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“GIGAFACTORY”, INTELLIGENZA ARTIFICIALE, FACOLTA’ DI STUDI STRATEGICI

Continua il declassamento di Torino

Un legionario romano misura il territorio per la fondazione di una città

La notizia dell’assegnazione a Termoli della terza “gigafactory” per le batterie di Stellantis è stata accolta con atteggiamenti diversi da Autorità  e organizzazioni sindacali.

Premesso che quello di fare sempre commenti a caldo, pro o contro, è una sorta di malvezzo, perché i fenomeni sociali vanno valutati nel loro complesso, a noi sembra che comunque, per Torino e il Piemonte, le nuove notizie siano sempre più negative.

Infatti, la notizia della Gigafactory a Termoli è arrivata insieme a quella di un drastico ridimensionamento dell’ Istituto per l’ Intelligenza Artificiale (che non si chiamerà più così, ridotto a uno dei tanti hub, con soli 20 milioni di Euro, e limitato al trasferimentio di tecnologie ad auto, spazio e robotica).

Infine, non c’è più il progetto dei compressori, e, dulcis in fundo, si parla anche di abolire la Facoltà di Scienze Strategiche e di Sicurezza.

Bonifacio del Monferrato, conquistatore del Levante

1. Trasformazioni inevitabili

 Certo, è scontato che, con il passare del tempo, un mercato di beni di consumo, com’è quello dell’auto, si sposti sempre più verso i paesi di recente industrializzazione, dove ci sono miliardi di nuovi clienti. Basti dire che in Cina si producono oggi mediamente trenta milioni di veicoli all’ anno, di fronte ai quali anche i due milioni dell’ Italia nei tempi migliori non possono che impallidire.Per non parlare dei 400.00 dell’ Italia di oggi,  dei 40.000 di Torino-quantità assolutamente irrilevanti-.

E’ anche vero che le case automobilistiche decidono le strategie  in base alle loro convenienze, e che in Italia c’è ancora una politica per il Mezzogiorno, di cui la stessa FIAT aveva fruito a suo tempo ad abundantiam. E’ la FIAT, non Stellantis, né il Ministro Giorgetti, ad avere costruito Termoli.E’ la FIAT, non Stellantis, né Giorgetti, ad avere trasferito la propria sede all’ estero.  E’ anche vero che Stellantis è ormai, nella sostanza, un’impresa degli stakeholders, corrispondente agli standards europei di “public company” e al vecchio ideale mitteleuropeo dell’ “Unternehmen an sich” esaltato da Rathenau, ed è quindi logico che, semmai, guardi a un interesse generale europeo piuttosto che a interessi settoriali locali o cittadini (pensiamo al classico esempio della Società dei Battelli del Reno).

Tuttavia, resta il fatto che una politica locale democratica mantiene un qualche senso se essa persegue interessi a lungo termine degli specifici territori. Proprio gli stakeholders sono per natura “situati”(“geortet”). Interessi che dovrebbero essere coordinati con quelli generali, attraverso il concetto di “missione” e gl’istituti giuridici della partecipazione (dei lavoratori, del management, del Governo). Secondo un insegnamento tradizionale, le nazioni europee avrebbero ciascuna una loro “missione”, e, in ciascuna nazione, i singoli territori dovrebbero avere le loro specifiche missioni. Inoltre, in un’impresa cogestita secondo il modello mitteleuropeo, le rappresentanze dei vari settori aziendali e dei vari territori dovrebbero essere bilanciaste, come accade ad esempio nel Gruppo Volkswagen, ma non nel Gruppo Stellantis (dove la Francia è sovrarappresentata). E qui mi chiedo quale sia la responsabilità dei sindacati, che ora tanto si lamentano, ma non hanno mai voluto loro rappresentanti negli organi societari.

Torino nel 1706: la più grande fortezza d’Europa

2.Le vecchie missioni di Torino

In passato, l’idea di una “missione di Torino” era stata in un modo o nell’ altro perseguita, con l’idea del federalismo quale contributo dell’Italia all’ Europa (vedi per esempio il Movimento “Comunità”), e quella della FIAT quale fabbrica intelligente di Torino in Europa. Pensiamo alla Fondazione Agnelli, alle mostre organizzate al Lingotto e a Palazzo Grassi. Ma l’intero sistema Fiat andava molto al di là della Città dell’ Auto, con la finanza, il management, la cultura, i giornali, i sindacati, la Difesa, l’aerospazio, lo sport,…con una logica di “patriottismo cittadino” teorizzata dall’ Avvocato Agnelli.

