Dopo un’estenuante (e mai finita) campagna elettorale, oggi in Europa il tema del giorno per i media resta purtroppo quello dei rapporti di forza fra i partiti – fra i grandi gruppi europei a Strasburgo e a Bruxelles, fra Lega e 5 stelle a Roma, fra CDU e SPD in Germania, fra conservatori e Brexit Party in Inghilterra, fra gollisti e macroniani in Francia-. Invece, delle cose che veramente contano, come le discussioni al G20 sul digitale, degli sviluppi sempre più catastrofici delle guerre commerciali di Trump, e degli aspetti irrazionali della teoria economica che sta alla base dei cosiddetti “vincoli europei”, e, infine, delle concrete operazioni finanziarie, industriali e/o commerciali che riguardano i nostri territori, quasi non si parla.
Perciò, molto opportuno mi pare il commento di Lucio Levi nel suo articolo, “I partiti europeisti prevalgono nelle elezioni europee”, che invita a una visione d’insieme della situazione post-elettorale, che si elevi a un livello più alto, e che riguarda proprio la necessità di un pacchetto d’interventi in relazione alla nuova legislatura del Parlamento Europeo. E, aggiungerei io, di quella della Regione Piemonte.

L’Europa è una buona quarta nella competizione internazionale
1.Basta con un “approccio ordinario” (vale a dire novecentesco)
Giustamente quindi scrive Levi: “Il fatto è che i partiti tradizionali hanno adottato provvedimenti ordinari, mentre la rivoluzione scientifica della produzione materiale, la crisi economica e ambientale e le crescenti tensioni internazionali, dovute al ritorno del protezionismo e della corsa agli armamenti, richiedono misure straordinarie”.
Questo è certamente il punto: i partiti tradizionali, nati, chi nel 18°, chi nel 19°, chi nel 20° secolo, non comprendono (o fanno finta di non comprendere) il 21°, e quindi continuano ad adottare provvedimenti non solo “ordinari”, bensì semplicemente vecchi di almeno 100 anni, i quali, appunto per questo, non solo non risolvono i problemi o addirittura li aggravano, ma si prestano anche a nascondere le inquietanti realtà dei nostri giorni:
I liberali erano nati per difendere l’aristocrazia dai sovrani illuminati (la Fronda,la “Glorious Revolution”), ma avevano già avuto difficoltà a difendere la borghesia contro lo statalismo giacobino, e, poi , la libertà tout court contro la tirannide dalla maggioranza sotto le democrazie. Oggi, non sono in grado neanche d’immaginare come fare a sgominare la società del controllo totale. Le leggi sulla “privacy” sono infatti pannicelli caldi.
I nazionalisti erano nati per affermare il Terzo Stato contro lo stato patrimoniale”(Sieyès dei monarchi); hanno fatto difficoltà a difendere “il popolo” contro gl’imperi, e “le nazioni” contro l’occupazione straniera. Oggi, non riescono a comprendere che l’indipendenza della “patria” va difesa contro l’unico apparato informatico-militare che ha pretese mondiali. Il “sovranismo” degli Stati Membri è una carnevalata, smascherata dall’ adesione al “Movement” di Bannon.
I socialisti erano nati per affermare le esigenze dell’organizzazione sociale contro quelli dell’atomismo asociale (Saint-Simon, Owen, Fourier). Avevano già difficoltà a riconciliarsi, tanto con lo spirito ottocentesco della libertà, quanto con la necessità, emersa nel Novecento, delle “vie nazionali al socialismo”. Oggi non capiscono lo sfuggente “socialismo con caratteristiche cinesi”, che è il vero modello di successo del XXI secolo. Negano addirittura che in fondo la sfida ideologica è stata vinta dal socialismo, con lo Stato cinese che impone l’agenda dello sviluppo economico mondiale e con le altre Grandi Potenze con l’ARPA americana, le grandi holding russe e i fondi sovrani arabi ed anche europei, che seguono a ruota.
Si potrebbe continuare così con democristiani, comunisti, neofascisti e verdi, ma non è questa la sede più appropriata.
Huawei vittima del protezionismo
2.Il “ritorno del protezionismo”
Unico barlume di attenzione per l’attualità, l’appello di Di Maio a “trattare con Trump sui dazi” automobilistici, anche se, significativamente, il ministro non ha detto, né come, né perchè. Appello seguito, seppur tardivamente, dall’ incontro fra le Autorità piemontesi e il responsabile dell’EMEA (area Europa, Medio Oriente e Africa) del gruppo FCA -accettando con ciò però implicitamente che, mentre, per Francia (e forse America), le trattative si svolgono al vertice, per noi hanno luogo al “piano di servizio”-
Questo vuoto si comprende benissimo in considerazione di tre fatti fondamentali: (a) l’Italia non ha (più?) propri costruttori nazionali, e anche ben pochi componentisti indipendenti, tant’ è vero che il Governo si disinteressa sostanzialmente delle sorti del Gruppo FCA, che è essenzialmente americano (66% del fatturato realizzato negli Stati Uniti);(b)ben poche fra le automobili fabbricate in Italia sono esportate negli Stati Uniti, dove Chrysler aveva già le proprie fabbriche; il grosso delle automobili, ma soprattutto dei componenti esportati dall’ Italia, viene esportato nella UE, dove il problema dei dazi non si pone; (c)l’Italia non ha più competenza giuridica in materia di dazi doganali, che fanno parte della politica commerciale comune dell’ Unione Europea. Quindi, la crisi dell’industria italiana, e soprattutto dell’ industria “veicolistica” del Piemonte (-22%!) passa innanzitutto attraverso la riduzione dei mercato tedesco e, indirettamente, cinese (visto che la maggior parte delle auto delle case tedesche viene venduta, e per lo più anche fabbricata, in Cina).
