrezione carbonara della Cittadella di Alessandria, né dei moti del 1864, quando i Carabinieri ammazzarono una cinquantina di Torinesi, né quelli di Nizza, dove lo stewsso fece la Guarde Nationale, né dei fatti di Piazza Statuto.

Tuttavia, ancor oggi, in tutto il mondo vi sono momenti di protesta corale nelle città, come per esempio ciò che continua a succedere in Catalogna, per non parlare di “Black Lives Matters”. Senza necessariamente chiedere a nessuno di scendere materialmente in piazza, s’imporrebbe da parte di tutti una maggior radicalità nel pensiero e nella prassi politica.

LA DECRESCITA INFELICE IN EUROPA, ITALIA E TORINO

Il piano degli orari della Via della Seta disegnato dall’ osservatorio Tav come se fosse un metrò

Siamo stati educati, almeno a partire dalla 2° Guerra Mondiale, a pensare che l’unico obiettivo seriamente perseguibile da parte di una società fosse l’incremento della disponibilità di beni materiali. Certo, vi erano profonde differenze fra coloro che proponevano questo benessere come realizzabile attraverso un ordinato sviluppo dei ceti produttivi in base alle leggi consolidate nella storia, e quelli che sostenevano, invece, che il pieno sviluppo delle energie produttive si sarebbe potuto ottenere soltanto con una rigida organizzazione economica diretta da un partito progressista; fra coloro che sostenevano che il benessere dovesse essere distribuito sal mercato o dallo Stato. Tuttavia, l’obiettivo finale restava lo stesso: “case, scuole, ospedali”, ottenuti attraverso l’industrializzazione: in una parola, “il Progresso” (Taguieff, “Le sens du Progrès”). Tanto il “miracolo economico” occidentale quanto la “costruzione del socialismo” ad Est furono alimentati da questo obiettivo. Fu un periodo di duro lavoro, e anche di repressione, ma che suscita tutt’ora, in coloro che l’hanno vissuto, un ricordo positivo, in primo luogo come reazione agli orrori e alle privazioni della 2° Guerra Mondiale, e, in secondo, per l’apparente successo della ricostruzione, confrontato con la “stagnazione” che seguì, in tempi diversi, all’ Est e all’ Ovest. Non per nulla le televisioni di tutta Europa continuano a propinarci ancor oggi spettacoli che richiamano i fasti provinciali di Sanremo e dei cori dell’ Armata Rossa, del Commonwealth e dell’ Ostalgie.

Oggi, però, dopo mezzo secolo di sotterranea erosione dell’economia europea, dalla morte di Olivetti allo shock petrolifero, dal debito polacco alla “Stagnazione” brezhneviana, dalle delocalizzazioni ai “defaults”, dalle sanzioni ai dazi, nessuno crede più che il futuro prometta all’ Europa un mondo di ricchezza crescente. Le statistiche sono lì a dimostrare che la quota dell’economia mondiale che si muove al di fuori dell’ Europa aumenta costantemente. Anzi, sono tutti convinti che la nostra situazione continuerà a peggiorare, almeno rispetto alla Cina, all’ India e all’ America (anche se nessuno dice veramente perché). Una spiegazione implicita, anche se detta a mezza bocca, è quella della “middle class trap”: quando un Paese raggiunge un certo livello di benessere, non sarebbe più competitivo e perderebbe anche l’incentivo a migliorare. Spiegazione che reggerebbe solo all’ interno della “Teoria dello Sviluppo” di Rostow, che presuppone che sempre e dovunque si debba seguire l’iter storico che ha caratterizzato gli Stati Uniti, mentre invece la storia sta dimostrando che l’iter dell’economia segue strade diverse a longitudini e latitudini diverse. Ed è questo che sta mettendo in crisi filosofia e religione, politica e società. Basta che certe aree non siano sotto l’influenza politica degli Stati Uniti, e le “leggi dello sviluppo” perdono di valore: basta guardare la Cina.

A mio avviso, per capire la crisi dell’Europa, dell’Italia e di Torino, occorre cumulare almeno tre effetti: l’indebolimento della tempra degli Europei er effetto educazione anti-identitaria post-bellica; il ruolo direttivo degli Stati Uniti; la scelta della decolonizzazione, fatta  accettando, direttamente o indirettamente, la Carta Atlantica.