Ora, tutte queste tradizioni sembrano spezzate. L’Europa non riesce a farsi valere nel mondo, anche perché non sa  diventare nemmeno una federazione (quando dovrebbe oramai essere uno Stato-civiltà), e Torino, dopo la distruzione dell’ Olivetti e il trasferimento  della CIR e della  holding FIAT, non è più (contrariamente a quanto si continua a millantare)una metropoli industriale.

Il che, di per sé, non sarebbe un problema se, negli ultimi 50 anni, i poteri forti della città avessero lavorato nel senso, a suo tempo promesso, di una conversione al settore dei servizi, quella conversione per cui noi avevamo lavorato, nella proprietà intellettuale, nel diritto del lavoro, nel business development, nei mergers  acquisitions: un centro d’innovazione tecnologica e sociale capace di irradiarsi nel  resto del mondo (come attraverso le infinite controllate che aveva il Gruppo FIAT, un centro di finanza internazionale, come aveva tentato di essere il gruppo CIR, la Città della Cultura promessa dalle amministrazioni locali). In realtà, nessuno di questi progetti è stato seriamente perseguito, né dal mondo imprenditoriale, né da quello politico,  i quali, incapaci d’incarnare idee forti e competitive,  hanno preferito inchinarsi ai trend dominanti, cedendo la leadership ad altri, siano essi la Silicon Valley, la piazza finanziaria di Londra, i paradisi fiscali, la Cina, la Francia, anche soltanto Milano.

Il Principe Eugenio di Savoia, comandante in capo delle armate imperiali, massimo condottiero d’Europa

3. Fine del progetto modernista europeo

Il tragico è che, anche in un mondo competitivo come quello attuale, tutti i territori sono costretti, volenti o nolenti, a reinventarsi continuamente una nuova missione. Chi l’avrebbe detto, quarant’anni fa, che Shenzhen sarebbe diventata la capitale dell’informatica o Dubai del turismo di lusso?)

Quindi, nonostante gli sconvolgimenti in corso negli scenari mondiali, è normale che i cittadini continuino ad attendersi, dalle loro classi politiche, se non delle soluzioni, almeno delle proposte in tal senso. Invece,  anche se forse loro malgrado, i politici locali riescono sempre meno a fare proposte sensate, perché è la società europea nel suo complesso che non ha progetti. E questo lo dicono oramai tutti, anche i vertici dell’ “establishment” locale, che non si rendono conto di essere loro la causa di tutti questi problemi.

Nell’Ottocento, gli Stati europei perseguivano  obiettivi di forza politico-militare perché questa permetteva la razionalizzazione delle infrastrutture e la partecipazione all’ impresa coloniale(i treni, la flotta); nel ‘900, essi si attribuirono una funzione sociale per trainare l’industrializzazione e i consumi (l’auto, le assicurazioni sociali, l’edilizia popolare,la televisione); alla fine del secolo scorso, si perseguirono progetti di promozione sociale (il welfare State europeo) per coinvolgere le masse nella globalizzazione. Oggi, av prescinere dal fatto che quelli precedenti avessero un senso, i Governi europei non hanno più progetti. Il Green New Deal è innanzitutto un progetto cinese (massimo produttore di attrezzature per l’economia “verde”). La digitalizzazione europea è stata subappaltata ai GAFAM. La leadership della globalizzazione è passata, prima all’America, poi alla Cina; il benessere si diffonde negli ex Paesi sottosviluppati; la pretesa dell’Europa di essere leader della società dell’ informazione è sempre meno credibile.

Il Next Generation EU e il PNRR, gli ultimi miti dell’Europa, si stanno rivelando per quello che sono: dei modesti rattoppi su una situazione compromessa. Intanto, essi rappresentano una quota infinitesimale  del PIL europeo e italiano. Inoltre, come ha rilevato il  Giorgio Metta, direttore scientifico dell’ Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, essi considerano l’Intelligenza Artificiale, che è l’asset centrale del futuro, non come “una disciplina su cui investire a livello di ricerca” bensì come  “una commodity da acquistarsi da qualcuno”. In queste condizioni, è chiaro che l’Italia e l’Europa sono condannate a divenire delle colonie tecnologiche. Anche Torino, un tempo, con l’auto e il cinema, la moda e l’aeronautica, la cultura e la finanza, cuore pulsante dell’ economia italiana e una delle principali metropoli europee, non può fare altro che ripiegarsi su se stessa, rassegnandosi a una forma di musealizzazione. Una “Residenz”, come la chiamava Nietzsche, ma che aveva il suo stile (parzialmente conservato fino ad ora) solo grazie al fatto di essere ancora, dopo la perdita della capitale, la patria dei Grandi del Regno .