Per ciò che riguarda l’ Italia in generale, si tratta solo di una mancata crescita, tuttavia grave perché,almeno a partire dal 2010, l’unico fattore economico che sia cresciuto per il nostro Paese è stato l’export (secondo SACE +6,4% fino al 2017), mentre tutti gli altri contributori del PIL, ovvero consumi, investimenti pubblici e privati, hanno registrato un netto segno meno. Perciò, tradotto in numeri, l’impatto della guerra commerciale sull’export italiano nel 2020 sarebbe dello 0,6% in meno; dell’1,1% in calo per le vendite verso gli Usa e di -1% per quelle verso la Germania.E pensare che l’Italia non è stata colpita direttamente, perché i dazi attualmente in vigore hanno rilevanza solo marginale per il nostro Paese, ma le imprese USA che fanno produzione all’estero (come la FCA) vengono colpite direttamente e indirettamente dai dazi di ritorsione (oltre che dalle controsanzioni russe, dalle sanzioni iraniane e dalla crisi provocata deliberatamente in Turchia).
Un altro aspetto da non sottovalutare è che già dal 2015 si era ridotto il tasso di crescita delle esportazioni, reali mentre ha continuato ad aumentare il tasso di crescita degli scambi digitali. Con la conseguenza che si è creata una divaricazione tra economie basate sui prodotti digitali e produttori di mezzi reali: la perdita è stata pesante per i Paesi europei che hanno proprie industrie digitali (cfr. punto 4 infra).
Infine, l’ Italia è nella lista dei Paesi che hanno un surlpus commerciale con gli USA e che quindi, secondo la “dottrina Trump”, dovrebbero essere direttamente penalizzati.
Nonostante tutto quanto sopra, gli sforzi dell’Ue per frenare il declino economico in questi anni sono stati rivolti invece a politiche interne dei Paesi (parametri di Maastricht) piuttosto che al valore complessivo di PIL che possiamo esprimere (fra cui l’industria digitale)(cfr. Cassese)
Il dibattito sullo “sforamento del 3% del rapporto fra debito e PIL sta portando taluni (come Cassese), a chiedersi la ragion d’essere e la sensatezza delle politiche europee di bilancio all’insegna della “stabilizzazione”. Perché mai l’economia dovrebbe essere “stabile”? Ammettiamolo pure che questo possa essere utile dal punto di vista dei ceti e delle nazioni più avvantaggiate, ma, tradizionalmente, per gli svantaggiati, l’optimum sarebbe che l’economia subisse profondi stravolgimenti, sperando così di risalire la china nella quale si è precipitati.
Quindi, “negoziare con Trump”, o meglio, affrontare il nodo dei rapporti con l’America, è la vera questione prioritaria della politica europea. Invece, attualmente le discussioni con gli USA si fanno alla spicciolata e alla chetichella, sperando di non “svegliare il can che dorme”.

I comandi delle Forze Armate americane sono come le province romane
3.Le “crescenti tensioni internazionali”.
Sembra assurdo che gli Europei si preoccupino tanto della “stabilità”, che in pratica significa ingessare una situazione di subordinazione come quella attuale, in cui il nostro Continente non ha accesso alle risorse-chiave, come una moneta di riserva e il controllo del Web. Come sembra assurdo ripetere fino alla nausea che siamo un Continente ricchissimo, mentre la realtà è che siamo in costante decadenza, non controlliamo le risorse essenziali e fra qualche anno non esisteremo praticamente più.
Intanto, non si capisce perché la BCE debba essere priva della possibilità di fare una sua politica monetaria come fanno la FED e la Bank of China. Come conseguenza, oggi l’iniziativa per l’aumento o la diminuzione dei tassi o per la svalutazione o la rivalutazione dell’Euro la prendono in pratica la FED e la Bank of China. Tra l’altro, l’assurda teoria che la BCE non deve poter svalutare l’Euro è contraddetta dal fatto che l’Euro si è svalutato pesantemente (30% circa) nei confronti dello Yuan. Quindi, l’Euro non deve svalutarsi rispetto al dollaro, ma, se si svaluta verso lo Yuan, tutti sono ben felici (salvo poi stracciarsi i capelli perché i Cinesi corrono a comprare le nostre aziende). Se la svalutazione dell’Euro (che c’è già stata) non è poi quella grande jattura, perché mai si dovrebbe imporre l’equilibrio di bilancio? Solo perché, se ciascuno potesse fare i bilanci come gli pare, qualcuno potrebbe “fare il furbo”, indebitandosi “a spese degli altri”? Ma neanche questo è totalmente vero, perché chi si indebita troppo subisce comunque lo “spread”.
