La recentissima polemica fra la premier Meloni e il quotidiano “La Repubblica” ha sollevato (almeno momentaneamente)le spesse coltri con cui l’”establishment” europeo ha nascosto, e ancora cerca di nascondere, lo stato comatoso delle nostre società, rappresentato icasticamente dalla loro decadenza economica, una decadenza che per altro è solo la punta dell’ iceberg di un più complessivo declino.
Certo, in teoria potrebbe esistere una “decrescita felice”, vale a dire se questa corrispondesse a una deliberata scelta esistenziale. Invece, nella realtà, la nostra è una “decrescita infelice”, perché si accompagna alla perdita dello slancio vitale, della stessa voglia di vivere (l’”era delle passioni tristi”).
Kareta FIAT (Polski) 1935
1.“L’Italia in vendita”?
Tutto è partito da un infelice titolo de “La Repubblica”, la quale, ispirandosi a vecchi articoli dei giornali di destra sulle privatizzazioni del Centro-sinistra, suonava così:“L’Italia in Vendita”. In considerazione del fatto che il gruppo proprietario de “La Repubblica”, GEDI, controllato dagli Elkann, detiene un record nella svendita di imprese italiane (essendo riuscito non solo a cedere all’ estero, ma addirittura a fare sparire nel nulla, un impero finanziario e industriale globale com’era la FIAT), la premier Meloni ha avuto buon gioco a ritorcere l’accusa contro il giornale e la sua proprietà, rifiutando, da quest’ultimo, una pretesa “lezione di italianità”. E certamente, John Elkann, figlio del francese Alain e di Margherita Agnelli, è tutt’altro che un patriota italiano, né ha mai preteso di esserlo, anche se non per “colpa” sua, essendo figlio di un Francese, essendo partorito a New York per dargli la cittadinanza americana, ed essendo stato educato in Francia. Né lo sono mai stati i giornalisti del “la Repubblica”, divisi storicamente fra internazionalismo progressista e globalismo occidentale.
Quindi, che “l’Italia sia in vendita” non è mai stata, ovviamente, una loro preoccupazione, come stanno ribadendo in questi giorni insieme ai colleghi de “la Stampa”, esaltando, anche se fuori tempo massimo, una libertà di movimento dei capitali oramai quasi inesistente in tutto il mondo dopo l’avvio della “Guerra Mondiale a Pezzi”(fra incentivi, paradisi fiscali, dazi, sanzioni…).
Ma, venendo alla FIAT, il Gruppo Agnelli aveva desiderato da gran tempo sbarazzarsene, forse già da quando, nel 1943, in previsione della sconfitta dell’ Asse, il Dott. Camerana era andato a Berna dal fondatore della CIA, Allen Dulles, per sentirsi dire dal suo staff che (come in effetti poi avvenne), dopo la guerra, la missione della FIAT sarebbe stata quella di produrre auto a buon mercato per l’Italia e i Paesi mediterranei sfruttando il basso costo della manodopera. E siccome le auto piccole e a buon mercato “rendono” ovviamente meno di quelle grandi e lussuose come le Mercedes e le BMW, il Gruppo Agnelli aveva cercato, giustamente dal suo punto di vista, di cambiare mestiere. Purtroppo, però, si trattava di un processo estremamente lungo e complesso (è durato un’ottantina di anni), perché un impero come la FIAT è strettamente legato alla società circostante (solidarietà politiche, aiuti di Stato, occupazione, pendenze pregresse), con vincoli ideologici, storici, familiari, legali, sindacali, politici e di immagine difficili da recidere.
Nel frattempo, i fornitori della FIAT, avendo compreso le intenzioni a lungo termine del loro cliente, cercavano anch’essi di defilarsi, vendendo i loro stabilimenti ai concorrenti, o, in mancanza di meglio, alla stessa FIAT, e provocando, così, una crisi di fiducia nell’imprenditoria, e in tutta la società, piemontesi. Ricordo che quando, nel lontano 1982, tornai a Torino dalle Comunità Europee, nell’ anticamera del medico del lavoro un solitario vecchio operaio mi chiese stupito: “ma la Fiat assume ancora?”
Un trend di cui oggi le pluridecennali questioni ancora pendenti dell’Embraco, della Whirlpool, della GKN, della Marelli, della Lear e dell’ Idrosapiens (che furono al centro delle mie attività già mezzo secolo fa) sono solo le ultime frattaglie. Le vendite erano incominciate già negli anni ’70.
Invece, da sempre il Governo francese, a partire da De Gaulle, ha desiderato accaparrarsi, attraverso le sue imprese, la massima quota parte della base industriale europea, per farne uno strumento della propria politica di potenza in Europa e nel mondo (quello che oggi si chiama “weaponisation”).
Ufficio Olivetti di New York
2.Un processo lungo cinquant’anni
Negli Anni ’80, erano partite le manovre allo scoperto per vendere l’intera FIAT: gli accordi FIAT-Ford, FIAT General Motors e FIAT-Chrysler. Quest’ultimo fu spacciato all’opinione pubblica come una “fusione fra eguali”, ma era chiaro che il Gruppo Agnelli aveva la maggioranza, anche se non lo faceva vedere per non urtare le suscettibilità americane, visto l’enorme “leverage” dato all’ operazione dal Presidente Obama. Un caso speculare a ciò che, come rilevato dalla premier, è ora accaduto con la Francia.
Comunque, già allora i centri direzionali si erano spostati ad Amsterdam, Londra e Detroit. Risolto con un’abile mossa di Marchionne, l’accordo con la General Motors la proprietà trovò finalmente una via di uscita definitiva con la fusione con la PSA, controllata dallo Stato francese, anch’essa “spacciata ” come una “fusione fra eguali”, ma che si palesò ben presto come una cessione occulta allo Stato francese (cosa accertata fin da subito dalle Autorità di banca e di borsa, e “rivelata” ora platealmente da Giorgia Meloni).
Nel frattempo, si vendevano anche i rami secondari, dall’ Aspera, all’IVI, all’Altecna, alla SEPA, alla Fiat Engineeering, all’Avio, all’ IVECO, alla Marelli….
Missile nucleare francese
3.Arrivati alla fase finale?
Come se ciò non bastasse, ora, il nuovo gruppo Stellantis sta chiudendo varie fabbriche secondarie ex Fiat, in Italia e all’ estero (per esempio la FIAT Polski, un’azienda esistente dal 1936, e da noi ricostituita con fatica dopo la caduta del Muro di Berlino), ed, ora, la Maserati (venduta online come capannone), e perfino, dal 2014, la FIAT Spa.
Ma la goccia che starebbe facendo traboccare il vaso è che questa Stellantis, che oramai non ha più nulla di italiano, starebbe chiedendo soldi al Governo per non trasferire in Marocco le poche attività residue. Questo smaschera la ormai pluridecennale finzione della politica, dei sindacati e dei media, sul fatto che la Stellantis fosse rimasta in fondo la vecchia FIAT.
Oggi, il Governo sta giustamente condizionando la concessione di nuovi aiuti alla produzione di ulteriori aiuti alla produzione in Italia di più automobili. Una politica di “reshoring” simile a quella di molti altri Stati, ma che, a nostro avviso, in Europa significa condannarci sempre più al ruolo di paesi industriali obsoleti.
Nessuno contesta il diritto di qualunque multinazionale a perseguire i propri interessi, ma nessuno dovrebbe mettere in dubbio nemmeno il dovere dei Governi di presidiare l’interesse pubblico con tutti gli strumenti politici e giuridici disponibili, in base a considerazioni geopolitiche, culturali, politiche e sociali, come hanno fatto, e stanno facendo più che mai in questa “fase prebellica”, tutti i Paesi del Mondo.
Contrariamente a quanto hanno pensato da sempre (per motivi elettorali) dai politici, il mantenimento sul territorio della produzione è meno importante di quello del controllo finanziario, tecnologico e manageriale. Cosa ben chiara all’ Avvocato Agnelli, che, in un suo libro-intervista, aveva ben spiegato i vantaggi derivanti a Torino dalla presenza delle varie holding de suo gruppo e dell’ indotto, comprensivo di professionisti ed altri fornitori di servizi.
Cosa che il Governo Francese, pur con i suoi enormi limiti (vedi Sahel), ha sempre cercato di fare. Invece di lamentarcene, dovremmo almeno cercare di trarne ispirazione.
C’è solo da chiedersi se i Paesi Europei, che, nell’Era delle Macchine Intelligenti, pretendono di difendere la “manifattura”, non facciano il male dell’Europa, allontanandola sempre più dalla competizione per l’eccellenza nei settori che contano, dall’industria culturale (grandi istituzioni culturali, media), delle alte tecnologie (informatica, neuroscienze) e dell’ industria aerospaziale e di difesa. ,Ripetendo le scelte sbagliate di tanti anni fa, come far morire l’Olivetti e il Concorde (oltre che la bomba atomica europea), e sostenere invece le industrie dei beni di consumo.
I governi militari secedono dalla Comunità dell’ Africa Occidentale
4.L’Italia specchio dell’ Europa
Quella diatriba italo-italica, come tante altre, risulta essere, alla fine, solo un ennesimo gioco delle parti all’ interno di un “establishment allargato”, ma provinciale, per scaricarsi reciprocamente addosso responsabilità che, per altro, ci sono, e sono enormi.
Il punto è, infatti, che tutti i governi italiani, compresi quelli di destra, hanno avuto almeno 50 anni per comprendere, tanto la strategia dimissionaria dell’industria metalmeccanica, quanto i mezzi giuridici, politici, e perfino giudiziari, per contrastarla, quanto, infine, l’avanzare della Società delle Macchine Intelligenti e la nascita dei GAFAM americani e dei BAATX cinesi. Eppure, nessuno ha mai mosso un dito per cambiare la situazione.
Il trasferimento all’ estero dei centri decisionali della FIAT non è di oggi: era già incominciato con l’accordo con la General Motors, ed era continuato con quelli con Chrysler e PSA (che ha dato origine a Stellantis). Ancor più antica, l’uccisione deliberata dell’ Olivetti Elettronica (“un neo da Estirpare”). Adesso che i buoi sono usciti dalla stalla è troppo comodo stare a polemizzare retroattivamente, senza più poter fare nulla, salvo bloccare eventuali nuovi finanziamenti, a meno della sempre più improbabile ipotesi di affiancarsi alla Francia nella proprietà di Stellantis.