In Corso Marconi, dove c’era la Holding FIAT, s’erano incontrati nel 1821, gl’insorti della Cittadella di Alessandria e gli studenti rivoluzionari

4.Schizofrenia delle Autorità

Le Autorità locali hanno un bel gridare all’unisono al tradimento (da parte del Governo), finalmente in modo “bipartisan”, ma quale obbligo  avrebbero quelle nazionali di sostenere questa o quella città?

Secondo il Presidente Cirio e la Sindaca Appendino, la “gigafactory” doveva essere collocata a Torino per via della tradizione automobilistica  della Città “che ha inventato l’automobile”. Ma non è vero!L’auto fu inventata in Francia e in Germania da Cugnot, Lenoir e Benz.  E poi, chi l’ha detto che, anche cambiando totalmente l’economia mondiale, le città debbano continuare a produrre eternamente le stesse cose? Infine, già oggi c’è più automobile nel Sud Italia e in Emilia Romagna che a Torino. (400.000 auto prodotte in Italia contro le 40.000 a Torino).

Poi, non è neanche vero che la Gigafactory ha bisogno del Politecnico di Torino.500 dipendenti entro 10 anni,. Una cifra infinitesimale dei 7.000 managers degli ex “Enti centrali” che Stellantis si accinge a licenziare. E, poi, non si crederà mica che per fare andare avanti una fabbrica automatizzata di batterie ci vogliano tanti managers o progettisti locali? Basta andare a vedere la fabbrica modello della Lamborghini di Sant’Agata Bolognese, dove il capo progettista è Mitja Borkert, inviato dal Gruppo Volkswagen. Gli “operai” sono essenzialmente dei periti usciti dalle ITIS bolognesi e forniti di uno speciale training.

Non si può, né si deve, poi, arrivare, agli estremi di garantismo della cosiddetta “Embraco” (che in realtà è l’Aspera Frigo di Riva di Chieri),  ceduta al cliente  Whirpool, che la cedette a sua volta  alla sua controllata brasiliana Embraco, che a metà degli anni ’80 vantava 2500 lavoratori impiegati ed una produzione di 4 milioni e mezzo di compressori. Ma anche la Embraco venne ceduta dalla Whirlpool  ai Giapponesi, che di Riva di Chieri non ne vollero sapere. Il Governo italiano aveva tentato di riciclare lo stabilimento, con il trasferimento del ramo d’azienda alla Ventures Srl (israeliani e cinesi). Questa avrebbe dovuto diversificare la produzione (non più compressori ma robot) assicurando lavoro e reddito agli ultimi sopravvissuti di quella che fu una grande azienda, vale a dire più o meno 500 lavoratori in cassa integrazione. Invece giunsero la magistratura, la Guardia di Finanza, le perquisizioni e i sequestri: la Ventures fallì prima di iniziare l’attività, portando sulle spalle il peso di un’accusa di bancarotta fraudolenta.

Adesso è fallito l’ ennesimo progetto governativo: la fusione tra l’ Ex-Embraco e la ACC-Wanbao (entrambe in crisi): nome Italcomp; obiettivo, salvare 700 posti di lavoro in totale. Il tutto con l’intervento economico di soldi pubblici e privati.

Ma che senso ha che si sostenga per decenni un’attività che nessuno vuole (né la FIAT, né gli Americani, né i Brasiliani, né i Giapponesi, né gl’Israeliani, né i Cinesi) quando ce ne sarebbero cento altre da creare in Italia, molto redditive  richieste dai mercati di oggi?

Gli scontri di Piazza Castello nel 1864

5. Le missioni delle città sono sempre “polemiche”

D’altronde, la cosa non si è mai detta fino in fondo, ma la fortuna di Torino quale città della metalmeccanica è un’eredità della politica militaristica dei Savoia e del fascismo. La FIAT decollò con la guerra  italo-turca e divenne quel colosso che era grazie alla prima e alla seconda guerra mondiale. Anche dopo la seconda, la conversione all’ economia di pace fu facilitata dalle commesse militari. Con il diminuire delle guerre in Europa, e con la tecnicizzazione delle stesse, non c’è più bisogno di un’enorme industria meccanica nazionale. La “reindustrializzazione” è di moda negli USA perché essi si preparano a una guerra e non si fidano degli alleati. Ma, a parte il fatto che gli Europei sono più pacifisti, qui abbiamo bisogno di un’industria meccanica europea integrata, non già nazionale. Semmai, ci sarebbe bisogno di un’industria elettronica ed aerospaziale europea, a cui però gli Stati Uniti non ci vogliono dare accesso, come dimostrato già cinquant’anni fa dalla vicenda Olivetti.