L’“educazione antiautoritaria”,  che trova le sue radici nell’etica kantiana, che si è sviluppata (seppure con ripensamenti) con la Scuola di Francoforte e si completa con il consumismo, ha tolto agli Europei quel piglio polemico che è necessario per qualunque azione seria, anche per fondare imprese, dirigere i collaboratori, sconfiggere la concorrenza ed invadere lontani mercati. La subordinazione agli Stati Uniti ha fatto sì che si accettasse la programmazione di fatto della società da parte americana, istituzionalizzata con il Piano Marshall, con l’implicita condizione di subire sempre le priorità dell’America (“America First”), e sacrificando di conseguenza quelle europee. Come si vide con i successivi obiettivi dell’allargamento dei consumi, della democratizzazione, delle liberalizzazioni, delle privatizzazioni, della deregolamentazione, dei “diritti”, delle guerre umanitarie, della lotta al terrorismo, della “politica di internet”, del blocco all’ immigrazione, ecc…La decolonizzazione, portata fino in fondo, ha portato anche a una diversa ripartizione delle funzioni sociali nella divisione internazionale del lavoro, dove i ruoli meglio pagati (imperiali, imprenditoriali, politici, finanziari, intellettuali, manageriali) sono passati gradualmente dall’ Europa all’America, alla Russia, alla Cina, all’India, al Medio Oriente, restando in Europa sempre più quelli gregari,  meramente esecutivi. Lo stesso Aiuto allo Sviluppo  è stato una forma di restituzione di ricchezza , preconizzata già da De Las Casas, per compensare gli effetti del colonialismo, alla fine del quale si dovrebbe a rigore ipotizzare che il PIL pro-capite dei Paesi donatori e dei Paesi recipienti dovrebbe risultare eguale (già oggi si è molto ravvicinato).

A meno che, nel frattempo, non fossero state inventate nuove forme di eccellenza, che ci permettessero di emergere nella competizione internazionale in modo diverso. Che è quello che ha fatto l’America con l’informatica, la Russia con l’esercito e la Cina con la Via della Seta.

Ciò avrebbero dovuto esserlo, per l’ Europa, i cosiddetti “valori post-materialistici”. Era in sostanza ciò che l’ Unione Europea ci prometteva quando parlava dell’ “Europa potenza gentile”, propositrice del federalismo, un nuovo esperimento di convivenza internazionale che avrebbe fato di noi un modello da imitare. E quello che diceva anche Jeremy Rifkin, americano immigrato in Europa che sosteneva che il “sogno europeo” avrebbe surclassato il “sogno americano”.

Nulla di tutto ciò è avvenuto. L’Europa non sta più inventando nulla, mentre, invece, l’America continua a inventare Internet e la Singularity, e la Cina la Via della Seta. Probabilmente, la nostra via ai valori post-materialistici era sbagliata.

Certo, una forma di “restituzione” ai Paesi coloniali era dovuta. L’aveva già scritto Bartolomé de Las Casas nella sua “Relaciòn sobre la destrucciòn de las Indias”. Tuttavia, a me sembra che tale restituzione sia già abbondantemente avvenuta, con l’abnorme trasferimento di ricchezza in America, e negli altri “Paesi di immigrati”, da almeno un secolo, e con 70 anni di aiuto allo sviluppo. L’Europa ha avuto in passato delle colpe, ma non si può fargliele pagare in eterno, soprattutto quando sono 500 anni che si permette invece di prosperare senza rimorsi e senza scuse ai cosiddetti “Paesi di emigranti”, che in realtà sono i veri Paesi dei genocidi e delle spoliazioni. Infine, fin qui nessuno ha considerato l’ulteriore trasferimento transnazionale di risorse che sta avvenendo comunque, verso i Paesi artici, per effetto del surriscaldamento atmosferico.

Comunque sia, si diceva, crollate le non motivate speranze di una ricchezza comparabile a quella di  epoche irripetibili, figlie indirette della mobilitazione bellica, ci sarebbero rimasti almeno i “valori” di pace, libertà e democrazia, ma anche questi, dopo decenni di partitocrazia, spionaggio, smantellamento delle imprese e dei diritti, guerre umanitarie, sembrano sempre meno realizzati, e perfino non più credibili.

Oggi, si parla solo più di “stabilità”, di “risparmio” e di aiuto ai più deboli, ma anche queste sono parole vuote, perché è evidente a tutti che l’economia europea ci sta franando sotto i piedi, che viviamo di rendita e che fra breve nulla dei “diritti sociali” resterà in piedi. Il nostro relativo benessere nesce soltanto dalla scarsa fecondità, che fa sì suddiviso che un PIL decrescente per un numero decrescente di abitanti, il PIL pro-capite resti invariato, in modo che tutti possano continuare a vivere di rendita fin che muoiono, senza lasciare eredi.

Sarebbe ora che si compisse una seria riflessione sui veri “valori post-materialistici”, che oggi vengono in realtà repressi, per esempio distruggendo il patrimonio naturale e storico, attaccando le religioni, minimizzando il ruolo della cultura classica e tagliando i fondi alla cultura.

Nel terzo trimestre del 2018, non soltanto l’economia italiana, ma anche quella europea, si sono attestate sulla “crescita 0”, quel mitico obiettivo che paradossalmente il Club di Roma, Serge Latouche e Beppe Grillo hanno indicato come positivo, e necessario da raggiungere, ma che certamente non fa piacere alla gran parte degli Europei, anzi li inquieta a tal punto da spingerli a disertare il voto (e/o a votare per i “populisti”).