La forza dei gruppi industriali deriva soprattutto dalla volontà politica dei loro governi, come dimostrato proprio dalla FIAT con il suo protagonismo nelle guerre del XX° Secolo, nella motorizzazione dell’Est Europa e nell’industrializzazione del Mezzogiorno. Quando i Governi sono pusillanimi, come quelli dell’Europa attuale, le imprese cercano invece solo di evitare di essere “prese in mezzo” a cose più grandi di loro, e si alleano con Governi più potenti e/o più assertivi.
Pensiamo soltanto a come tutti hanno accettato senza reagire la distruzione del North Stream II, con tutti gl’investimenti europei ch’esso era costato. Un altro esempio: il gruppo automobilistico francese pubblico al 100%, la Régie Rénault, quando sono sopraggiunte le sanzioni e le contro-sanzioni fra Europa e Russia, anziché resistere con il proprio investimento in quel Paese, come hanno fatto tante imprese occidentali (e, in particolare, americane), hanno addirittura svenduto allo Stato russo per il prezzo simbolico di 1 rublo, la loro partecipazione a nella AvtoVaz, la società della città di Togliatti, costruita dalla FIAT. Una intera città, costruita con tanta fatica dai lavoratori e manager torinesi, venduta per un rublo!
Lo dice qualcuno che ha passato buona parte della vita lavorativa a costruire una presenza italiana ed europea sui mercati extraeuropei. Anche e soprattutto in quell’ Africa, di cui oggi tanto si parla (vedi “Piano Mattei”), che è stata uno dei principali fallimenti dell’ Europa (Vedi il libro R.Lala. “Les procédures de la coopération Financière e Technique dans le care de la II Convention de Lomé”, Giappichelli, Torino, 1981).
E’ semplicemente inaudito che i politici e i giornalisti di tutte le tendenze fingano di ignorare completamente l’esistenza della cooperazione europea allo sviluppo e dell’ Associazione ACP-CEE, che sta facendo (male) da più di mezzo secolo ciò che ora l’Italia si ripromette di fare con il “Piano Mattei”. Certo, se ne vergognano, forse perché, dopo tanti anni, l’UE non è riuscita a risolvere neppure in piccola parte, i problemi dell’Africa, ma nemmeno a impedire che li risolvessero invece quegli altri Stati che si sono affacciati prepotentemente nel mondo della cooperazione allo sviluppo (Cina, Russia, Arabia, Turchia).
Quando parliamo di “Europa in Vendita”, abbiamo però in mente soprattutto l’incredibile viavai dei guru informatici e di altri consulenti americani nelle stanze del potere europeo, dal Berlaymont all’Eliseo, dal Quirinale a Palazzo Chigi, fino ai vari Ministeri della Salute e perfino in Vaticano. Dopo l’ “uccisione” della divisione informatica della Olivetti (“un neo da estirpare”) attraverso la sua svendita alla General Electric, si continua da sessant’anni a impedire la nascita di una seppur minima industria informatica europea, arricchendo in ogni modo i GAFAM e le altre multinazionali con i dati e i denari di pubblico e privati europei. Tra l’altro, una fonte di corruzione di fronte alla quale quella delle monarchie del Golfo appare come un gioco da ragazzi.
Se si volesse veramente creare una “Sovranità Europea”, come si sta ricominciando a dire da quando si prospetta una nuova vittoria di Trump in America, bisognerebbe rovesciare proprio questo trend verso la colonizzazione del nostro Continente, investendo innanzitutto nelle attività “proibite” agli Europei. Basterebbe riprendere sul serio le infinite cose iniziate e mai finite, come l’Esercito Europeo, la bomba europea, l’EADS, l’Associazione ACP-CEE, Qwant, Gaia-X, l’Accademia Europea, la Politica Agricola Comune…), non trastullarsi con le “armi di distrazione di massa” quali la “religione dei diritti” o le “fake news”. Di quelle si dovrebbero occupare fin da subito la Politica Industriale Europea, la Politica Estera e di Difesa dell’ Europa e la Conferenza sul Futuro dell’ Europa!
Confermata la fine dell’ Istituto Italiano per l’ Intelligenza Artificiale
Respingendo l’ Assedio di Torino, il Ducato di Savoia divenne regno
Nel Settembre 2020 il Governo aveva annunziato che, nell’ambito della Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale, sarebbe stato creato a Torino un Istituto Italiano per l’ Intelligenza Artificiale.
Avevamo sostenuto il progetto con la massima energia, dedicandovi addirittura il libro “L’Istituto Italiano dell’ Intelligenza Artificiale”, con una prefazione di Markus Krienke, nel quale avevamo ricostruito le basi storiche e filosofiche del progetto, nonché il laborioso iter nelle Istituzioni Europee e nei Ministeri. Avevamo presentato il libro al Salone del Libro 2020. Quest’anno, abbiamo pubblicato un secondo libro, con la prefazione di Enrica Perucchietti, dedicato a”L’Intelligenza Digitale e l’Agenda Digitale”.
FIAT:un impero multinazionale
1.Una delusione prevedibile
Nel settembre del 2020, la sindaca Appendino aveva annunciato: “L’Istituto italiano per l’Intelligenza artificiale sarà a Torino e avràl’obiettivo di coordinare le attività di ricerca in questo campo”. Non era mai stato così. L’ attuale sindaco, Stefano Lo Russo, intervistato da La Stampa, conferma: “Quel progetto, va detto con chiarezza, non è mai stato attuato dal Parlamento e non è più tale già da luglio dello scorso anno, quando il governo ha deciso di fare di Torino la sede di un centro per l’intelligenza artificiale associata alla mobilità sostenibile”, uno dei 10 centri che dovrebbero sorgere nel nostro Paese.
L’Istituto avrebbe dovuto costituire, per così dire, il “risarcimento” di Torino per la mancata candidatura a sede di una corte secondaria del Tribunale Europeo dei Brevetti (TUB), ma chi aveva letto con attenzione le decisioni prese da governo e parlamento nel 2021 già sapeva che il progetto era stato fortemente ridimensionato, come avevamo anticipato proprio in questo blog. Le novità è che ora tutti lo ammettono, e che, inoltre, l’assegnazione all’ Italia (e la stessa nascita) della corte dei brevetti, è in alto mare (sicché anche l’ “indennizzo” per Torino avrebbe poco senso).
Il caso è tornato di attualità sui media perché venerdì 27 maggio il ministro dell’Innovazione e della Ricerca, Maria Cristina Messa – parlando a investitori e istituzioni alla Nuvola Lavazza, riuniti per discutere del PNRR – aveva detto che, sull’intelligenza artificiale, Torino “dovrà partecipare a un bando come tutti” e che per la città è previsto invece “un Centro per la mobilità sostenibile che però non ha competenze specifiche sull’intelligenza artificiale”. La legge istitutiva definisce tale centro come segue: “Al fine di incrementare la ricerca scientifica, il trasferimento tecnologico e più in generale l’innovazione del Paese nel settore dell’automotive e di favorire la sua ricaduta positiva nell’ambito dell’industria, dei servizi e della pubblica amministrazione, è istituita la fondazione Centro italiano di ricerca per l’automotive, competente sui temi tecnologici e sugli ambiti applicativi relativi alla manifattura nei settori dell’automotive e aerospaziale, nel quadro del processo Industria 4.0 e della sua intera catena del valore, per la creazione di un’infrastruttura di ricerca e innovazione che utilizzi i metodi dell’intelligenza artificiale. La fondazione ha sede a Torino. Per il raggiungimento dei propri scopi la fondazione instaura rapporti con omologhi enti e organismi in Italia e all’estero. Sono membri fondatori della fondazione il Ministero dell’economia e delle finanze, il Ministero dell’università e della ricerca e il Ministero dello sviluppo economico, ai quali è attribuita la vigilanza sulla fondazione medesima”.
Il problema a questo punto è che neanche la Fondazione è mai nata. Entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge il Ministero dell’economia (d’accordo con Mise e Miur) avrebbe dovuto nominare il Comitato di coordinamento. Ma questo non è mai avvenuto.
Togliatti: la città industriale italo- russa, oggi ferma
Ciò che preoccupa veramente è l’assoluta assenza di programmi, da parte dell’ Europa, per l’intelligenza artificiale, e, da parte dell’ Italia, per Torino.
Per ciò che riguarda l’Europa, avevamo pubblicato l’anno scorso “European Technology Agency”, in cui reclamavamo un progetto centralizzato dell’Europa per stare al passo, da un lato, della legislazione cinese (Made in China 2025 e China Standards 2035), e, dall’ altra, di quella in preparazione in America (lo “Endless Frontier Act”). L’attuale approccio dell’Unione Europea, basato su un investimento molto inferiore a quello dei nostri concorrenti, come pure su un’organizzazione troppo decentrata della ricerca, dove la parte del leone è fatta da hubs” a livello locale e da piccole e medie imprese, sembra fatto apposta per non fare ombra ai GAFAM, i quali sono comunque coinvolti con un ruolo direttivo nelle iniziative europee (come nel caso di GAIA-X).
Come aveva rilevato già l’anno scorso il Prof. Metta, direttore dell’ Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, nel Piano Italiano per l’ Intelligenza Artificiale, l’IA è vista come qualcosa che si compra presso altri, non come una tecnologia che si sviluppa autonomamente, e che eventualmente si vende ad altri.
Non parliamo poi dell’idea di Don Luca Peyron, di orientare il previsto Istituto verso la tematica dell’etica dell’ Intelligenza Artificiale. Troncare, sopire, sopire, troncare! Come quando, a proposito della Olivetti, Valletta disse che la Divisione Informatica era “un neo che occorre estirpare”.
Per ciò che riguarda l’Italia, richiamiamo i nostri due libri “L’Istituto Italiano dell’ Intelligenza Artificiale” e ”Intelligenza Artificiale e Agenda Digitale che illustrano il collegamento strettissimo fra Intelligenza Artificiale, economia nazionale, geopolitica e futuro dell’ Umanità.
L’Istituto Italiano dell’ Intelligenza, ed ancor più l’Agenzia Europea per la Tecnologia, avrebbero dovuto affrontare di petto proprio il problema dell’ inadeguatezza di Torino, dell’ Italia e dell’ Europa, dopo la distruzione dell’ Olivetti, ad affrontare l’Era delle Macchine Intelligenti, portando i nostri territori a un livello di Paesi sottosviluppati.