E’per questo che l’Istituto Italiano per l’Intelligenza Artificiale  sarebbe stato così importante, ed è per questo ch’esso è stato “smontato”, trasformandosi in un innocuo “hub” per il trasferimento di tecnologia alle (scvarse) industrie esistenti.Infatti, le più recenti formulazioni di compromesso parlano di soli 20 milioni (contro gli 80 originari),  destinati solo al trasferimento di tecnologie alle industrie esistenti: automotive (che quasi non c’è più), robotica e aerospaziale.

Resterebbero la cultura e il turismo, ma anche queste non vengono coltivate come dovrebbero perché un loro approfondimento implicherebbe anch’ esso di evidenziare aspetti non “politicamente corretti”, quali le onnipresenti radici sabaude e cattoliche, il carattere polemico ed anticonformistico della cultura piemontese, da Alfieri a Salgari, da Nietzsche a Gramsci, da Burzio a Pavese.

Vogliamo ricordarlo che, a fasi alterne, sono stati tabù le lettere di Nietzsche, i Quaderni dal Carcere, il Demiurgo di Burzio e il diario segreto di Pavese?

Perfino l’enorme influenza del modello del Lingotto sull’ architettura razionalista è stata tenuta nascosta per le sue assonanze futuristiche e littorie. Non parliamo poi di quando si era scoperto che la Juergen Ponto Platz di Berlino era stata copiata da Via Roma.

Adesso vogliono togliere a Torino anche  qualcosa del corso di laurea di Scienze Strategiche e della Sicurezza, erede ultima delle tradizioni antiche delle “Regie Scuole Teoriche e Pratiche di Artiglieria e Fortificazione” volute da Carlo Emanuele III di Savoia.

L’occupazione delle fabbriche a Torino nel 1921

6. Che fare?

Perfino i giornalisti mainstream, come Luigi La Spina sui La Stampa, giungono a conclusioni sconfortanti: ”parole di cui abbiamo già sentito, di cui abbiamo già verificato i risultati e che non vorremmo più ascoltare nella loro genericità, e quindi, inutilità, il mistero delle concrete scelte  dei candidati alla poltrona di sindaco resta insondabile”.

Alla fine, la stessa Stampa invita all’ astensionismo alle prossime elezioni amministrative: ”E crescerà la voglia di sottrarsi a una così allettante competizione”.

Non crediamo che sia questa la soluzione. La tradizione storica di Torino è polemica come poche altre. Dal villaggio taurino incendiato da Annibale perché si opponeva all’ invasione dell’ Italia, ai legionari le cui centuriazioni si vedono ancora dal Bosco del Vai, alle lotte solitarie del dissidente vescovo Claudio di Torino, dell’autoproclamato Re d’Italia Arduino, di Bonifacio del Monferrato, che tentò di conquistare la Macedonia e del Colonnello Arnaud, fino alle vittorie geopolitiche di Emanuele Filiberto e il Principe Eugenio, comandanti in capo delle truppe del Sacro Romano Impero, fino alla più grande fortezza d’Europa, alle guerre risorgimentali, all’ occupazione gramsciana delle fabbriche (esaltata da Gobetti come “Rivoluzione Liberale”,  al programma “Terra, Mare, Cielo”, alla Resistenza, all’Autunno Caldo, alla produzione dell’F104, del Tornado e del Typhoon.

Perfino Mussolini, in un discorso a Torino, si era sentito in obbligo di scusarsi per il fatto che parlava di pace a un pubblico ch’egli riteneva particolarmente bellicoso.

A questo punto, c’è da chiedersi: ha senso che i Torinesi accettino ormai da gran tempo tutte queste “capitis deminutiones” senza mai reagire?

Certo, non sono più i tempi dell’insurrezione carbonara della Cittadella di Alessandria, né dei moti del 1864, quando i Carabinieri ammazzarono una cinquantina di Torinesi, né quelli di Nizza, dove lo stewsso fece la Guarde Nationale, né dei fatti di Piazza Statuto.

Tuttavia, ancor oggi, in tutto il mondo vi sono momenti di protesta corale nelle città, come per esempio ciò che continua a succedere in Catalogna, per non parlare di “Black Lives Matters”. Senza necessariamente chiedere a nessuno di scendere materialmente in piazza, s’imporrebbe da parte di tutti una maggior radicalità nel pensiero e nella prassi politica.