E, anche ammettendo che l’attuale ingessata disciplina europea di bilancio abbia un senso, è comunque l’orientamento di politica economica sottostante al “fiscal compact” ad essere insensato. Quest’orientamento parte dall’idea che l’allocazione delle risorse fra i vari Paesi sia un dato immutabile, e che l’unico intervento dei governi possa consistere nell’ottimizzare l’output con delle politiche monetarie o con degli efficientamenti. Invece, tutta la storia economica è lì per dimostrare il contrario. La struttura economica degli Stati Uniti è stata modificata più volte con azioni di forza da parte del Governo Federale:-con la guerra d’indipendenza, per appropriarsi dei territori indiani e mantenere la schiavitù, vietata invece in Inghilterra;-con l’acquisto della Luisiana da Napoleone per 10.000 dollari;-con la conquista armata di metà del Messico;-con la Tennessee Valley Authority;-con le spese di guerra che hanno raddoppiato il PIL americano fra il 1941 e il 1945;-con il Piano Marshall; -con la NASA e l’ARPA, che, con la scusa del “duale”, hanno letteralmente inventato tutte le industrie di alta tecnologia; ultimamente, -con i dazi di Trump, che stanno dirottando tutte le filiere produttive mondiali. Non parliamo poi di ciò che ha fatto e sta facendo la Cina, prima con le nazionalizzazioni e poi, le privatizzazioni, le Zone Economiche Speciali, la Nuova Via della Seta…
Noi Europei, nel frattempo, non solo non stiamo facendo assolutamente nulla (anche se ne avremmo il massimo bisogno), non solo di politica industriale, ma, in generale, di politica economica, ma addirittura ci vietiamo di fare qualunque cosa in questi campi(programmazione, campioni nazionali, imprese pubbliche, svalutazioni competitive, “keynesismo militare”….). Quanto poi all’Italia, i dati (anche della disoccupazione e dell’emigrazione) ci stanno riportando praticamente al 1911, quando Giovanni Pascoli , nel “Discorso di Barga” aveva parlato della “Grande Proletaria”, costretta alle guerre espansionistiche per ovviare alla disoccupazione e all’emigrazione. E in questa situazione non dovremmo cercare di alterare questa struttura dell’economia reale, imitando almeno in parte quanto già fatto dall’ America e dalla Cina?
L’aspetto più grottesco di questa situazione è che, secondo la teoria alla base dei “vincoli di bilancio” assunta come un dogma dalla Commissione, la “disoccupazione strutturale” dell’Italia dovrebbe aggirarsi intorno al 10% (quindi, restare quella che è), e l’unico modo per ridurla (per esempio al 4%, come in Germania), sarebbe costituito da una sorta di “spending review”. Ma allora, il “diritto al lavoro”, sancito fin dal 1920 dalla Carta del Carnaro di Fiume e ribadita dalla Carta Europea dei Diritti dei Lavoratori di Torino del 1961 deve rimanere, dopo un secolo, una vuota promessa?
Ma perché mai ci dovrebbe essere una disoccupazione strutturale? Come se non mancassero attività socialmente utili (e anzi indispensabili per l’economia), che in realtà non si fanno, come per esempio un’ intelligence politica ed economica europea, gli studi sociali ed economici a lungo termine, la programmazione economica, le imprese di alta tecnologia, l’educazione permanente, la protezione del territorio, la promozione internazionale del turismo…Ammettiamo pure (ma bisognerebbe ancora dimostrarlo) che certe (moltissime) attività non si possano fare oggi in Europa a condizioni di mercato- (i “fallimenti del mercato”) ebbene, si possono comunque effettuare con l’intervento pubblico (per esempio, con l’EFSI o la Cassa Depositi e Prestiti), creando nuove imprese pubbliche, oppure, con il volontariato, con il servizio civile o con la militarizzazione di certe attività, come la ricerca o le comunicazioni…-
Dirò di più: senza quelle nuove attività, che costituirebbero per l’Europa dei veri e propri nuovi segmenti di offerta, non vi è alcuna possibilità di creare nuovi posti di lavoro “veri”, cioè posti di lavoro che generino nuovi flussi positivi di profitti e di reddito ed elevino il livello sociale e culturale degli Europei rispetto alla media mondiale. Quindi, non spendiamo soldi in assistenzialismo, bensì spendiamoli per organizzare, possibilmente a costi minimi, tutte quelle attività. D’altronde, a che cosa dovrebbero servire i fondi strutturali, la BEI, l’EFSI e i fondi sovrani degli stati Membri e delle autorità locali?
L’Europa non dovrebbe vietare agli Stati membri di fare tutte quelle cose, bensì farle essa stessa, o almeno imporre agli Stati membri di farle, premiando chi le fa e penalizzando chi non le fa (i “vincoli europei invertiti”).
Di converso, non si comprende come il reddito minimo o la flat tax possano ovviare alla mancanza di imprese nazionali nei settori di punta. Nell’ attuale situazione, anziché all’ “espansione dell’0 economia”, esse porteranno solo alla sopravvivenza per qualche mese di imprese decotte e al fallimento delle poche che ancora stanno in piedi.

Tutti i mari del mondo sono testimoni di confronti fra le marine
4.La “corsa agli armamenti”
L’unica spiegazione di questa paralisi delle politiche economiche europee è che, in una situazione, come dicono i Cinesi, di “guerra senza limiti”, una vera politica economica fa parte di un’onnicomprensiva politica estera e di difesa comune, che è interdetta agli Europei dalla situazione internazionale.
Ancora la scorsa settimana, è stato pubblicato su “la Repubblica” un articolo di Luca Caracciolo, con cui il noto giornalista insisteva su un tema sviluppato ampiamente nell’ultimo numero di Limes, secondo cui l’Europa dovrebbe compiere una scelta drastica fra gli Stati Uniti e la Cina (gli unici Stati che secondo l’articolista possano fare oggi una politica internazionale). Ora, per quanto ciò possa sembrare fantascientifico, la scelta attuale della maggioranza degli Stati Membri, e, in seguito (9 maggio) a quella, anche della Commissione uscente, è stata quella di aderire alla Via della Seta. Se togliessimo, dalla Politica Estera e di Difesa dell’Unione Europea, questa che potremmo chiamare “politica dei due forni” fra USA e Cina, non ci resterebbe più nessuna politica estera e di difesa. Tanto varrebbe che, nei rapporti internazionali, ci facessimo rappresentare dal Segretario Generale della NATO. Ma c’è di più. Seppur eliminando, in tal modo, la Politica Estera e di Difesa dell’Unione Europea, anche la politica estera e di difesa degli Stati Membri consiste attualmente in un barcamenarsi fra gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, Israele e i Paesi Arabi. Anche qui, se si eliminasse la possibilità di questi giochi, tanto varrebbe eliminare i Ministri degli Esteri e della Difesa. Però, a quel punto, non resterebbe che brigare per essere annessi tutti dagli Stati Uniti. Essendo noi 500 milioni, e loro solo 300, conteremmo certamente di più di adesso.