Questo è il risultato del rapporto di tipo coloniale che intratteniamo con gli Stati Uniti, rapporto che risulta sempre più evidente ora che gli USA impongono la loro volontà, come nella riunione di Ramstein, gli Europei pagano (al DoD, ai GAFAM, alla Russia, all’ Ucraina), e gli Ucraini combattono e muoiono per un “Occidente” a cui non appartengono.
Nell’abisso di arretratezza in cui questa situazione ci sta sprofondando, risulta più che mai urgente immergerci totalmente nella cultura (unica attività che non ci sia stata ancora preclusa), per studiare il rapporto fra cultura e tecnica, fra tecnica e geopolitica, fra informatica e Occidente, fra Occidente e mondo, elaborando una filosofia, una dottrina politica e militare, una strategia economica incentrati sul riscatto del nostro Continente.
Il nostro ultimo libro tratta dell’assenza europea, italiana e torinese
3.Da Emanuele Filiberto al Principe Eugenio, al Senatore Agnelli
I periodi di grandezza di Torino sono sempre stati avviati da atti di forza: dalla battaglia di San Quintino, all’assedio del 1706, a “Terra, Mare, Cielo”.
Quando manca il potere politico, anche l’economia langue. L’ultimo grande sforzo di Torino, con l’espansione internazionale (Togliatti, FIAT Polski, New Holland, Pegaso) è fallito di frante alla delusione del fallimento della Perestrojka.
Oggi, le fabbriche FIAT all’ estero, quando non siano state ri-nazionalizzate per volontà della NATO (come per esempio l’ Avtovaz), sono passate sotto il controllo straniero, quando non addirittura chiuse.
100 anni di sforzi di generazioni di managers, tecnici, lavoratori, per portare il lavoro italiano in tutto il mondo, dall’ Ungheria all’ Indonesia, dall’ Egitto alla Spagna, dal Marocco all’ Argentina, dalla Polonia alla Yugoslavia, dalla Russia al Brasile, dalla Turchia agli Stati Uniti, si sono rivelati inutili. Non siamo più destinati ad essere il centro di imperi economici, bensì docili colonie delle multinazionali del web. E ci stupiamo pure che altri non vogliano condividere questa stessa nostra sorte, e continuino a battersi per restare fra coloro che hanno voce in capitolo circa il futuro del mondo.
Allora e oggi: L’informatica in Piemonte e in Europa,
una riflessione per la Conferenza sul Futuro dell’ Europa
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La calcolatrice P01, primo “computer” italiano
La corsa alla leadership nelle nuove tecnologie, attualmente aperta fra le diverse aree del mondo, e, in particolare, fra Stati Uniti e Cina, vede l’ Europa in una posizione di grande debolezza, non diversa da quella degli Anni ’50 e ’60, quando si era svolta l’avventura della Olivetti, la quale, con una tempistica eccezionale, aveva anticipato, con i suoi prodotti ma soprattutto con la sua cultura umanistico-digitale, i temi che sono oggi al centro dell’attenzione generale.
Ora come allora, la consapevolezza complessità della transizione digitale e la sua centralità nello sviluppo delle società contemporanee faticano a farsi strada in diversi ambienti, che si attardano in visioni della società, dell’ economia e della tecnologia, che erano proprie piuttosto del secolo scorso, ma, oggi non hanno più ragione d’essere.
Una riflessione storica su quegli anni, sul significato delle proposte di Olivetti e di Tchou, sui motivi della interruzione del loro esperimento, potrebbero essere molto utili per comprendere il momento che stiamo vivendo oggi, quando, al momento dell’apogeo delle fortune dei GAFAM americani e dei BATX cinesi, l’ Unione Europea ambirebbe a proporsi quale “Trendsetter del dibattito mondiale” in campo digitale.
Soprattutto centrale per la definizione di una via europea al digitale è la sintesi di cultura e tecnologia digitale sperimentata alla Olivetti negli anni di Adriano Olivetti e di Mario Tchou.
La singolare vicenda dell’ Istituto Italiano dell’ Intelligenza Artificiale, relativamente al quale i successivi Governi italiani hanno compiuto una spettacolare retromarcia, ci fa riflettere sugli eventi di quegli anni, con la nascita (subito abortita) di una “Silicon Valley italiana”: la formazione di un eccezionale team d’intellettuali, scienziati e tecnologi (di cui Tchou fu il più brillante rappresentante); la progettazione di due prodotti d’avanguardia e di grande successo commerciale, interrotti per l’ incomprensione di parte degli stakeholders, dalla morte dei due protagonisti, Olivetti e Tchou, e dalle radicali trasformazioni dell’azienda.
Oggi come allora, l’Italia sembra non comprendere che la società del 21° secolo ha come cuore pulsante il digitale, e che, di conseguenza, nessun Paese del mondo, e meno che mai coloro che, come l’ Italia e l’ Europa, si pretendono all’ avanguardia, possono permettersi di trascurare questo centrale elemento della cultura, della scienza, dell’ economia, della società e della tecnologia contemporanee.
L’attuale corsa al digitale fra USA e Cina lascia spazio all’ Europa?
PROGRAMMA
Ore 10,00:Inizio dei lavori; Saluti dei promotori e delle Autorità
Ore 10,15: Intervento di Pier Virgilio Dastoli sulla Conferenza sul Futuro dell’ Europa
Le enormi difficoltà che Torino incontra da ormai quasi un anno per farsi riconoscere il ruolo (promessole dal Governo Conte) di sede dell’Istituto Italiano d’Intelligenza Artificiale conferma che vi sono correnti e interessi ostili allo sviluppo di un’industria digitale seria, non solo a Torino, ma, in generale, in Europa.
Ne costituiscono prove l’assenza, nel Recovery Plan-Next Generation europeo e nel PNRR italiano (per ora ancora solo sulla carta) di qualunque previsione a favore della nascita di multinazionali europee del digitale, come pure il fallimento di tutte le iniziative intraprese dalla Commissione per limitare il potere dei GAFAM, e, infine, la violentissima requisitoria del Parlamento Europeo contro l’inattività delle istituzioni e degli Stati Membri per attuare realmente il GDPR.
L’ultima beffa è stata costituita dalla destinazione di 30 milioni (che voci di corridoio governative attribuivano all’Istituto), per l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale nel settore “automotive”, stanziati a favore del Politecnico, mentre invece nulla si sta facendo per l’ Istituto, i cui compiti non dovrebbero essere settoriali, bensì generali, come illustrato in precedenti post, e non possono certo esaurirsi nel canalizzare fondi destinati a determinate imprese.
Prendiamo atto con piacere che i politici torinesi di tanto in tanto reagiscono a questo stallo, ma si tratta d’ interventi isolati e scoordinati.
Eppure, Torino presenterebbe tutte le caratteristiche per sviluppare un’industria digitale competitiva, purché le pubbliche Autorità l’aiutassero, così come il DARPA aveva aiutato la nascita dei GAFAM. Cosa che tanto l’Unione, quanto i Governi nazionali, rifiutano di fare, non rispondendo neppure alle continue sollecitazioni in tal senso.
E non si dica che solo le Superpotenze possono permettersi di creare i loro Campioni Nazionali digitali, perché, come scrive Ruchir Sharma su Foreign Affairs, anche una serie di potenze medie, come India, Indonesia, Turchia, Colombia, Cile, e perfino Polonia, Kenya e Nigeria, stanno creando i loro campioni.
Che anche l’Europa (e l’Italia) facessero qualcosa sarebbe il minimo che ci si potrebbe e dovrebbe attendere da un’Unione che vanta addirittura la propria “sovranità strategica digitale”, ma che in realtà sembra orientata piuttosto a rinchiudersi deliberatamente nell’ arretratezza.
1.Si ripetono i misfatti del 1960-61?
La situazione di oggi riporta all’attualità la triste vicenda che portò alla disintegrazione dell’impero Olivetti, e, in particolare, il sogno di Adriano Olivetti di realizzare, intorno a Ivrea, un’impresa digitale di respiro mondiale, culminata nel progetto del calcolatore P101.
L’anno scorso ricorreva il 60° anniversario della morte di Adriano Olivetti, e quest’anno quellom della morte, di poco successiva, del suo direttore Mario Tchou, il “padre” dell’ELEA 9003 e della P 101, deceduto in un misterioso incidente sulla Torino-Milano il 9 novembre 1961 (data che si riserviamo di commemorare adeguatamente).Secondo il circostanziatissimo libro di Meryle Secrest, una giornalista americana intima degli Olivetti, uscito non casualmente in America nel 2019 e in Italia l’anno scorso, vi fu un preciso complotto, ch’essa chiama “tempesta perfetta” per impedire che la Olivetti, forte dell’acquisizione della Underwood e del prestigioso progetto P101, divenisse la prima vera multinazionale dell’informatica, con ramificazioni in USA, in Russia e perfino in Cina, e con un background culturale, politico e sociale che anticipava di cinquant’anni la Silicon Valley, realizzando così un mutamento geopolitico di primaria importanza (Il caso Olivetti, Rizzoli, 2020.
Per impedire quel progetto, furono mobilitati politici, imprenditori, banche (a cominciare dalla Banca d’ Italia),governi e servizi segreti, con l’obiettivo primario di chiudere la divisione informatica, che, secondo Valletta, costituiva “un neo da estirpare”, come lo stesso Paolo Fresco, che aveva acquisito la divisione per conto di General Electric, ha confermato nelle sue memorie.
La pretesa dei poteri forti che il Piemonte si concentrasse nella produzione di automobili di bassa gamma poteva ancora avere un senso allora, quando l’industria autoveicolistica torinese impiegava 300.000 persone e il mercato italiano assorbiva milioni di vetture, ma non ne ha certo più ora, quando Torino non è che uno stabilimento periferico di Stellantis e tutte le sue attività decisive sono localizzate altrove, mentre invece tutto il mondo corre verso il digitale
2.Torino è stata svuotata per l’assenza della politica
Di fronte all’ evidenza del fatto che Torino ha bisogno di una nuova attività trainante, quel che resta delle attività passate si coalizza per fare barriera contro il nuovo. Procedendo così, andiamo verso un ulteriore svuotamento della città: dopo la capitale, il cinema, la moda, l’editoria, i cuscinetti a sfere, le macchine da scrivere, la formazione, l’autoveicolistico, che cosa ci possono ancora portare via? Più la città si svuota, più vengono meno le forze sociali che la difendevano: la Corte, l’ aristocrazia, l’esercito, gl’imprenditori, gl’ intellettuali, gli operai, i manager…
La stampa aveva informato la cittadinanza che sarebbe stato costituito un comitato promotore, coordinato da Don Luca Peyron. Qualcosa si sta muovendo?