Sui giornali si afferma che l’opinione pubblica (per esempio, a Torino) rifiuta la “decrescita felice”, ma nessuno (men che mai economisti e politici) è in grado di dirci come si potrà conseguire una crescita reale (vale a dire superiore all’ inflazione e all’ obsolescenza tecnologica), dato che tutte le ricette delle scuole economiche ufficiali (protezionismo e liberismo, assistenzialismo e deregulation, keynesismo e socialismo), sono già state tentate senza successo. Non sarà certo (ammesso che si faccia) la TAV, ultimo rametto ancora incompiuto della Via della Seta, a fare per noi  una reale differenza.

Sarà pure che l’opinione pubblica rifiuta la “decrescita felice”, ma questo significa solo che l’opinione pubblica non conta nulla. In realtà, l’”establishment” ha sposato da sempre la decrescita felice, vale a dire la rinunzia, da parte dell’ Europa, a rivendicare un suo peso nella divisione mondiale del lavoro, e del potere. Questo perché da sempre è partita dall’ idea che noi dovessimo essere i “followers” dell’ America, e che le cose più ambiziose (ideologia, spazio, guerra, scienza) non fossero fatte per noi. Ora, dopo un secolo di rinunce, è evidente che il gap tecnologico fra noi e le Grandi Potenze è divenuto così incolmabile, che esercita effetti pesantissimi anche sull’economia e sulla vita di tutti i giorni (per esempio, attraverso le multinazionali dell’ informatica).

Quanto, poi, all’ economia di Torino, essa va, certo, verso la decrescita più spaventosa del mondo intero, ma per nulla felice. E come potrebbe essere diversamente se abbiamo perso, nel tempo, la Corte, l’aristocrazia, la cinematografia, i computer, la moda, l’editoria, la formazione, l’aeronautica, le automobili, la finanza? Di che cosa si potrebbero occupare oggi coloro che prima erano cortigiani, ufficiali, rivoluzionari, progettisti, dirigenti d’azienda, bancari, tecnici, operai, editori, sindacalisti, e, soprattutto, i loro figli? Certo, possono sempre emigrare, ma, in un’era di “familismo amorale”, di micronazionalismi e di lottizzazioni ideologiche, quante “chances” hanno i nostri giovani qualificati di fare carriera  contro gli emigranti dal Sud e dell’ Est, contro i Tedeschi o gl’Inglesi?

E’ giunto dunque il momento di riflettere seriamente, a livello “filosofico”, su che cosa conti veramente per noi e su che cosa ci stia veramente accadendo.

1.Critica della ragione economica

Intanto, c’è del vero nelle esternazioni di Beppe Grillo, che riprendono una polemica di lunga data di ampi settori della cultura e della politica. Dopo settant’anni passati a studiare accanitamente per trovare un lavoro, a investire per il futuro, a spendere il nostro tempo in fumosi uffici, in  maleodoranti officine e su infermali autostrade; a batterci per poterci realizzare nella società; a litigare per imporre una determinata condotta aziendale o di economia nazionale, incominciamo a chiederci se il nostro errore non sia consistito proprio in questa frenetica ossessione per l’ economia. Questa fissazione ci ha istupiditi, ci ha alienati, ci ha indeboliti, ci ha impedito di comprendere come vadano veramente le cose, di dedicarci quanto conviene alla cura di noi stessi – il che significa anche alla lotta civile per fare valere le nostre ragioni, anche in campo economico-.

E i risultati di questo istupidimento si vedono: l’Europa fanalino di coda della crescita mondiale; l’ Europa senza industrie informatiche, culturali, della difesa; l’Europa protettorato dell’ America e colonizzata economicamente dall’ Asia. Non passa giorno senza che le nostre imprese siano acquisite, quale dagli Americani, quale dai Cinesi, chi dagli Arabi, chi dai Giapponesi, chi dagl’Indiani, chi dai Turchi, chi dai Russi. Noi invece non acquisiamo mai nulla in quei Paesi.

Bel risultato dopo settant’anni di sedicenti governanti europeisti, che a Lisbona avevano promesso che l’Europa sarebbe divenuta nel 2010 l’area economica più competitiva del pianeta.

La fine della politica è stata, dunque, anche la fine dell’autoaffermazione dell’Europa.

2.Guerra senza limiti

Ha ragione Grillo: in una società ben ordinata, l’economia dovrebbe costituire soltanto una parte delle nostre preoccupazioni, le altre essendo la spiritualità, la salute, la comunità, la natura, la cultura…Ma noi non viviamo affatto in una società ben ordinata, bensì in una società decerebrata, che corre deliberatamente verso l’autodistruzione.

Fermare questa corsa costituisce la nostra ragion d’essere oggi. Quale dunque l’ordine delle priorità in questo “stato di guerra” permanente contro le macchine intelligenti e un establishment traditore e suicida?

“Primum vivere, deinde philosophari”. Ma è veramente un “vivere” il sopravvivere in questo limbo in cui da decenni vediamo lo sfacelo, lo denunziamo, cerchiamo di raddrizzarlo, ci battiamo, ma non serve a nulla? Forse non abbiamo proprio riflettuto abbastanza, e non abbiamo combattuto abbastanza, o almeno non in un modo strategicamente efficace. Occorre dunque ritornare ai massimi principi, alle ragioni per cui vale la pena vivere e di combattere.