Quindi, il nodo gordiano della politica estera e di difesa resta l’autonomia dagli Stati Uniti o almeno il ribaltamento delle posizioni di forza, un nodo che, per altro, né i “sovranisti”, né gli “Europeisti” sembrano voler risolvere.
Neppure il voto a maggioranza sulle questioni di politica estera non scioglierebbe questo nodo, perché la politica estera e di difesa non è fatta in nessun Paese dal Parlamento, bensì, ovunque, dal Capo dello Stato o del Governo attraverso la diplomazia, le Forze Armate e soprattutto i servizi segreti. Un giorno, viene arrestata in Canada la figlia del presidente di Huawei, un altro, viene revocata dall’ Ecuador la protezione diplomatica ad Assange, un terzo, un convoglio americano attraversa il Mar della Cina, il quarto, l’ India bombarda il Pakistan, il quinto c’è una manifestazione a Hong-Kong contro l’estradizione nei “quartieri” confinanti del “PRD”, il sesto si svela il passato di Angela Merkel nella STASI, il settimo Trump revoca i dazi contro il Messico, ecc…Tutto questo viene coordinato minuto per minuto direttamente da Trump, Xi Jinping, Putin e Modi. Né in America, né in Cina, né in India, si vota su alcuno di questi argomenti (né, materialmente, si potrà mai farlo, perché sono cose che accadono nell’ immediato e lontano dal potere legislativo).
L’Europa non avrebbe quindi bisogno di una nuova procedura di voto sulla politica estera e di difesa, bensì di un Alto Rappresentante che fosse veramente il Comandante in Capo di tutte quelle attività militari “non tradizionali” che oggi le Grandi Potenze stanno facendo e che gli Stati membri della invece UE non stanno facendo. Ma per poter fare questo, egli (ella) dovrebbe essere in grado d’incarnare idealmente gl’interessi vitali dell’Europa, così come il maggiore Petrov incarnava, quella notte del 1983, gl’interessi reali dei popoli dell’URSS (anche contro il PCUS e il Soviet Supremo). Non basterebbe, per questo, che fosse eletto: occorrerebbe che vi fossero a monte una cultura strategica e un ethos militare comuni.
Consideriamo ora anche quanto scritto sempre nell’editoriale del numero 4/2019 di Limes:”Nella riunione segreta del 3 aprile 1949 con i ministri degli Esteri dei paesi che il giorno dopo avrebbero firmato il Patto Atlantico, discettando della bomba Truman avrebbe lasciato cadere un caveat sulla necessità di doverla eventualmente usare contro i nostri alleati dell’ Europa occidentale quando fossero occupati.”Anche questo, è mai stato votato? Per quanto riguarda l’Italia, il Generale Mini ha dichiarato in un’intervista che, in una manovra NATO a cui aveva partecipato , si era simulato appunto il bombardamento atomico, da parte della NATO, di Udine occupata dal Patto di Varsavia, un bombardamento che avrebbe provocato deliberatamente 300.000 morti. Gli Europei accettano ancora questi principi? E, se no, sono disposti a fare a meno dell’ombrello americano? Sono disposti a costruirsene uno totalmente europeo, e contro chi lo userebbero, visto che noi e i Russi siamo strettamente interconnessi, per esempio nel Baltico e lungo il Mar Nero?
Ma, soprattutto, alcune domande a monte: ha senso per l’Europa una politica estera che si basi sulla minaccia reciproca, con i nostri vicini più prossimi, di un auto-annientamento sulla falsariga dei kamikaze di al Qaida e dell’ ISIS moltiplicato per centinaia di migliaia di vite? Non esistono alternative culturali, politiche e anche militari-tecnologiche totalmente alternative?
E, infine, quale alto ufficiale europeo potrebbe assumersi simili responsabilità?

L’Africa resta arretrata, ma si sta avvicinando all’ Europa
5.Ripensare “la politica per lo sviluppo dell’ Africa”
Parliamo poi anche dell’ Africa. Scrive Levi:” l’UE dovrebbe promuovere un piano di sviluppo con l’Unione africana che miri a gestire la migrazione nel lungo periodo attraverso investimenti per progetti infrastrutturali”. In realtà ,questo piano esiste, ed è già stato attuato, da ben 50 anni, precisamente per ”aiutare gli Africani a casa loro”, come si dice oggi, tant’è vero che il PIL dell’Africa sta crescendo del 3,7%, mentre quello dell’ UE cresce appena del 2,4%.
Gli accordi di Yaoundé, di Lomé e di Cotonou trattano, fin dal 1963:
-delle migrazioni (art. 13)” each ACP or EU State shall accept the return of and readmit any of its nationals who are illegally present on the territory of a EU or ACP State , at that State’s request and without further formalities. The Agreement also includes a provision establishing non-discriminatory treatment of legally employed workers from ACP countries in EU Member States or of workers from the EU in ACP countries”.