Con quale coraggio i politici dei vari partiti del territorio si presenteranno alle prossime elezioni amministrative se avranno lasciato cadere la migliore occasione che si è presentata inaspettatamente alla città grazie agli sforzi dell’Arcidiocesi di Torino?
I giochi non sono ancora fatti. Perciò, invitiamo tutti a rimboccarsi le maniche, venendo allo scoperto con concrete proposte al Governo.
Per ciò che la riguarda,l’Associazione Culturale Diàlexis ha fatto tutto quanto possibile, partecipando alle consultazioni del Ministero dello Sviluppo Economico, coinvolgendo le Istituzioni Europee, pubblicando il libro bianco “L’Istituto Italiano dell’ Intelligenza Artificiale”(ora disponibile anche in forma cartacea), inserendo il tema nella piattaforma della Conferenza per il Futuro dell’ Europa, organizzando ben 4 eventi, e lanciando una petizione indirizzata al Presidente Draghi e al Ministro Giorgetti, ed è ancora a disposizione per procedere oltre in queste attività.
Tuttavia, occorre accelerare, perché tutto il mondo si sta muovendo.
Sarebbe ora che l’Unione assumesse un atteggiamento più assertivo sulle tecnologie
Pubblichiamo qui di seguito in quattro blocchi i commenti presentati dall’ Associazione Culturale Diàlexis nell’ ambito della Consultazione del MISE sulla Strategia Nazionale dell’ Intelligenza Artificiale, inviati anche ai Ministri Patuanelli e Manfredi e al Presidente del Parlamento Europeo Sassoli.
Nella prima puntata, la parte generale, nella seconda (inn Inglese, su “Technologies for Europe”, il testo e il commento al parere dell’ EPDRS sull’Accordo Interistituzionale fra le Istituzioni dell’ Unione Europea e Microsoft, nella terza il testo e il commento dell’ accordo fra Poste Italiane e Microsoft, e nella quarta la Parte Speciale.
INTRODUZIONE
Prendendo atto del fatto che il Ministero ha giustamente esposto alla discussione, tanto la vera e propria Strategia, quanto le precedenti proposte del Gruppo di Esperti, abbiamo ritenuto di “sdoppiare” le nostre osservazioni, in una prima parte, che funge da premessa e quadro d’insieme per i singoli commenti, e una seconda, dedicata al vero e proprio commento alla Strategia Nazionale.
Osserviamo preliminarmente che la strategia del Ministero è molto più selettiva di quella del Gruppo di Esperti, e, come tale, corre il rischio di essere inutile, perché ignora i temi più controversi, e in particolare la battaglia in corso, da parte delle Istituzioni (Commissione, Corte di Giustizia, EDPS, Antitrust italiano) , di imprese (Qwant) e cittadini europei (Schrems) contro il monopolio delle multinazionali del web, che sono giunte a controllare le forniture di servizi alle Istituzioni Europee e alle amministrazioni pubbliche nazionali, e gli sforzi in corso per creare, con Gaia-X, JEDI e Qwant, un ecosistema digitale europeo capace di dare all’ Europa l’autonomia strategica invocata, per esempio, da Macron, Altmaier e Breton. Proponiamo invece che l’autonomia digitale italiana ed europea sia inserita a pieno titolo fra gli obiettivi della strategia italiana.
Il profeta inascoltato delle tecnologie europee: Jean-Jacques Servan-Schreiber
PARTE GENERALE :COMMENTO ALLE PROPOSTE DEGLI ESPERTI
CONTRO L’ARRETRATEZZA DELL’ ITALIA E DELL’ EUROPA
DOPO IL COVID
DIGITAL HUMANITIES EUROPEE
UNA PEDAGOGIA PER IL XXI SECOLO
UNO SFORZO COORDINATO
TUTELA DEL PATRIMONIO INTELLETTUALE
HORIZON SCANNING
DIGITAL UPSKILLING
L’ITALIA NEI CAMPIONI EUROPEI
AREE DI RICERCA E RICADUTE SUL TERRITORIO
DALL’ITALIA ALL’EUROPA
Il Ministro dello Sviluppo Economico Patuanelli
I.CONTRO L’ ARRETRATEZZA DELL’ ITALIA E DELL’ EUROPA
La crisi del Covid-19, che non accenna a cessare, sta dimostrando, se ancora ce ne fosse bisogno, la mancanza di resilienza dell’Europa attuale, se confrontata, per esempio, con le società dell’Estremo Oriente (le “polveri bagnate dell’ Europa”).
Senza addentrarci in giudizi di valore, prendiamo intanto atto che questa mancata resilienza, che si è manifestata oramai ripetutamente – di fronte alla crisi energetica, a quella dei subprime, alle migrazioni, alla pandemia-, impone una drastica ristrutturazione delle nostre società, la quale non può prendere avvio se non dalla trasformazione digitale. Le autorità europee stanno incominciando a rendersene conto, come dimostrano i primi passi, per quanto per ora solo teorici, fatti, verso l’autonomia strategica digitale e verso la creazione di campioni digitali europei, nel Piano Coordinato dell’Unione Europea.
Un’ efficace strategia europea di transizione dalle “Macchine Intelligenti” (robot) alle “Macchine Spirituali” (AI), per usare le parole del Direttore tecnico di Google, Ray Kurzweil, non può più partire, dato il ritardo accumulato dal nostro Continente, se non da un approccio “top down”, quale quello da noi delineato nel libro “European Digital Agency” inviato a tutte le Autorità competenti), in sostituzione di quello “bottom up” adottato fino ad ora, il quale non ha sortito gli effetti promessi dalla Strategia di Lisbona, da “Europa 2000” e da “Horizon 2000”, e, anzi, ha visto l’ Europa retrocedere rispetto a tutte le aree del mondo.
Un approccio che potrebbe essere chiamato, citando Macron, “DARPA EUROPEO”, o, secondo le proposte degli Esperti del MISE, “un CERN ITALIANO”. Certo, non sono la stessa cosa: uno è un Ente militare, l’altro un centro di ricerca pura. In ogni caso, la Commissione, in persona dell’allora commissario Moedas, aveva già contestato a Macron l’idea del “DARPA EUROPEO”, precisando che Francia e Germania erano libere di perseguire questo approccio, ma per conto loro.
Purtroppo, com’ è stato scritto eloquentemente dagli Esperti, giacché i concorrenti da battere sono i GAFAM americani e i BAATX cinesi, che sono delle grandi imprese multinazionali, per giunta sostenute apertamente dai rispettivi Governi, “un investimento distribuito e non coordinato” (com’è oggi quello europeo, e ancor più quello italiano) “rischia di rimanere sotto la soglia critica “.Tutto l’impianto della politica tecnologica europea, anche in epoca di Recovery Fund (Next Generation), è basato invece su un investimento “distribuito e non coordinato” di Commissione, BEI, EIT, ESA, 27 Stati Membri, 27 Istituti Europei di Tecnologia, 27 Istituti Europe dell’Intelligenza Artificiale, qualche centinaio di “Technological Hubs” e di “Regulatory Sandboxes”, migliaia di debolissime imprese…Nel frattempo, non casualmente, come ha rilevato la stessa Commissaria Vestager, i GAFAM non si sono mai arricchiti tanto alle spalle degli Europei, incuranti delle azioni della Commissione, del Parlamento, della Corte di Giustizia e dei Governi.
Inoltre, i programmi “Digital Europe” e ”Digital Services”, che saranno presentati a giorni, continuano a considerare, quale compito dell’ Europa digitale (Istituzioni, “Hubs”, Stati Membri), quello d’incoraggiare l’utilizzo, da parte della PA (comprese le Istituzioni) e delle imprese, dei prodotti e servizi digitali, che però non ci si premura affatto di produrre in Europa (come sarebbe fattibilissimo), dando implicitamente per scontato ch’ essi siano prodotti dai GAFAM (e, forse dai BAATX), senz’alcun ruolo per l’ Europa, così ridotta a “colonia tecnologica”, il tutto con l’attiva cooperazione delle stesse Istituzioni Europee, che hanno acquistato dai GAFAM tutti i beni e servizi che servono per la loro attività (cfr. Allegato 2).
Alcune voci si sono levate, dai Governi e dalle stesse Istituzioni, per lamentare l’attuale eccessiva timidezza europea. In particolare, il Parlamento sta rifiutando ancor ora di accettare l’accordo con il Consiglio sul Quadro Pluriennale 2021-2027, tra l’altro, come da noi richiesto, anche per i “tagli” ai programmi tecnologici. Anche l’EDPS (Autorità europea garante dei dati) ha presentato un rapporto durissimo in cui lamenta che l’appalto a Microsoft di tutte le attività digitali delle Istituzioni equivalga all’inversione del rapporto fra il controllore (le Autorità europee) e i controllati (il fornitore, per giunta soggetto alla legislazione americana), concretando una violazione gravissima dei divieti del DGPR e di quanto stabilito nelle sentenze della Corte di Giustizia.
Isaac Asimov: aveva previsto che “l’etica dell’ intelligenza artificiale” non poteva funzionare
II.DOPO IL COVID
La Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale, che stiamo qui commentando, impostata prima del Covid, tiene conto solo parzialmente degli effetti, sulla società, della pandemia, ma è ancora inevitabilmente troppo arretrata rispetto, non soltanto ai trend della concorrenza americana e cinese, ma perfino rispetto ai timidi tentativi industriali europei in corso (Qwant, JEDI. e Gaia-X, di cui la Strategia non fa assolutamente menzione, come se l’Italia potesse fare qualcosa di serio in materia digitale prescindendo dalle battaglie comuni degli Europei- buone o cattive ch’esse siano-), e dando anch’essa per scontato che l’approvvigionamento di beni e servizi avvenga presso i GAFAM (in particolare Microsoft, trasformatosi, secondo l’ EDPS, da controllato a controllore delle Istituzioni europee). Invece, se l’Europa non si doterà, entro i prossimi 10 anni, di un ecosistema digitale autonomo, comprensivo di una propria cultura digitale, di campioni europei nei settori del “local storage”, delle piattaforme digitali, dei calcolatori e satelliti quantici, delle reti intercontinentali e della cybersecurity, subirà un’ inimmaginabile decadenza culturale, politica ed economica, la ”spirale del sottosviluppo” come l’ha chiamata Stefano Allievi.