 3.Una classe dirigente perduta

E’ vano attendersi che, senza essere stata debellata sul campo di battaglia, una classe dirigente riconosca apertamente che la propria visione del mondo è sbagliata, e che, quindi, la propria leadership è inutile e dannosa. Quindi, dovremo assistere ancora per lungo tempo all’agonia di questo “establishment”, che, pur cambiando continuamente cappelli ed etichette (fascismo, Occidente, democrazia, progresso, sinistra, liberalismo, 2° Repubblica, populismo), non riesce a cambiare nella sostanza, salvo declinare ininterrottamente al ribasso, come i gamberi, le proprie rivendicazioni ideologiche: prima, il “primato morale e civile degl’Italiani”,poi, l’ eguaglianza universale, e, via via, la “democrazia”, ”, il miracolo economico, il progresso tecnico, l’ antiautoritarismo, l’ “innovazione”, i “diritti”, il costituzionalismo, la ricostruzione, almeno, la “ripresa”, la “ripresina”…

Continueranno così ancora un bel po’, trovando sempre nuovi camuffamenti per impedire di vedere i problemi e impedire una trasformazione effettiva.

Intanto , diviene possibile comprendere il filo rosso della logica di potere che ha dominato questi decenni. Ha ragione anche Chiara Appendino a difendersi dalle accuse da destra e sinistra, affermando che sono state queste ultime, e non il Movimento Cinque Stelle, a coprire il progressivo declassamento della città, coprendo con parole antisonanti come Patria e “Roma o Morte”, atlantismo e libera competizione; consolidamento,  apertura dei mercati e globalizzazione, la realtà vera di una città che si arrendeva senza combattere.

 4. L’economia quale strumento d’indipendenza

Il dibattito sul “reddito di cittadinanza” ci permette di comprendere quale sia la funzione più importante  dell’economia nella società postmoderna. Se la maggior parte della popolazione dovesse veramente essere mantenuta dallo Stato, come ormai quasi tutti credono,e alcuni, addirittura, propugnano,  la prima sconfitta sarebbe quella della libertà: lavoro e ricchezza sono infatti due forme fondamentali dello “jus activae civitatis”. Esse non sono valori fini a se stessi, bensì due strumenti con cui le persone libere possono condizionare la società, e, in tal modo, contribuire a fare la storia. Se si tolgono loro queste due forze, divengono ciechi strumenti di una volontà impersonale: il Servo Arbitrio, la Volontà Generale, il General Intellect, la Singularity.

Ma, come dicevo, noi non viviamo in una società normale, bensì in uno stato di guerra civile mondiale: abbiamo una ben precisa guerra da combattere (la “Guerra senza Limiti”), quella contro il dominio, sulle persone, delle macchine intelligenti. Orbene, come in tutte le guerre, ci vogliono i combattenti e i soldi. Per questo l’economia continua ad essere importante: serve, o, meglio, dovrebbe servire, innanzitutto, per  addestrare i lavoratori/cittadini a controllare le macchine intelligenti e per generare quelle risorse che ci permettano di fronteggiare l’escalation tecnologica che si sta sviluppando a livello mondiale. L’Europa è oggi purtroppo all’ultimo posto nella società digitale mondiale, dopo USA, Cina, Russia e India.

 5.Che cosa non va dunque nell’ economia europea?

Ho scritto spesso in questo blog circa i limiti dell’economia europea. Oggi, due anni dopo l’elezione di Trump, le nostre analisi si sono rivelate più esatte di quanto mai avessimo osato immaginare: si tratta del cosiddetto “contingentamento dell’ Europa” profetizzato da Trockij e realizzato in esito alle due Guerre Mondiali. Affinché si perpetui il mito dell’America quale guida dell’ Umanità, occorre, occorre che nessuno ne offuschi il primato simbolico, soprattutto nessuno in Occidente. Altrimenti, nessuno crederà più, non solo alla sua missione provvidenziale, ma, alla fine, neppure alla Modernità quale sbocco finale e necessario della Storia.

Con le due guerre mondiali, l’ America si è garantita dunque il controllo dei “rubinetti” con cui può regolare a suo piacimento lo sviluppo dell’Europa: l’ideologia; le lobby; la finanza; i media; la tecnologia; la bomba atomica; le basi militari; il dollaro; le multinazionali. Grazie a tutto questo, ha potuto trasferire le contrattazioni finanziarie da Londra a New York,  l’arte astratta da Parigi a New York, le industrie militari dalla Germania e le prime tecnologie digitali dall’Ungheria e dalla Polonia; ha potuto programmare l’economia europea con il Piano Marshall; stroncare Olivetti, Concorde, Minitel; comprare le multinazionali europee; scremare tutti i business con il web e i paradisi fiscali; strangolare il business con la Russia e l’ Iran e rendere più care le nostre esportazioni; prelevare una tassa maggiore per la difesa nonostante le nostre difficoltà economiche.

Ancora oggi, l’America condiziona perfino il nostro modo abnorme di essere filo-russi, sotto la pesante ombra di Trump.