-dell’assistenza finanziaria: “The overall amount of EU financial assistance for the first five years of the Agreement (2003-2008) is €13 500 million. An additional €2 500 million from previous European Development Funds (EDF) is available, bringing the total to €16 000 million. Loans worth €1 700 million from the European Investment Bank are also available. Under the European Development Fund, €10 000 million in grants is earmarked for supporting long term development. The Investment Facility aims to help businesses in ACP countries by supporting sound private companies, privatisation, providing long term finance and risk capital, and strengthening local banks and capital markets. It will receive €2 200 million to be managed by the European Investment Bank, with €1 300 million for regional cooperation. It has been agreed that the ACP will define the regions eligible for support”.
I fatti dimostrano che il risultato dichiarato è stato raggiunto, perchè l’economia africana ha oramai prospettive migliori di quella europea. Anzi, il fatto stesso che gli Africani riescano ad emigrare dimostra che il denaro circola in Africa, visto che ogni emigrazione, specie se clandestina, costa qualche migliaio di Euro.
Già nel 1981, avevo scritto a Lussemburgo un libro su questo argomento (“Les procédures de la coopération financière et techniques dans le cadre del II Convention de Lomé”). Avevo anche “ girato come una trottola”, da Algeri a Tunisi, da Niamey a Abidjan, da Lomé a Lagos, da Douala a Johannesburg, da Mbabane a Nairobi, a visitare mattatoi, magazzini, concerie, fabbriche di pelletterie, banche di sviluppo, ministeri, società di consulenza, organizzazioni internazionali, parlamenti, per costruire laggiù delle “industries adaptées” favorevoli allo sviluppo. Perché allora continuiamo a comportarci come se per cinquant’anni non si fosse fatto nulla? E, di converso, è poi un risultato così positivo il fatto che il PIL dell’Africa cresca molto più di quello italiano? Non saremmo ora noi a dover essere aiutati? Ricordo a questo proposito che la Cassa per il Mezzogiorno (Svimez) e i Fondi Strutturali Europei erano nati proprio per aiutare le regioni svantaggiate dell’Italia e, rispettivamente, dell’Europa, ma non sembra che abbiamo ottenuto grandi risultati, se si guarda, per esempio, alla Grecia o all’ILVA. Oggi, comunque, non funzionano più, almeno per ciò che riguarda l’Italia.
Infine, la politica per l’Africa la si sta studiando insieme alla Cina, la quale, non solo la sta attuando in modo ben più energico di noi, ma ha anche una cultura manageriale più consona alle enormi problematiche dei Paesi in via di Sviluppo.

“Odissea nello spazio” resta la migliore metafora del XXI secolo
6.La “rivoluzione scientifica della produzione materiale”
Nel corso delle riunioni del G20 in Giappone, si è parlato parecchio, appunto, di nuova economia, sotto due importanti punti di vista. Da un lato, si è manifestato un certo consenso sul fatto che occorrano accordi internazionali per tassare in modo corretto il commercio digitale transfrontaliero, che oggi sfugge a una tassazione secondo il principio generale del diritto fiscale internazionale, quello dell’imposizione nel Paese dove il reddito è prodotto; dall’ altro, si è preso posizione a favore delle direttive OSCE per un’Intelligenza Digitale sostenibile.
Mentre non si può che plaudire al fatto che si stia affermando un consenso circa la necessità di accordi internazionali in materia, resta da dire i documenti delle organizzazioni internazionali non sono altro che stinte descrizioni delle prassi attuali, senz’alcuna capacità (né intenzione) d’incidere seriamente, né sull’utilizzo dei dati come strumento di dominio delle grandi potenze sul resto del mondo, né sulla macchinizzazione delle società, con la conseguente perdita dei valori umanistici e l’instaurazione di una tirannide degli algoritmi.
Questo fatto conferma l’egemonia, nelle attività legislative internazionali, delle lobby tecnocratiche, che concepiscono la cooperazione internazionale come un ulteriore canale per l’affermazione di un tipo di uomo privo di volontà, perfetto schiavo delle grandi organizzazioni digitali (siano esse pubbliche o private).
Invece, se l’Europa vuole tenere fede alla propria “immagine di marca” di roccaforte delle libertà e della cultura, deve costruire, in ambo i settori, una cultura radicalmente diversa, fondata sulla prevalenza dell’umano, e farla divenire la sua arma di battaglia nei consessi internazionali (come quello, appunto, di Tsukuba). Anzi, questa battaglia dovrebbe divenire, dal mio punto di vista, la ragion d’essere stessa di uno Stato europeo, che su di essa e per essa dovrebbe essere modellato. Non più sulle logiche di una società prevalentemente agricola, come lo sono stati tutti gli Stati attualmente esistenti, specie in Europa, bensì su una società post-moderna dematerializzata e integrata a livello mondiale.
Per ottenere questo risultato, è fuori luogo scervellarsi per definire in astratto un’identità europea distinta, da un lato da quella delle singole Nazioni, religioni e regioni dell’Europa, e, dall’ altra, da quella dell’Occidente, e, in particolare, dell’America. L’identità europea è quella già ben definita da ben 2500 anni da Ippocrate e da Erodoto, come quella degli “autonomoi”, contrapposti all’ impero universale del Re di Persia, e ridefinita da Machiavelli come “qualche regno e infinite repubbliche”, così come anche quelle della Cina e dell’ India sono quelle definite dalle rispettive filosofie del 1° millennio a.C.. Oggi, quei “qualche regno e infinite repubbliche” dove vivono gli “autonomoi” non devono inventarsi nulla di nuovo: devono semplicemente continuare la lotta che fu di Leonida contro Serse, solo che, questa volta, non è la guerra contro un esercito in carne ed ossa, bensì quella contro l’”esercito” dei logaritmi, che vuole ridurre i nostri regni e le nostre repubbliche a un unico impero digitale.