Per questo motivo, pur apprezzando la professionalità e la completezza delle Proposte e della Strategia, e usando come punto di partenza molte delle loro considerazioni e suggerimenti, riteniamo che l’Istituto Italiano dell’ Intelligenza Artificiale dovrebbe andare al di là, tanto delle strategie europee, quanto di quella italiana, proponendosi come l’antesignano di un nuovo, energico, approccio continentale, a cui le stesse Proposte fanno più di un accenno.
Infatti, gli approcci attuali sono oramai insufficienti. La pretesa della Commissione, di fare, dell’Unione, il “Trendsetter del Dibattito Globale”, per quanto giustificatissima e condivisa, è stata oramai banalizzata dal proliferare in tutto il mondo, degl’ infiniti documenti sull’“etica dell’ Intelligenza Artificiale” (che sembrano redatti al ciclostile dai GAFAM), i quali oramai accomunano tutti -dalla Cina al Vaticano, dal Pentagono alla Commissione- e il fallimento delle strategie minimalistiche di contrasto ai GAFAM perseguite dalla Commissione (come l’azione contro Apple per aiuti di Stato e il Privacy Shield) è stato certificato dalla Corte di Giustizia, che implicitamente ha imposto l’adozione di nuove, più drastiche, misure. Lo stesso Department of Justice americano ha addirittura portato in tribunale Google, ingiungendole di cessare le sue pratiche monopolistiche, per non parlare, infine, del drammatico rapporto dell’ EDPS. Si noti che, subito dopo, si è mosso, buon ultimo, anche l’antitrust italiano.
Anche per l’Intelligenza Artificiale occorre fare un energico passo in avanti, abbandonando i concetti, vecchi di settantant’ anni, delle “Leggi della Robotica” di Asimov, ma anche il nuovo concetto di “affidabilità”, proposto dalle varie “strategie” disponibili sul mercato, per mettere in evidenza invece, da un lato, le capacità di controllo e di autocontrollo dell’umano (“Empowerment” ed “Enhancement”), e, dall’ altra, l’urgenza di tradurre i programmi e le norme europee (e, in primo luogo, il DGPR), in concrete realizzazioni legislative e tecniche, come il Cloud europeo, su cui si incomincia appena ora a lavorare con Gaia-X, ma di cui manca ancora una solida base culturale, tecnologica, politica, finanziaria, di sicurezza, giuridica, commerciale, che garantisca l’integrazione nella strategia di sicurezza, l’effettiva autonomia, la coerenza con le varie normative, l’effettivo utilizzo, la non ingerenza da parte delle multinazionali del web. Un compito a cui l’Istituto è chiamato a collaborare.
E’da quattro secoli che si disputa sugli automi, senza alcuna conclusione.
III.DIGITAL HUMANITIES EUROPEE
Come ha scritto Julian Nida-Rümelin, la transizione digitale dovrebbe costituire un’occasione per creare un umanesimo digitale. Direi di più: senza un umanesimo digitale, è inevitabile che, come pronosticato da ormai un secolo da moltissimi autori (Čapek, Asimov, Teilhard de Chardin, Kurzweil, von Neumann, Vinge, McLuhan, de Landa, Joy, Fukuyama, Hawking, Rees, Musk, Bell, Wang Pei…), le macchine prendano il sopravvento sugli uomini, anche e soprattutto grazie all’ intelligenza artificiale, come del resto sta già avvenendo nei sistemi di difesa nucleari, nelle borse, nei social networks (cfr. casi “Miortvaja Rukà” e “Google Analytica”). D’altra parte, l’idea di un “Intelletto Attivo” sovrastante l’Umanità costituisce una tentazione millenaria di tutte le civiltà (dallo Spirito Assoluto di Hegel, al General Intellect di Marx, alla Noosfera di Teilhard de Chardin).
Molti intellettuali, religiosi ed esperti, si sono preoccupati della questione. Tuttavia, i tagli alla cultura, gli errori di programmazione, l’abbandono delle periferie, le chiusure localistiche, la disoccupazione intellettuale, la decadenza degli studi, le incertezze fra discipline umanistiche e tecnico-scientifiche, e ora il Covid, tutto ha contribuito alla crisi dell’intera cultura pedagogica del XXI secolo, rendendo gli uomini deboli nel confronto con le macchine.
Sembra assodato che in ogni caso il costituendo Istituto, fortemente voluto dall’Arcidiocesi di Torino, dedicherà una parte delle sue ricerche all’etica dell’Intelligenza Artificiale, sulla falsariga dell’”Appello di Roma” sponsorizzato dal Vaticano. In effetti, c’è ancora moltissimo da fare in questa direzione, giacché l’idea di poter infondere un’etica (ma quale?) nelle macchine, senza aver fatto lo stesso prima nell’uomo, è una semplice illusione, perché le “macchine intelligenti” non fanno altro che cristallizzare e perennizzare i pregiudizi (i “bias”) dei loro creatori (come il sistema elettronico russo “Miortvaja Rukà”, che garantisce comunque alla potenza nucleare sconfitta la Mutua Distruzione Assicurata dell’avversario anche dopo lo sterminio dei suoi alti comandi, rendendo così irreversibile la decisione della leadership politica pro tempore).
L’idea delle “Leggi della Robotica” poteva essere semmai giustificabile quando i robot non c’erano ancora, eppure Asimov aveva dimostrato già 70 anni fa ch’ esse non possono funzionare. Per avere un “ecosistema digitale” virtuoso occorre invece che la società sia virtuosa. Nello specifico: se si vuole evitare che le macchine comandino agli uomini, occorre che gli uomini stessi siano capaci di comandare: che siano spiriti forti, liberi, aperti, come tentavano di farli le educazioni “classiche” di tutte le antiche civiltà, cosa che ha permesso di fermare, seppure in estremi, gli errori degli automi, come nel mito del Golem e nella vicenda del 1983 del Tenente-Colonnello Petrov.
Se l’ Europa vuole veramente qualificarsi come “Trendsetter del Dibattito Globale”, deve risolvere in primo luogo questa questione, rispondendo così alle ineludibili preoccupazioni di scienziati di primo piano, come Hawking e Rees.
La sopravvivenza del mondo è già ora nelle mani di complessi ecosistemi digitali
IV.UNA PEDAGOGIA DEL XXI SECOLO
Primo compito dell’Istituto dovrebbe dunque essere quello d’investigare su una nuova educazione del XXI secolo, adatta alla ”Società delle Macchine Spirituali”. Ciò comporterebbe una rivisitazione di vari aspetti della società delle scienze, “umane” ed “esatte”: la pedagogia (i curricula del Processo di Bologna); il “Lifelong learning” (non “re-skilling”, ma “up-skilling”); la neurobiologia e la bioingegneria (l’”Enhancement”); l’interfaccia uomo-macchina (l’”Empowerment”).
Il convivere con le macchine spirituali richiede comunque anche una massa molto più ampia di conoscenze, che l’Intelligenza Artificiale, se ben utilizzata e organizzata, può dare, attraverso una nuova forma di enciclopedismo (che comunque va organizzato, politicamente, giuridicamente, imprenditorialmente e tecnicamente): empowerment, ICT law, data economy, e.publishing. In generale, disciplinare l’Intelligenza Artificiale richiede ovviamente un enorme lavoro legislativo e di programmazione, come per esempio trasformare il GDPR in algoritmi che attuino in concreto i principi legislativi: conferire l’accesso solo agli aventi diritto, conciliando queste regole con il flusso internazionale dei dati, il controllo pubblico sulle reti, la proprietà intellettuale, il diritto militare e fiscale, l’antitrust, la procedura penale, la legislazione d’emergenza….
Sempre secondo le Proposte degli Esperti (che noi condividiamo energicamente), c’è bisogno di un’Accademia Digitale, da dedicarsi all’insegnamento al massimo livello delle discipline legate al digitale (etica digitale informatica, cibernetica, robotica, bioingegneria, economia e diritto digitali, automazione, cyber-sicurezza, cyber-intelligence, cyber-guerra, digital art, ecc..). L’area piemontese si distingue per le sue variegate competenze, che comprendono, oltre che il Politecnico e l’Università, anche il Centro di Formazione dell’ Ufficio Internazionale del Lavoro (ILO), il Centro Europeo per la formazione in Est Europa, la Scuola Universitaria Interdipartimentale in Scienze Strategiche (SUISS) e la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Sezione Parallela di Torino. A Ivrea si sta tentando, con l’iniziativa ICO Valley – Human Digital Hub, di fare rivivere, negli spazi che furono di Adriano Olivetti, lo spirito della sua epoca, con la creazione di un’Accademia che potrebbe molto opportunamente venire integrata in un unico “Distretto dell’ AI”, insieme a Torino. l’ACCADEMIA DIGITALE focalizzata sull’alta formazione nel digitale e più in generale nell’economia immateriale, coordinata da Torino Wireless, in stretta collaborazione con il Politecnico e con l’Università degli Studi di Torino, Ires Piemonte e Talent Garden, dall’altro un INCUBATORE/ACCELERATORE DI STARTUP per supportarne lo sviluppo attraverso specifici programmi di crescita, servizi professionali dedicati e opportunità di finanziamento di CDP e altri investitori.
Occorrerà per altro un controllo molto attento delle materie d’insegnamento, perché la nuova Accademia non divenga la brutta copia di Istituzioni già esistenti, bensì riempia i moltissimi spazi lasciati vuoti dall’inazione di Istituzioni e imprese, e svolga anche un ruolo critico nei confronti delle molte carenze del mondo digitale europeo.