6.Dal contingentamento americano allo svuotamento dell’ economia novecentesca

Potrebbe andare peggio? Certo che può andare peggio; in un certo senso, va  già peggio.

E’ brutto essere un protettorato contingentato, ma è ancora più brutto essere contingentati da un Paese che sta diventando a sua volta una colonia. Ora, come osserva Foer nel suo “I nuovi poteri forti”, le Big Five stanno svuotando delle sue prerogative lo stato americano, conducendo una loro politica autonoma con la Cina; manipolando le elezioni, l’editoria e i media; imponendo un succube conformismo agli intellettuali; sovrapponendosi ai servizi segreti; imponendosi al presidente; declassando le multinazionali. Fra breve, lo Stato americano sarà una semplice colonia delle Big Five, e noi il protettorato di una colonia.

Peggio ancora è l’essere il protettorato di una colonia quando il colonizzatore va verso la guerra contro una coalizione invincibile: quella eurasiatica ( il Comitato di Difesa di Shanghai).

 7.Gli scambi con l’ Eurasia: una “leva” per riequilibrare i poteri con gli USA

Per uscire dalle prospettive, assai prossime, della recessione, aggravata dalla certezza dell’impossibilità del rilancio, per mancanza di idee, dell’economia europea, ma soprattutto dall’ affermarsi della Società delle Macchine Intelligenti e ancor più dal rischio incombente di guerra fra l’America e il resto del mondo per difendere la propria egemonia, l’unico salvagente a cui aggrapparsi è un possibile contrasto all’ egemonia americana appoggiandosi alla crescente influenza dell’Eurasia.

Fortunatamente, nell’elogiare la TAV, i promotori della manifestazione torinese hanno pronunziato le fatidiche parole “Eurasia” e “Via della Seta”, che oggi costituiscono le uniche uscite di salvataggio dal declino. E, in effetti, ben pochi sanno che la TAV è una delle ultime maglie della Via della Seta: una delle poche ancora non completate.

Se la politica è, come diceva Bismarck, un “parallelogramma delle forze”, allora è un fatto obiettivo che la “ragnatela” che avvolge il mondo a partire dall’ America si sta lacerando in vari punti: nel Mar della Cina, in Medio Oriente, in Africa. Emergono punte avanzate della Cina in Pakistan, Kenya, Etiopia,Grecia, Serbia, Ungheria, Italia. La Russia ha i propri agganci in tutta Europa, in Siria, in Iran, ma anche in Israele.

Tutto ciò non può non avere il proprio impatto anche a Bruxelles e negli Stati Uniti, e infatti lo ha. Suoi prodotti: i “4 di Visegrad”, i “16+1”, l’ ASEM, Trump. Per ora, si tratta di una trasformazione infinitesimale: nessuno di questi fenomeni ha ancora realizzato il “sorpasso” della Cina sugli USA, né la fuoriuscita di nessun Paese dalla visione del mondo scientista e messianica nata da Cristoforo Colombo e da Bacone. Tuttavia, s’incominciano a sentire i primi scricchiolii dell’impianto puritano e atlantico in cui siamo ingabbiati: il ritorno, nel discorso pubblico, delle antiche religioni e dei classici delle filosofie orientali e occidentali; una certa qual maggiore confidenza in se stessi di molti popoli; la ripresa, da parte di molti governanti europei, della “politica dei due forni” cara ai vecchi governi democristiani (cfr. p. es., Tsipras, Orban,Salvini, Di Maio, Heiko Maas, Macron….).

Certo che Macron ha effettivamente detto che la politica europea di difesa è diretta anche contro gli Stati Uniti. Ma è quello che diceva sempre anche De Gaulle, quando affermava che la “Force de Frappe” dev’essere “à tous les azimuths”. Ma perché mai non dovrebbe esserlo, quando Trump stesso considera gli Europei come dei nemici e lo dice anche?

Comunque sia, queste prime avvisaglie potrebbero annunziare una trasformazione reale se anticipassero una politica unitaria dell’ Europa. Lo stanno intuendo tanto l’attuale “establishment” , quanto i sedicenti “sovranisti”. Nessuno dei due ha però un progetto strategico convincente, perché nessuno dei due osa affrontare il tabù che è alla base dell’ attuale sistema: la subordinazione culturale, storica, ideologica, politica, militare, economica e sociale all’ America, che viene documentata da sempre nuovi, ponderosi libri in tutti i campi dello scibile, dalla storia(Israel), all’economia (Eichengreen, Steil), alle relazioni internazionali (Hathaway,Shapiro).

Se, nell’ analisi delle ragioni remote della crisi, si partisse dallo studio approfondito della subordinazione complessiva dell’ Europa,   quest’ultima farebbe poi relativamente in fretta a darsi un’autonoma cultura, a organizzare una “sovranità digitale europea”, a  creare una leadership coerente, a organizzare dei “campioni europei” in sostituzione degli ormai pochi e obsoleti “campioni nazionali”.