La battaglia per la libertà e la sopravvivenza passa per l'”ecologia della mente”
- La “Green Economy”
Nel fare ciò, per quanto l’economia verde sia una cosa utile e necessaria (l’”ecologia profonda”), c’è qualcosa di ancor più urgente per la nostra economia e per la nostra società (l’”ecologia della mente”), qualcosa che tutti gli altri hanno, tranne noi: un’industria del web (simile alla Google, alla Facebook e all’Amazon americane, alla Baidu e all’ Alibaba cinesi, alla Yandex e alla VKontakte russe). Tutta l’economia, dalla borsa alle comunicazioni, dalla cultura all’ entertainment, dal commercio ai trasporti, dal turismo all’ immobiliare, sono oggi governati da Internet, che sta compiendo una mutazione antropologica dell’Umanità e allo stesso tempo sposta ingenti masse di denaro in tutto il mondo. Non solo, ma su Internet si giocano la nostra libertà e la nostra identità. Perché la BEI, l’ EFSI e i fondi sovrani degli Stati membri hanno investito così poco su Internet, e, quando l’hanno fatto, l’hanno fatto su progetti non trasparenti e minimalistici come Qwant? Qwant ha ottenuto , fra l’ EFSI, la Cassa Depositi e Prestiti francese e il Gruppo Springer, 35 milioni di Euro per creare il web europeo. Qualcuno ne ha poi più sentito parlare?
Ciò detto, l’Europa può e deve partecipare alla “rivoluzione verde” in corso nel mondo. Tuttavia, anche qui c’è qualcosa di strano nel comportamento, non solo delle autorità, ma anche delle imprese, in relazione ai nuovi settori tecnologici. Prendiamo per esempio l’auto elettrica. Sta partendo in questi giorni per la Cina da Beinasco un carico di 400 container contenente, impacchettata, una linea completamente automatizzata per costruire in Cina un SUV elettrico, costruita dalla CPM, una controllata della tedesca Duerr. A parte il fatto che la notizia apparsa sulla Repubblica sia stata forse esagerata (si tratterebbe solo di una linea di verniciatura), il giornalista di Repubblica ha posto, al Presidente dell’ Unione Industriale di Torino, Gallina, la domanda, del tutto pertinente “Perché è così utopistico pensare che quella fabbrica potesse essere realizzata qui in Piemonte?” In effetti, trattandosi di una fabbrica automatizzata, la questione decisiva non è certamente il costo del lavoro. Eppure, il Presidente non ha saputo dare una risposta, limitandosi a dire che bisogna cercare di attrarre gl’investitori. Ma perché, come si è fatto con Qwant, non si possono spendere 35 milioni di Euro dell’EFSI, della Cassa Depositi e Presiti e di un investitore privato per creare ex novo in Piemonte una fabbrica di auto elettriche, anziché chiudere l’esistente Blue Car di Bairo?
Alla fine, a dispetto delle retoriche mercatistiche, la quantità di trasferimenti finanziari pubblici che di fatto si sviluppano fra Europa, America e Paesi in Via di Sviluppo, fra Bruxelles, Stati Membri e Regioni, è così impressionante, che è impossibile capire chi ne sia avvantaggiato e chi ne sia svantaggiato: contributi NATO, acquisto di aerei americani, trasferimento all’ estero di imprese, aiuti allo sviluppo, contributi all’ Unione, fondi strutturali non spesi, fondi BEI non utilizzati per mancanza di progetti. Prima di accapigliarsi circa la destinazione dei vari fondi, sarebbe necessario fare come minimo un po’ di trasparenza dei reali flussi, e di come questi impattino sul PIL dei vari territori;. La “glasnost” di Gorbaciv che precedette la “Perestrojka” dell’ impero sovietico.
Non smettere d’interrogare la società
- Richiedere i “provvedimenti straordinari” accennati da Levi alle nuove Autorità (europee e locali)
Le istituzioni europee (ma anche locali) potranno essere prese sul serio (indipendentemente se le loro maggioranze saranno “europeiste” o “sovraniste”), solo se esse affronteranno, e subito, i nodi gordiani elencati in questo post. I movimenti europeistici dovrebbero incalzare fin da subito i nuovi parlamentari, i gruppi politici europei, le nuove Istituzioni e le nuove autorità, comunque e ovunque elette, perché, non dico risolvano questi problemi, ma almeno avviino un dialogo sugli stessi senza lasciare sempre tutto nel vago, di modo che a ogni nuova legislatura non dobbiamo porci le stesse domande, solo con una situazione ulteriormente deteriorata.
In occasione delle precedenti elezioni europee (2014), l’Associazione Culturale Diàlexis aveva pubblicato presso Alpina tre opere volte a sollecitare decisioni in queste materie:
-“Corpus Iuris Technologici”, dedicato alla nuova legislazione europea sul web, inviata alla Presidentessa Boldrini e al presidente Rodotà;
– “Restarting EU Economy”, una lettera aperta al Presidente Juncker perché indirizzasse l’ FSI verso le nuove tecnologie;
-100 tesi sull’ Europa (inviate a tutti gli Europarlamentari) con cui si valutavano criticamente i programmi dei partiti europei per le elezioni del 2014.