Torino, al centro della cultura per il lavoro
V.UNO SFORZO COORDINATO
Le tradizionali politiche europee nel settore tecnologico sono fondate:
-sull’ idea che la UE sia, non già una federazione, come volevano Coudenhove-Kalergi e Spinelli, bensì un’”organizzazione sovranazionale”, che ha come elementi di base gli “Stati Nazionali” attualmente esistenti, e che quindi si sente obbligata a dividere per 27 tutte le nuove iniziative, anche quelle che avrebbero un senso solo a livello continentale;
-sulla delega agli Stati Uniti delle “attività strategiche” (intese in un senso esageratamente largo, comprendente, in sostanza, anche le nuove tecnologie, come si vede nel recentissimo caso dell’outsourcing verso Microsoft delle Istituzioni UE e di Poste Italiane);
-su un’interpretazione restrittiva del “principio di sussidiarietà”, secondo cui occorrerebbe lasciare al livello più basso di governo tutto ciò che possa essere fatto a quel livello, non già solo ciò che possa essere fatto meglio a quel livello (sicchè nessuno svolge poi in realtà le attività più “nobili” ed impegnative, perché singoli Stati membri non sono all’altezza, ma non vogliono nemmeno che le svolga l’Unione). Quindi, le si delegano alle multinazionali del web;
-su un’interpretazione limitativa dell’economia sociale di mercato, secondo cui la “socialità” si riferirebbe soprattutto alla redistribuzione, e pochissimo al coordinamento e alla promozione delle attività economiche (l’“advocacy”).
Si susseguono quindi le proposte di creare nuovi organi centralizzati (Invitalia, Fondo per l’Innovazione, Cabina di Regia per l’AI.., Alto Commissario per il Recovery Fund). A ciò si aggiunga che già esiste a Genova un Istituto Italiano di Tecnologia, e sono stati appena confermati dal Governo, con un’azione anticipata assai discutibile, gli hub tecnologici europei creati sotto Horizon 2020. Tutte quelle proposte non vanno certo nel senso della semplificazione e della centralizzazione, bensì in quello della moltiplicazione degli Enti, delle sedi e delle poltrone. L’Associazione Culturale Diàlexis aveva scritto una serie di lettere (allegate) a tutte le Istituzioni e ai Governi, chiedendo di non rinnovare sic et simpliciter le strutture esistenti, semplicemente rifinanziandole per i prossimi 7 anni, perché, data la situazione, sarebbe stato richiesto, per questo periodo, un molto maggiore sforzo aggiuntivo. Purtroppo, i progetti della Commissione (per altro non approvati, né dal Consiglio, né dal Parlamento), sono molto simili a Horizon 2020 (e non tengono conto delle promesse di trasformazione radicale espresse in occasione del Covid).
Prendiamo atto del fatto che il Quadro Pluriennale è ancora fermo, come da noi richiesto, tra l’altro proprio per la sua insufficienza in campo tecnologico. Quindi, le attuali strutture non sono ancora state legalmente confermate, e, almeno in teoria, potrebbero ancora essere modificate. A regime, l’intero sistema europeo dovrebbe comunque essere drasticamente semplificato, come spiegato nel nostro libro, centralizzando in un’unica Agenzia Tecnologica Europea (DARPA EUROPEA, CERN delle tecnologie), quello che fanno oggi EIT, ESA, Agenzia Europea degli Armamenti, hubs tecnologici….
In attesa che quest’ esigenza venga metabolizzata, l’Italia non può fare a meno di formalizzare una propria strategia, come hanno già fatto altri Stati europei. Tuttavia, com’è espresso chiaramente nelle proposte che stiamo commentando, l’idea è che, attraverso la Strategia e l’Istituto, l’Italia possa assumere un ruolo di leadership nell’Intelligenza Artificiale, possa caldeggiare la creazione di un Istituto Europeo per l’Intelligenza Artificiale (che a quel punto non potrebbe non essere strutturato insieme all’ EIT), e candidarsi a ospitarlo.
Tutto ciò presuppone un’intensa capacità propositiva, anche per ciò che riguarda le strategie e le politiche: altro tema che potrebbe rientrare fra gli obiettivi del nuovo Istituto: la costruzione (eventualmente con l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale), di scenari per il futuro dell’ industria digitale italiana ed europea.
Ciò presupporrebbe però che si facesse ordine innanzitutto in Italia, in particolare creando un piano dettagliato, che, come in questa nota, parta da alcune questioni di principio, per poi articolarsi, da un lato, in temi di ricerca, e, dall’ altro, in azioni di governo per sostenere i filoni strategici. Tutto ciò anche nell’ ottica di spendere al meglio le risorse del Recovery Fund.
Nel 2021, per le tecnologie europee non ci resta che lo “stato di emergenza”
VI.TUTELA DEL PATRIMONIO INTELLETTUALE
Una delle principali carenze del settore digitale europeo è che il suo patrimonio intellettuale non è, di fatto, tutelato. Questo spiega perché le imprese europee siano poco propense a investire in ricerca e sviluppo.
Certo, con il tempo, si è estesa di molto la protezione intellettuale del software e del know-how in generale. Tuttavia, un’enorme quota del patrimonio intellettuale dell’industria informatica è costituito da un know-how informale, come pure da sperimentazioni non brevettate. Orbene, come è noto, questo tipo di patrimonio in Europa non è praticamente tutelato. Innanzitutto, come messo in evidenza dalle due cause Schrems, l’intera massa dei dati degli Europei (delle Istituzioni europee e di molte amministrazioni nazionali), siano essi cittadini o imprese, è immagazzinata nei server dei GAFAM, i quali, ai sensi del Patriot Act e del CLOUD Act, sono tenuti a metterli a disposizione delle 16 agenzie americane d’intelligence, le quali a loro volta, come illustrato per esempio da “L’Express”, non hanno alcuna difficoltà a renderli disponibili alle imprese americane. In secondo luogo, gli stessi Americani accusano un po’ tutto il mondo di carpire, attraverso l’hackeraggio, i segreti industriali di tutte le imprese occidentali. Quindi, i dati degli Europei vengono piratati almeno due volte.
Basti pensare a un tipico caso di sviluppo di prodotto italiano: il calcolatore “Programma 101” dell’Olivetti, che sarebbe stato teoricamente già ceduto alla General Electric per le pressioni del mondo politico e finanziario italiano, e che fu invece terminato “clandestinamente” dai tecnici dell’Olivetti, e venduto, soprattutto negli Stati Uniti, in 44.000 esemplari, che furono subito copiati e cannibalizzati dai concorrenti. Nessuno si curò neppure di proseguire la produzione di quel prodotto, già sviluppato a spese dell’impresa e con un così straordinario successo commerciale, né di difendere una proprietà intellettuale strategica per l’Italia e per l’Europa.
Un altro esempio drammatico è costituito dal recente accordo interistituzionale fra Commissione, Consiglio e Parlamento, in forza del quale tutte le attività di software dell’Unione Europea, compreso il trattamento dei dati, sono state appaltate a Microsoft. Lo stesso dicasi per molte pubbliche amministrazioni europee, in primis Poste Italiane (all.2). E’ ovvio che, in questo modo, tutto il know-how europeo viene messo a disposizione dei GAFAM, e questi non solo non pagano, ma vengono addirittura profumatamente retribuiti dagli Europei.
Occorrerebbe controllare che, almeno per l’Istituto Italiano dell’Intelligenza Artificiale, non avvenga lo stesso.
La bozza di “Digital Europe” che verrà presentata a giorni dedica una certa attenzione a questo problema.
“-garantire un’ampia implementazione delle soluzioni di cibersicurezza più recenti in tutti i settori economici;
-rafforzare le capacità negli Stati membri e nel settore privato per aiutarli a ottemperare alla direttiva UE recante misure per un livello comune elevato di sicurezza delle reti e dei sistemi informativi nell’Unione”.
Occorrerà vedere come si passerà dalle parole ai fatti. Uno dei compiti fondamentali dell’Istituto sarebbe, a nostro avviso, proprio quello di studiare come questi fenomeni possano e debbano cessare, attraverso un’adeguata politica legislativa, finanziaria, di “advocacy” e di supporto alle imprese nazionali ed europee innovative.
Ovviamente, tutto ciò presuppone anche un enorme lavoro tecnico nel settore della cyber-security, anche perché, qui come su altri punti, “Digital Europe” parte dall’ idea che dobbiamo “acquisire” i sistemi di sicurezza, non produrli. E perché mai? E’ difficile che chi produce i nostri sistemi di sicurezza non si riservi anche la chiave per poter accedere abusivamente ai nostri dati. Ed è comunque certo che non potrà rispettare il DGPR, perché le autorità del Paese sede della società gl’imporranno sicuramente di rendere i dati disponibili al Governo stesso. L’Europa, se non l’Italia, dev’essere assolutamente autonoma in questo campo, e l’Istituto dovrà gettare le basi teoriche perché l’industria europea possa generare e gestire essa stessa siffatti sistemi.
L’Istituto Italiano dell’ Intelligenza Artificiale, insieme all’ Istituto Tecnologico Italiano, deve innanzitutto “predire il futuro”
VII. HORIZON SCANNING
L’Intelligenza Artificiale, essendo il principale elemento di vantaggio competitivo nel commercio internazionale, ma anche in geopolitica, fa oggetto di una lotta accanita fra USA, Cina, Russia, Israele, India, Iran.
Il Governo Italiano, nelle sue iniziative presso l’Unione Europea, la NATO, le Nazioni Unite e la Cina, ha bisogno, per tutelare al massimo i propri interessi e valori, di difendere il know-how italiano, migliorare le performances dell’ Unione Europea e conseguire vantaggiosi accordi tecnologici e militari, di un sostanzioso e competente supporto tecnico, economico e giuridico, che l’ Istituto dovrebbe essere in grado di dare.
Ci riferiamo in particolare agli argomenti seguenti:
-strategia europea per l’intelligenza artificiale;
-strategie di trasformazione digitale della scuola, dell’amministrazione, delle forze armate, della sanità, dell’industria;
-legislazione in materia d’ intelligenza artificiale;
-precisazione dell’inserimento dell’Intelligenza Artificiale nei curricula scolastici e del lifelong learning.
Nello stesso modo, le imprese innovative debbono essere guidate nell’ individuazione dei filoni più promettenti, attraverso uno studio attento dell’evoluzione del mercato mondiale, che dev’essere accessibile alle imprese nazionali ed europee.