E si riuscirebbe anche a rispondere a Trump:

-che non c’è alcuna ragione per cui l’America debba spendere per la difesa più di 700 milioni di dollari l’anno, cioè la metà della spesa militare mondiale, che costituisce obiettivamente una minaccia per tutti i Paesi del modo, e il maggior incentivo per la corsa agli armamenti;

-che, se Europa e Usa vogliono restare alleate, occorrerà ridimensionare gli obiettivi militari, dall’ offesa alla difesa;

-che, ammesso che l’Europa aumenti le proprie spese, non lo dovrà fare in modo funzionale alla difesa americana, bensì fornendosi di ciò in cui essa è oggi carente (intelligence, cyberguerra, nucleare, missili ipersonici, armi spaziali), e favorendo la propria industria della difesa.

Solo in quell’ atmosfera avrebbe senso parlare di “valori non materialistici”, che non sono quelli della società dei consumi o del livellamento verso il basso, bensì quelli tradizionali dai tempi dell’Epoca Assiale: spiritualità, eccellenza, estetica, libertà, patriottismo, cultura…., che l’ Europa condivide con gli altri popoli dell’ Eurasia.

Solo così si potrebbero realizzare veramente gli obiettivi conclamati a vuoto dalla destra e della sinistra: una vera sovranità, la ripresa del nostro ruolo nel mondo, il rilancio del PIL;occupazione, investimenti sociali e infrastrutturali, diritti dei lavoratori).

Il fatto che nessuno ne voglia nemmeno sentir parlare dimostra invece che, non soltanto la sinistra europea come denunziato dal Presidente della RAI Foa, riceve, cospicui finanziamenti dall’ America, bensì anche i sovranisti, per esempio nelle elezioni olandesi. E, a parte ciò, quante sono le “connections” con fondazioni, università, ecc…? Due esempi per tutti: l’attuale Presidente della Commissione, Juncker, è stato il grande architetto delle agevolazioni fiscali che, negli ultimi 40 anni, hanno permesso alle big five di sottrarre all’Europa la quasi totalità del loro reddito.

Quanto al suo predecessore, Barroso, non aveva esitato, dopo il pensionamento, neppure un mese a entrare a pieno servizio presso il suo vero padrone: la Lehman Brothers.

 

Lo schema fiscale con cui le multinazionli americane hannno svuotato l’ Europa

A Torino la XIII conferenza sulle Alpi

A Torino la XIII conferenza sulle Alpi

(pubblicato su Articolo 3 Quotidiano online – clicca per leggere)

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Certamente, l’integrazione europea è stata un fenomeno onnipresente nella nostra storia, ma passato per lo più inosservato.

Per esempio, gl’incredibili passi in avanti nell’unificazione europea realizzati dalla Casa giulio-claudia, che aveva aggregato all’ Impero Romano Francia, Benelux, Germania Occidentale, Svizzera, Austria, Croazia. Oppure, quando, sotto carlo V, facevano capo agli Asburgo Germania, Benelux, Austria, Svizzera, Boemia, Italia e Spagna. O, infine, anche e soprattutto oggi, quando ogni campo dell’attività umana, dalla religione alla scienza, dalla filosofia politica allo Stato, dai Partiti  alle imprese, dalla cultura alla scuola, dalle Regioni alle città, ha una sua estrinsecazione“europea” (dalla Lettera Pastorale “Ecclesia in Europa” al CNR, dal federalismo all’Unione Europea, dall’ ASI ai Gruppi Politici del Parlamento Europeo, dall’ Euro alle Società  Europee, dalle Accademie Europee a Erasmus, dalle Macroregioni alle Capitali europee della Cultura.

Eppure:

-non lo sa nessuno, neppure gli addetti ai lavori

-tutto viene abbozzato, e poi lasciato lì, incompleto. Si è così infatti giustamente parlato di “Cantieri europei” (“Baustellen Europas”, a cui si riferisce l’omonima collana di libri della Casa Editrice Alpina ; cfr. http://www.alpinasrl.com/category/collane/baustellen-europas/)

E’ comunque interessante quest’ aspetto quasi esoterico, quasi che qualcuno avesse paura di fare sul serio, ma tenesse tutto pronto per la prima buona occasione. Così come, da sempre, tuti gli eserciti del mondo tengono pronte, in magazzini reconditi, decine di milioni di divise piene di naftalina , di vecchi fucili e qualche miliardo di insipide gallette, che ne estraggono solo per le “esercitazioni”, le “grandi manovre” e le “mobilitazioni generali”. Infatti…non si sa mai che cosa potrebbe accadere….

Il nostro punto di vista è che la crisi del sistema si stia avvicinando a un punto tale, da rendere necessaria una rassegna di questo armamentario, un esercizio per vedere se potrebbe funzionare ancora, un apprendistato da parte dei cittadini, come nel caso delle esercitazioni militari.

Sono stato, infatti, ufficiale dell’ Amministrazione Militare. Fra l’altro, in un “Deposito Divisionale”, cioè di uno di quei dimessi magazzini dove sono depositate divise, viveri e munizioni. Ho partecipato a un paio di esercitazioni, quando si svegliavano le reclute nel cuore della notte, e li portava sulla riva del mare (nel caso specifico, a Paestum), per sparare all’ impazzata come nello Sbarco in Normandia.