Nel Salone del Libro di Torino abbiamo presentato 4 libri dedicati a quattro filoni di approfondimento (i “Cantieri d’ Europa”: riforma istituzionale; tecnologia; lingue; rapporti con la Cina). Contiamo di proseguire questo lavoro al salone “Più libri, più liberi” di Roma. Come è già successo con il Salone di Torino, invitiamo tutti a contribuire a questo sforzo collettivo.
Soprattutto, invitiamo tutti ad avviare un dialogo con i nuovi eletti, che stanno affrontando il non facile compito di fronteggiare i nodi ormai inestricabili di cui abbiamo parlato nei punti precedenti, con l’obiettivo di raggiungere almeno nuovi livelli di consapevolezza, per esempio sulla tematica della sovranità e sulle competenze tecnico-giuridiche-economiche necessarie per inserirsi nello sviluppo dell’ Asia.
* * * * *
Si allegano i principi sull’ intelligenza artificiale che il G20 in Giappone ha fatto suoi prendendo semplicemente a prestito quelli dell’ OCSE, i quali, a loro volta, assomigliano molto a quelli dell’ Unione Europea.
ALLEGATO
Torino centro della cultura tecno-umanistica?
G20 AI PRINCIPLES
The G20 supports the Principles for responsible stewardship of Trustworthy AI in Section 1 and takes note of the Recommendations in Section 2.
Section 1: Principles for responsible stewardship of trustworthy AI
1.1. Inclusive growth, sustainable development and well-being Stakeholders should proactively engage in responsible stewardship of trustworthy AI in pursuit of beneficial outcomes for people and the planet, such as augmenting human capabilities and enhancing creativity, advancing inclusion of underrepresented populations, reducing economic, social, gender and other inequalities, and protecting natural environments, thus invigorating inclusive growth, sustainable development and well-being.
1.2. Human-centered values and fairness a) AI actors should respect the rule of law, human rights and democratic values, throughout the AI system lifecycle. These include freedom, dignity and autonomy, privacy and data protection, non-discrimination and equality, diversity, fairness, social justice, and internationally recognized labor rights. b) To this end, AI actors should implement mechanisms and safeguards, such as capacity for human determination, that are appropriate to the context and consistent with the state of art.
1.3. Transparency and explainability AI Actors should commit to transparency and responsible disclosure regarding AI systems. To this end, they should provide meaningful information, appropriate to the context, and consistent with the state of art: i. to foster a general understanding of AI systems; ii. to make stakeholders aware of their interactions with AI systems, including in the workplace; iii. to enable those affected by an AI system to understand the outcome; and, iv. to enable those adversely affected by an AI system to challenge its outcome based on plain and easy-to-understand information on the factors, and the logic that served as the basis for the prediction, recommendation or decision.
1.4. Robustness, security and safety a) AI systems should be robust, secure and safe throughout their entire lifecycle so that, in 2 This Annex draws from the OECD principles and recommendations.
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conditions of normal use, foreseeable use or misuse, or other adverse conditions, they function appropriately and do not pose unreasonable safety risk. b) To this end, AI actors should ensure traceability, including in relation to datasets, processes and decisions made during the AI system lifecycle, to enable analysis of the AI system’s outcomes and responses to inquiry, appropriate to the context and consistent with the state of art. c) AI actors should, based on their roles, the context, and their ability to act, apply a systematic risk management approach to each phase of the AI system lifecycle on a continuous basis to address risks related to AI systems, including privacy, digital security, safety and bias.
1.5. Accountability AI actors should be accountable for the proper functioning of AI systems and for the respect of the above principles, based on their roles, the context, and consistent with the state of art.
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Section 2: National policies and international co-operation for trustworthy AI
2.1. Investing in AI research and development a) Governments should consider long-term public investment, and encourage private investment, in research and development, including inter-disciplinary efforts, to spur innovation in trustworthy AI that focus on challenging technical issues and on AI-related social, legal and ethical implications and policy issues. b) Governments should also consider public investment and encourage private investment in open datasets that are representative and respect privacy and data protection to support an environment for AI research and development that is free of inappropriate bias and to improve interoperability and use of standards.
2.2. Fostering a digital ecosystem for AI Governments should foster the development of, and access to, a digital ecosystem for trustworthy AI. Such an ecosystem includes in particular digital technologies and infrastructure, and mechanisms for sharing AI knowledge, as appropriate. In this regard, governments should consider promoting mechanisms, such as data trusts, to support the safe, fair, legal and ethical sharing of data.
2.3 Shaping an enabling policy environment for AI a) Governments should promote a policy environment that supports an agile transition from the research and development stage to the deployment and operation stage for trustworthy AI systems. To this effect, they should consider using experimentation to provide a controlled environment in which AI systems can be tested, and scaled-up, as appropriate. b) Governments should review and adapt, as appropriate, their policy and regulatory frameworks and assessment mechanisms as they apply to AI systems to encourage innovation and competition for trustworthy AI.
2.4. Building human capacity and preparing for labor market transformation a) Governments should work closely with stakeholders to prepare for the transformation of the world of work and of society. They should empower people to effectively use and interact with AI systems across the breadth of applications, including by equipping them with the necessary skills. b) Governments should take steps, including through social dialogue, to ensure a fair transition for workers as AI is deployed, such as through training programs along the working life, support for those affected by displacement, and access to new opportunities in the labor market.
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- c) Governments should also work closely with stakeholders to promote the responsible use of AI at work, to enhance the safety of workers and the quality of jobs, to foster entrepreneurship and productivity, and aim to ensure that the benefits from AI are broadly and fairly shared.