Entro 10 anni, tutta la nostra società dev’essere digitalizzata e riqualificata
VIII.DIGITAL UPSKILLING
Le previsioni circa il possibile impatto sul lavoro dell’ intelligenza artificiale rischiano di essere errate per difetto.
In effetti, l’intelligenza artificiale permette di automatizzare quasi tutte le attività umane:
-quelle politiche (voto elettronico, big data, social networks);
-quelle culturali (visite a distanza, webinar, e.publishing);
-quelle militari (cyber-intelligence, cyber-guerra);
-quelle digitali (didattica a distanza);
-quelle economiche (dematerializzazione della borsa, e.commerce)
La pandemia ha dimostrato che, in certi casi, questa trasformazione può addirittura essere necessaria. Una volta superate le difficoltà tecniche (cosa relativamente alla quale l’intelligenza artificiale darà certamente un suo contributo), si rivelerà ch’ esse saranno anche più economiche di quelle fisiche, e, quindi, saranno competitive. Il risparmio si farà non tanto, o non soltanto, sul lavoro umano, ma anche e soprattutto sull’ enorme fabbisogno di infrastrutture, immobili, trasporti, che oggi è reso necessario dagli spostamenti di miliardi di persone sui territori.
Tutti si pongono il problema di chi lucrerà su questi vantaggi, ma il tema è mal posto, perché, sul medio-lungo, si ha comunque sempre un trasferimento di ricchezza fra ceti e persone. Il legislatore ha incominciato a individuare forme di trasferimento adeguate all’ attuale transizione, come la tassazione del web, il supporto alle start-up, il reddito di cittadinanza. Certo, dovranno essere studiati, sviluppati ed attuati, sistemi estremamente più sofisticati.
Quanto al ruolo dell’uomo nel mondo delle “macchine spirituali”, questo è un buon tema di riflessione per un istituto di ricerca. A nostro avviso, il ruolo dell’umanità si sposterà dalle operazioni fisiche (zappare, avvitare), a quelle intellettuali (progettare, amministrare); da quelle ripetitive (operazioni bancarie, vendite telefoniche); a quelle creative (soluzione di problemi, organizzazione di reti); da quelle burocratiche a quelle imprenditoriali (dall’amministrazione al controllo); da quelle esecutive a quelle deliberative (dai funzionari dello Stato agli organi politici), ecc…In tutto questo processo, non mancheranno per le persone(se questi saranno adeguatamente preparate), un gran numero di ruoli da svolgere, di momenti di decisione e controllo, di possibilità di acquisire reddito e proprietà.
Per esempio:
-politici eletti (che dovranno guidare la transizione);
-consulenti della politica (esperti di big data, di data mining..);
-intellettuali (self publishers, bloggers);
-insegnanti (dal vivo e a distanza);
-artisti (cyber-art);
-divulgatori (social networks);
-amministratori locali (il Comune digitalizzato);
-imprenditori dell’informatica (i proprietari delle piattaforme);
-professionisti digitalizzati (l’ospedale informatico, lo studio legale informatico);
-i fornitori digitali (i titolari delle fabbriche 5.0 e oltre);
Questa configurazione della società futura richiede la sincronizzazione della trasformazione digitale della società e della formazione digitale della popolazione, in modo da ottimizzare il “time to market” (che ogni salto tecnologico corrisponda ad un’effettiva esigenza sociale, e che ogni trasformazione sia accompagnata dalla formazione richiesta, oltre che da un’evoluzione del diritto, che offra adeguate tutele ad ogni ruolo sociale).
L’intelligenza artificiale, con i big data, la modellizzazione e la ricerca operativa, dovrà permettere di conseguire questo complesso risultato.
Resteranno certamente fuori un certo numero di attività che, per il loro alto valore simbolico, non potranno, o non dovranno, essere automatizzate (per esempio le messe, i matrimoni, i funerali, gl’incontri sportivi, le feste, le visite in luoghi naturali o della memoria, le cerimonie militari…).
Queste occasioni, proprio perché più rare, diverranno più importanti, e sarà compito degl’intellettuali valorizzarle, attraverso la sottolineatura dell’elemento cerimoniale, la memoria culturale e la cura dell’identità (sulla falsariga di Confucio, di Foscolo, dei coniugi Assmann..).
Con “Programma 101”, l’Italia era al vertice dell’industria digitale: poi, più nulla.
IX. L’ITALIA NEI CAMPIONI EUROPEI
Contro la creazione dei cosiddetti “Campioni Europei” si sono sempre cumulate difficoltà di ogni genere: geopolitiche, ideologiche, nazionalistiche, di marketing, di management. In ultima analisi, dopo 70 anni, gli unici tre “campioni europei” esistenti sono quelli dell’aerospaziale civile: Arianespace, Airbus e Galileo.
Attualmente, i Francesi e i Tedeschi stanno proponendo agli altri Europei di entrare in tre aspiranti “campioni”:JEDI, nel campo del finanziamento alle imprese tecnologiche, Qwant, nel campo dei motori di ricerca, e, soprattutto, Gaia-X. Tuttavia, le modalità di questo ingresso sono tutt’altro che chiare, anche e soprattutto perché altri Paesi europei, come l’Italia, mancano di soggetti importanti fornitori di tecnologia, e possono partecipare per lo più soltanto come acquirenti. Il che è meglio di niente, ma spesso non è abbastanza attraente per questi stessi soggetti, che continuano a lavorare con i GAFAM.
S’impone preliminarmente un’attività di “horizon scanning”, per comprendere le ragioni di questa situazione e per individuare via di uscita.
Dopo di che, l’Italia dovrebbe creare veicoli pubblici-privati per veicolare una partecipazione italiana attiva nei campioni europei.
Dopo essere stato completato di nascosto ed esposto a New York quasi di nascosto, il P101 fu venduto in 44.000 esemplari, e poi dismesso
X.AREE DI RICERCA E RICADUTE SUL TERRITORIO
Nonostante l’affollamento di iniziative ed Enti, esistono ancora molte aree dell’intelligenza artificiale dove si possono compiere progressi importanti, il cui utilizzo potrebbe risultare particolarmente utile per l’Italia e per l’Europa, in quanto afferenti ad attività in cui esistono tradizionali o potenziali vocazioni, e che non sono ancora presidiate da concorrenti internazionali:
repertoriazione, divulgazione e disseminazione culturale;
traduzione automatica;
promozione dei territori;
fintech (valute artificiali);
manifattura automatizzata e parzialmente automatizzata (prodotti ad alto valore qualitativo);
ospedale automatizzato;
ufficio automatizzato;
ricerca giuridica e progettazione giuridica;
comparazione giuridica;
scrittura di documentazione giuridica;
simulazioni economiche e politiche;
arte automatizzata;
e.publishing.
Si ha tuttavia l’impressione che, in Europa, l’approfondimento dell’impatto della ricerca sui territori sia molto limitato, perché l’impostazione del ruolo politico delle attività di ricerca è stato minimalistico, e si mira semplicemente a dare qualche vantaggio alle attività esistenti, senza l’ambizione di crearne di nuove.
Si sono confuse arbitrariamente la ricerca pura, che dovrebbe avere uno scopo culturale ed essere tendenzialmente aperta a tutti, e la R&D, che spesso altro non è che il mascheramento di attività di progettazione, o addirittura solo di calcolo o disegnazione, ma che per fini vari (finanziamenti, statistiche) si vogliono “nobilitare”. In realtà, la vera ricerca si situa a metà strada fra questi due estremi, e ha un reale valore economico, perché permette alle imprese un salto qualitativo (è “disruptive”). Tuttavia, perché da questa parte della ricerca si arrivi ad un reale impatto positivo per i territori, ci vogliono ancora parecchi passaggi.
Intanto, occorre che, pur trattandosi di ricerca finanziata, sia ammissibile vincolarne la fruizione all’ utilizzo economico nel territorio. Questi vincoli sono stati visti fino a recentemente con sfavore, in quanto in Europa, sul “nazionalismo economico”, ha prevalso un generico liberismo, spesso accoppiato al “sublime tecnologico”, grazie a cui, ai GAFAM, veniva attribuito addirittura un valore salvifico. Ancor oggi la creazione in Italia o in Europa di un magazzino di Amazon, di un ufficio amministrativo di Facebook o di un server di Google veniva “venduto” come un grande avanzamento per un territorio, che alla fine si vedeva accrescere la forza lavoro di qualche decina di magazzinieri, contabili o periti informatici, mentre invece escono dal territorio (per giunta con l’etichetta nobilitante di “europei”) miliardi e miliardi dei dati dei cittadini, molti cervelli che vanno a ricoprire ruoli ancillari altrove, e soprattutto fiumi di profitti non tassati.
Anche nel caso dell’Istituto per l’Intelligenza Artificiale, viene “venduto” come un grande vantaggio il fatto di occupare 600 ricercatori. Tuttavia, se si pensa che sono previsti 7 ulteriori hub sparsi nel territorio, si capisce che gl’ideatori di Digital Europe, ma anche dell’Istituto, hanno in mente quel modello “disperso” che così pochi frutti ha dato fino ad ora, e che soprattutto rischia di non favorire il Piemonte in alcun modo sostanziale. In quest’ottica, l’Istituto sarebbe solo un gestore dei fondi europei, da spendersi in tutta Italia.
A nostro avviso, pur non essendovi obiezioni (in una situazione in cui il lavoro a distanza diviene la regola, soprattutto per gl’informatici) alla distribuzione degli hub sul territorio, è invece fondamentale che la ricerca non si disperda, bensì che le risorse dedicate a questi temi da Digital Europe, che sono veramente scarse, come sostiene lo stesso Parlamento Europeo), vengano spese razionalmente.
Ricordiamo che, negli Anni ’60, in Piemonte vi erano, non solo la holding FIAT, con i suoi azionisti, i suoi professionisti e dirigenti e i suoi più di dieci settori di attività (dall’auto i veicoli commerciali e industriali, dall’aviazione allo spazio, dai giornali alle banche, dalla finanza alla componentistica, dalla formazione alla chimica, dalla difesa all’ informatica,…), ma anche la RAI, il Banco di San Paolo, la Cassa di Risparmio di Torino, la SAI, la Toro Assicurazioni, la Lancia, la Olivetti, la RIV, la CIR, la CEAT e la SEAT, la Ferrero, la Zegna, la Burgo, la Microtecnica, l’Einaudi, la Bollati Boringhieri, la Loescher, la Paravia, la De Agostini…Oggi, si tratta di sostituire tutto questo con attività di alta tecnologia e culturali.