L’armamentario della cultura e del diritto comunitari dev’essere ripreso e ricollaudato come l’equipaggiamento di un’armata dormiente.

1. Cos’è la Convenzione delle Alpi?

Ho detto tutto questo perché, la prossima settimana, nei giorni 20 e 21, avrà luogo, a Torino, la XIII Conferenza delle Alpi, un evento importante per la vita dell’ Europa. Infatti, giustamente l’Unione e gli Stati membri si erano preoccupati fin dal principio che l’ Unione non divenisse (come invece sta purtroppo succedendo), un mostro burocratico distaccato dai cittadini, e attento solo alle esigenze di potere delle grandi potenze, della finanza anonima e delle burocrazie nazionali. Per evitare questo, l’Unione si è data la sua politica culturale, la sua politica sociale e la sua politica regionale, attraverso le quali essa contava di entrare in contatto con le esigenze reali dei cittadini, permettendo loro di partecipare, e creando, così, uno “spirito di corpo” europeo.

Purtroppo, in questo come in tanti altri campi, le cose hanno preso una direzione diversa da quanto previsto. I fondi europei, che avrebbero dovuto essere gestiti fra Unione ed Enti locali per stimolare le iniziative vicine alle popolazioni, sono divenute un opaco flusso di denaro spesso inutilizzato, gestito per scopi non chiari da anonime burocrazie. Le Regioni, che, con la loro autonomia fiscale, avrebbero dovuto esprimere il controllo dei cittadini sull’uso della cosa pubblica, sono divenute una delle fonti principali di spreco e di corruzione.

Tutto il fenomeno euroregionale e macroregionale, che avrebbe dovuto tenere conto dell’ esistenza di identità storiche ben consolidate, che travalicano i confini degli Stati Membri, sono divenuti un inflazionato fatto esoterico, in cui si accavallano Euroregioni, Macroregioni e “GECT” della cui esistenza non sono più consapevoli neppure i politici che senza interruzione li creano e li distruggono. Non parliamo, ovviamente, dei cittadini…

In una primissima fase, le Euroregioni erano state create dalle regioni frontaliere stesse, spesso in aree linguistiche transfrontaliere, come il Tirolo, il Lussemburgo e i Paesi Baschi, per fruire dei fondi che l’Unione destina alla cooperazione transfrontaliera. A quell’ epoca, gli Stati membri ignoravano le Euroregioni, negando ad esse qualunque valenza, tanto politica, quanto giuridica.

In una seconda fase, fu creato uno Statuto Standard, e il Comitato delle Regioni (altro illustre sconosciuto) se ne fece paladino.

In una terza fase, l’unione creò il GECT (Gruppo Europeo di Cooperazione Transfrontaliera), in modo da far entrare le Euroregioni nel mondo del diritto pubblico. Non mancarono, per altro, già in questa fase, controversie giuridiche fra Stati Membri e Regioni a proposito delle competeze dei GECT (prima fra le quali quella fra lo Stato Italiano e la Regione Liguria per lo statuto del GECT “Alpi-Mediterraneo”).

In una quarta fase, certe regioni, come quelle alpine dell’ Austria, della Svizzera e della Germania, si dichiararono fautrici di aggregazioni più ampie e più potenti: delle Euroregioni più grandi, le Macroregioni. Ma, anche qui, la natura e il ruolo delle Macroregioni restavano nel vago: come avrebbero potuto coesistere con le Euroregioni?

In quest’ultima, recente, fase, entrano in scena l’Unione Europea e gli Stati Membri, i quali si accorgono, finalmente, che le Regioni sono troppo deboli per operare su questi temi, e che  le politiche regionali della UE, che si pretendeva fondate sul Principio di Sussidiarietà, e, quindi, sullo spontaneismo “dal basso” delle Regioni stesse, non funziona, e che, pertanto, si impone un’esigenza programmatica centrale, da parte dell’ Unione stessa. Ma come “far passare” un siffatto messaggio in un momento in cui, da un lato, gli Stati Membri rifiutano tale ruolo imperativo dell’ Unione, e, dall’altro, la retorica politica dominante rigetta ogni idea di programmazione? Da un lato, concentrandosi su esigenze naturali obiettive, come per esempio quelle del commercio nel Baltico,  esistenti dai tempi dei Venedi, dei Paleoslavi, dei Variaghi dei Vikinghi e  dell’ Hansa; quella della navigazione del Danubio, sede della prima civiltà europea, e a cui,  con la Convenzione di Parigi (1856), Austria, Francia, Gran Bretagna, Russia, Regno di Sardegna e Turchia avevano stabilito la piena libertà di navigazione e l’uguaglianza di trattamento per tutte le bandiere. A questo scopo erano stati creati due organi internazionali: la Commissione europea del Danubio (CED), con il compito di eseguire lavori di drenaggio e la Commissione degli Stati Ripuari, con lo scopo di elaborare un regolamento per la navigazione e la polizia fluviale. Tale regime di libertà rimase immutato anche dopo la Prima guerra mondiale.