2.5. International co-operation for trustworthy AI a) Governments, including developing countries and with stakeholders, should actively cooperate to advance these principles and to progress on responsible stewardship of trustworthy AI. b) Governments should work together in the OECD and other global and regional fora to foster the sharing of AI knowledge, as appropriate. They should encourage international, cross sectoral and open multi-stakeholder initiatives to garner long-term expertise on AI. c) Governments should promote the development of multi-stakeholder, consensus-driven global technical standards for interoperable and trustworthy AI. d) Governments should also encourage the development, and their own use, of internationally comparable metrics to measure AI research, development and deployment, and gather the evidence base to assess progress in the implementation of these principles.
G20 AI PRINCIPLES
The G20 supports the Principles for responsible stewardship of Trustworthy AI in Section 1 and takes note of the Recommendations in Section 2.
Section 1: Principles for responsible stewardship of trustworthy AI
1.1. Inclusive growth, sustainable development and well-being Stakeholders should proactively engage in responsible stewardship of trustworthy AI in pursuit of beneficial outcomes for people and the planet, such as augmenting human capabilities and enhancing creativity, advancing inclusion of underrepresented populations, reducing economic, social, gender and other inequalities, and protecting natural environments, thus invigorating inclusive growth, sustainable development and well-being.
1.2. Human-centered values and fairness a) AI actors should respect the rule of law, human rights and democratic values, throughout the AI system lifecycle. These include freedom, dignity and autonomy, privacy and data protection, non-discrimination and equality, diversity, fairness, social justice, and internationally recognized labor rights. b) To this end, AI actors should implement mechanisms and safeguards, such as capacity for human determination, that are appropriate to the context and consistent with the state of art.
1.3. Transparency and explainability AI Actors should commit to transparency and responsible disclosure regarding AI systems. To this end, they should provide meaningful information, appropriate to the context, and consistent with the state of art: i. to foster a general understanding of AI systems; ii. to make stakeholders aware of their interactions with AI systems, including in the workplace; iii. to enable those affected by an AI system to understand the outcome; and, iv. to enable those adversely affected by an AI system to challenge its outcome based on plain and easy-to-understand information on the factors, and the logic that served as the basis for the prediction, recommendation or decision.
1.4. Robustness, security and safety a) AI systems should be robust, secure and safe throughout their entire lifecycle so that, in 2 This Annex draws from the OECD principles and recommendations.
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conditions of normal use, foreseeable use or misuse, or other adverse conditions, they function appropriately and do not pose unreasonable safety risk. b) To this end, AI actors should ensure traceability, including in relation to datasets, processes and decisions made during the AI system lifecycle, to enable analysis of the AI system’s outcomes and responses to inquiry, appropriate to the context and consistent with the state of art. c) AI actors should, based on their roles, the context, and their ability to act, apply a systematic risk management approach to each phase of the AI system lifecycle on a continuous basis to address risks related to AI systems, including privacy, digital security, safety and bias.
1.5. Accountability AI actors should be accountable for the proper functioning of AI systems and for the respect of the above principles, based on their roles, the context, and consistent with the state of art.
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Section 2: National policies and international co-operation for trustworthy AI
2.1. Investing in AI research and development a) Governments should consider long-term public investment, and encourage private investment, in research and development, including inter-disciplinary efforts, to spur innovation in trustworthy AI that focus on challenging technical issues and on AI-related social, legal and ethical implications and policy issues. b) Governments should also consider public investment and encourage private investment in open datasets that are representative and respect privacy and data protection to support an environment for AI research and development that is free of inappropriate bias and to improve interoperability and use of standards.
2.2. Fostering a digital ecosystem for AI Governments should foster the development of, and access to, a digital ecosystem for trustworthy AI. Such an ecosystem includes in particular digital technologies and infrastructure, and mechanisms for sharing AI knowledge, as appropriate. In this regard, governments should consider promoting mechanisms, such as data trusts, to support the safe, fair, legal and ethical sharing of data.
2.3 Shaping an enabling policy environment for AI a) Governments should promote a policy environment that supports an agile transition from the research and development stage to the deployment and operation stage for trustworthy AI systems. To this effect, they should consider using experimentation to provide a controlled environment in which AI systems can be tested, and scaled-up, as appropriate. b) Governments should review and adapt, as appropriate, their policy and regulatory frameworks and assessment mechanisms as they apply to AI systems to encourage innovation and competition for trustworthy AI.
2.4. Building human capacity and preparing for labor market transformation a) Governments should work closely with stakeholders to prepare for the transformation of the world of work and of society. They should empower people to effectively use and interact with AI systems across the breadth of applications, including by equipping them with the necessary skills. b) Governments should take steps, including through social dialogue, to ensure a fair transition for workers as AI is deployed, such as through training programs along the working life, support for those affected by displacement, and access to new opportunities in the labor market.
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- c) Governments should also work closely with stakeholders to promote the responsible use of AI at work, to enhance the safety of workers and the quality of jobs, to foster entrepreneurship and productivity, and aim to ensure that the benefits from AI are broadly and fairly shared.
2.5. International co-operation for trustworthy AI a) Governments, including developing countries and with stakeholders, should actively cooperate to advance these principles and to progress on responsible stewardship of trustworthy AI. b) Governments should work together in the OECD and other global and regional fora to foster the sharing of AI knowledge, as appropriate. They should encourage international, cross sectoral and open multi-stakeholder initiatives to garner long-term expertise on AI. c) Governments should promote the development of multi-stakeholder, consensus-driven global technical standards for interoperable and trustworthy AI. d) Governments should also encourage the development, and their own use, of internationally comparable metrics to measure AI research, development and deployment, and gather the evidence base to assess progress in the implementation of these principles.