Infine, ed è il caso che ci interessa, la Macroregione Alpina, che comprende praticamente tutti i territori che Augusto aveva unificato e che sono descritti al Trophée des Alpes di La Turbie:

« All’imperatore Augusto, figlio del divo [Giulio] Cesare, pontefice massimo, nell’anno 14° del suo impero, 17° della sua potestà tribunizia, il senato e il popolo romano [eressero] poiché sotto la sua guida e i suoi auspici tutte le genti alpine, che si trovavano tra il mare superiore e quello inferiore sono state assoggettate all’impero del popolo romano. »

2. La Convenzione delle Alpi e la XIII Conferenza delle Alpi.

trofeo-delle-alpi-300x199(Trofeo delle Alpi)

La Convenzione delle Alpi è un trattato internazionale sottoscritto dai Paesi Alpini (Austria, Francia, Germania, Italia, Liechtenstein, Monaco, Slovenia e Svizzera), e dall’Unione Europea con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo sostenibile nell’area alpina: “La Convenzione delle Alpi mira ad armonizzare la protezione e lo sviluppo economico, con l’obiettivo di sostenere le Alpi sia come spazio di vita per la popolazione e la natura, sia come zona di attività economica. Le Alpi, con il loro capitale di biodiversità e le riserve di acqua e legno, sono un ambiente naturale, culturale, di vita e di lavoro per quasi 14 milioni di persone nonché un’importante destinazione turistica che attira circa 120 milioni di visitatori ogni anno”.

La Conferenza delle Alpi si occuperà dei seguenti temi principali:

  • Cambiamenti climatici ed energia: sotto la guida della presidenza italiana, sono state preparate le “Linee Guida per l’adattamento ai cambiamenti climatici a livello locale nelle Alpi”.
  • Demografia e occupazione nelle Alpi: Il Report completo sarà adottato dalla Conferenza, mentre il prossimo report, che sarà pubblicato nell’autunno 2016, tratterà il tema della green economy nelle Alpi.
  • Strategia Macroregionale per le Alpi (EUSALP): la strategia è al momento in fase di elaborazione e diverrà realtà nell’estate del 2015.
  • Gruppo di verifica: è un organo incaricato di controllare l’adempimento degli impegni e degli obblighi risultanti dalla Convenzione delle Alpi
  • EXPO 201
  • . Partecipare alla  XIII Conferenza delle Alpi.

Proprio per i motivi enumerati all’ inizio di quest’articolo, non crediamo certo di essere meno critici del verticismo degli organi europei (fra i quali la stessa Macroregione Alpina) di quanto non lo sia il cittadino medio europeo, il quale, da un lato, nota, con crescente raccapriccio,  l’incapacità dell’”establishment” di affrontare in qualsivoglia modo l’inesorabile declino dell’ Europa, da “donna di province” a “bordello”, per usare i classici termini usati da Dante per l’Italia del Medioevo,  e, dall’ altro, si accorge in ogni momento che esistono enormi e incredibili risvolti della vita pubblica (dal Datagate al TaxLeaks, dalla fuga della Fiat alle politiche regionali), di cui nessuno aveva mai loro parlato.

E, tuttavia, fedeli a un’etica di servizio, sarebbe il caso di dirlo, anche se inattuale, da ufficiale e da servitore dello Stato, nonché in quanto cocciuti abitatori della parte più alta e impervia delle Alpi, continuiamo a cercare di salvare quanto di valido c’è in tutte queste esperienze. E, per quanto qui trattato, nell’idea di una Conferenza delle Alpi, espressione, bene o male, di quest’ ancestrale identità dei “Popoli Alpini”, di cui con ammirazione parlavano già Hoelderlin e Nietzsche.

La Casa Editrice Alpina e l’Associazione Culturale Diàlexis, vogliono offrire ai nostri concittadini dei Popoli Alpini, e, in primis, ai Piemontesi, l’occasione di condividere l’orgoglio per ciò che ancor oggi si sta facendo per le Alpi.

Certo, è sempre troppo poco. Abbiamo dovuto partecipare, addirittura, per quanto indirettamente, a dei lutti dovuti all’ inaccettabile degrado naturale delle nostre  Alpi.

Non abbiamo mancato, in questi mesi, di tenerci nel più stretto contatto con tutte le possibili Istituzioni del nostro Territorio, per garantire la presenza, in questi processi, dei cittadini delle Regioni Alpine: Presidenza dell’ Unione, Governo, Presidenza Italiana, segretariato, Enti locali. Come risultati, abbiamo ottenuto:

-il Convegno del 19 Novembre presso il Consiglio Regionale, nel quale potranno confrontarsi federalisti europei, esperti di realtà transfrontaliere, esponenti delle nuove tecnologie e dell’editoria e cittadini delle nostre Regioni, al fine di elaborare concreti progetti euroregionali per rilanciare l’occupazione.