Una vera ricaduta positiva sul territorio si avrebbe solo se si approfittasse della presenza dell’Istituto per modificare l’atmosfera culturale, politica ed imprenditoriale del Piemonte, sottolineando le spinte verso produzioni vendibili internazionalmente o comunque utili per colmare le lacune dell’informatica europea, costituendo anche un elemento di rinnovamento dell’accademia, delle amministrazioni locali e delle imprese.
Soprattutto, andrebbe creato un intero ecosistema d’investitori, di leaders, d’inventori, d’imprenditori, di professionisti, di politici, d’intellettuali, di studiosi, di specialisti, di managers, di fornitori di servizi che ruotino intorno all’ intelligenza artificiale.
Dopo la crisi energetica, quella dei subprime, quella del Covid, le imprese italiane sono deserte
XI. DALL’ITALIA ALL’EUROPA
Nelle Proposte per una Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale, si accenna al fatto che l’Italia dovrebbe esercitare un ruolo attivo nella definizione della strategia europea, e che, ciò facendo, potrebbe legittimamente ambire a ospitare un Istituto Europeo dell’Intelligenza Artificiale. Per questo, vale la stessa considerazione che vale per un accordo mondiale sull’ Intelligenza Artificiale: che, cioè, l’Europa potrà essere qualificata al ruolo di “Trendsetter del Dibattito Internazionale” se, e nella misura in cui, saprà eccellere in questo campo. Lo stesso vale per l’Italia
A nostro avviso, data la debolezza dell’intero sistema europeo del settore, la strategia corretta sembrerebbe quella di specializzarsi in studi e ricerche che abbiano un valore di orientamento generale, come quelle relative all’ etica dell’intelligenza artificiale, all’”horizon scanning”, all’”upskilling sociale”, alle piattaforme, al fintech, in modo da potersi poi proporre in Europa con funzioni di “leadership”.
Inoltre, occorrerebbe, pur nell’ obiettiva necessità di andare sempre più verso l’automazione, valorizzare al massimo, a titolo compensativo, gli aspetti ambientali (ritorno al territorio), culturali (le tradizioni di editoria, Salone del Libro, cinema e televisione, collaborazioni transfrontaliere e con l’ Est Europa), formazione (ISVOR), progettualità politico-sociale (Olivetti, Fondazione Agnelli, Circolo dei Lettori, Biennale Tecnologia), che si possono e si debbono integrare perfettamente con l’intelligenza artificiale.
Infine, la vicinanza con Genova, con Ivrea, e, volendo, anche con Milano (Human Technopole e Tribunale Europeo dei Brevetti), Ginevra (CERN), Nizza (Sophia Antipolis), dovrebbe permettere di promuovere Torino quale centro di un’area particolarmente qualificata in questo senso.
La nostra Associazione si propone, come sempre, come luogo di riflessione, di divulgazione, di studio, di proposizione, di disseminazione, a Torino, in Italia e in Europa.
The Pearl River Megacity, with shown the Dong Guan Metropolis
The new Huawei campus in Dong Guang, in the middle of the new megacity of the Pearl River (as large as Germany), will host the headquarters of the Huawei Group. The campus consists of full scale perfect copies of 12 historical centers of European towns, chosen in a non trivial way, i.e., avoiding the most commercialised locations, such as the Pisa Tower or the San Marco Square, and, instead, in search for hidden pearls of European culture, from Verona to the Heidelberg castle, up to the Alhambra and al Generalife of Granada (moreover Paris, Burgundy, Fribourg, Český Krumlov, Budapest…)-places that even Europeans often ignore-. This “ideal town”, built according to the examples of Pienza, Sabbioneta, Palmanova and Zamość, constitutes in itself a well-conceived challenge to the present non-existence of a European ICT culture.
It represents also the most recent example of the spirit by which China, or at least a part of it, is facing the challenges of modernity, a spirit which is evidently traditional, or, more precisely, “axial” (from the idea of an “axial era”, to which Jaspers, Eisenstadt, Kojève and Assman have made reference). This spirit is made still more evident by the continuous quotations of Chinese and European antique, starting from the Clay Army and the Great Wall , not to speak of the Hanfu movement, and arriving at the clonation, everywhere, of European monuments, with a devotion that we do not have here in Europe.
Olivetti with Mario Chou: A Euro-Chinese alliance
1. Ren Zhengfei’s Offer
Also the offer of Ren Zhengfei, Huawei’s CEO, to sell (or, better, to licence) to a foreign competitor his technology, falls doubtless within that “perennialist” mood. According to Sun Tzu’s “Art of War”, the objective of a commander is “To conquer the Tian Xia without killing anybody”. Already here we can appreciate the differences with Google. In fact, in their book “The New Digital Era”, two board members of Google, Schmidt and Cohen, explained how they had worked out together, in a Baghdad destroyed by American bombs, the newest Google strategy, which would have been “to substitute Lockheed in leading America in the conquest of the world”.
It is said that also Ren would have incited his shareholders-staff members to move towards world conquest. However, he has not linked this program to a military or ideological agenda, but, as it seems, to a cultural vision.
In a certain sense, President Trump is right in thinking that the ongoing economic and technological by-pass, by China, of the United States, is due to the ability of Chinese people in copying the West. In fact, all civilisations which have progressed and won have massively “copied” their predecessors (Babylon, Assyria, Persia, Macedonia, Rome…).All extra-European countries (America, Russia, Turkey, Japan, India, after the colonial period, have massively copied Europe, starting from religion (Brahmo-Samaj, Bahai, Taiping), going further to ideology (nationalism, monarchy, liberalism, marxism, fascism), and economy (free market, socialism), for arriving at technology (ITC, high speed trains, ecology, space). If we want to qualify this as a “theft”, well, theft would be the equivalent for “history”.The USA are the most blatant case of a continuous “theft”, having “stolen” their land to Indians, their freedom from blacks, the North American territory from European settlers, their ideas from Britons and Hiberians, culture and technology from German and Jews…
The idea of a “New Europe” in China represents a response to the ideas of Hegel on the “End of History” with Europe and to the one of neo-Hegelians that America is the “real” end of History. If the Spirit of the World follows westwards the course of the sun, then, after America, it will enlighten again China (and Eurasia).
The Chous: a Chinese-Italian family
2.Trump’s Struggle to Curb China
In any case, that eternal will to emulate other peoples had never been pushed forward so insistently as in the case of the China of the last 30 years, arriving up to cloning the very hidden idea of modernity, the revolution of intelligent machines. But China is able to do more than what USA could ever have dreamed, because China includes in itself, under a sole leadership, a universe which is larger than the whole West, a universe including top technologies and primitive societies, a large cultivated bourgeoisie and a very numerous Lumpenproletariat, wide bureaucratic and managerial middle classes and a myriad of SME: that “unity in diversity” which everybody extols, but that cannot be achieved elsewhere, in countries of widespread homologation. On the contrary, China’s empire has been in a position to play on several economic tables, from war communism to the most extreme laissez-faire, from maoism to international finance, from free market to “military keynesism”. Still now, China is in a position to mobilise in a differentiated ways millions of migrant workers as well as officers, of entrepreneurs and of scientists, on all terrains and on the most different economic landscapes . In such way, it has been able to escape the bottlenecks of a “mono-thematical” development path, such as Soviet-type planning and/or Anglo-saxon neo-liberalism.
Trump, having abandoned (as it was overdue) the hypocrisy of the preceding Presidents, is acting rationally when he, as the defender of the United States, tries openly to put a brake to this unprecedented growth of China. However, he cannot escape the consequences of the limited scale of his country and the -albeit weak- “checks and balances” which still limit his freedom of movement -first of all, the existence of the European Union (which he considers as his worst enemy)-.It is not a case if he is making every effort for imitating China, starting from concentrating all powers in himself and from deleting the few veto powers remained to Europeans. It is also normal, in the logic of international power struggles, that Trump succeeds partially to curb the growth of China together with the welfare of the rest of the world, but it is very unlikely that his successes becomes decisive.
In fact, since 4000 years, East has been transferring technologies westwards (agriculture, writing, papyrus, purpure, strategies, silk, potteries, glass, compass, gunpowder, printing, paper money), and 500 that the West transfers technologies eastwards (metallurgy, steam and internal combustion engines, newspapers, cars, radio, movies, energy, television, space, ITC). It is a sort of “communicating vessels”. The contractual forms may vary ad infinitum, but, in substance, it is still not possible, as long as intelligent machines will not impose their own world empire, that, in the whole world, only one supplier exists for any essential object of demand. A similar situation would in any case generate a war aiming at the forceful appropriation of the new technologies. China has just now prevented a similar strike from the part of Google, Microsoft, Apple, Facebook and Amazon, from one side resisting the dissolving influences of its peripheries, and, from another, creating, as it has done, Chinese homologues of the “Big Five” (Baidoo, Alibaba, Tencent).
The first Internet, Minitel, was European
3.The End of the Silicon Valley Monopoly
After having created an alternative to the Silicon Valley, China is offering to the rest of the world an opportunity for real competition, creating two parallel ITC ecosystems, not limited to “either bloc’s” territory, but worldwide. Paradoxically, the existence of a competition at least worldwide is a traditional pretention of Western “free market” rhetoric and one of the bases of both US ad EU competition policy. In abidance with this principle, US and UE enforcers had not hesitated, in the XX century, to impose “orders to divest” to Standard Oil, SKF and General Electric. Well: since nobody in the world dares now to issue a (badly needed) “order to divest” against the Big Fives, enjoying an absolute power everywhere, Ren has issued against himself an “order to divest”, thus supplying an example which may have a disruptive impact worldwide. If Huawei has felt obliged to break-up its own monopoly, why should the Big Five not do the same?
In view of the foregoing, it is impossible to prevent Chinese technologies to flow into the rest of the world ,even if this constitutes an outrageous challenge to the hegelian and weberian dogma that the economic development of modernity is a direct and unescapable consequence of the puritan (American) revolution. This dogma, evoked a long time ago by Marx as a justification for slavery in the States and, by Rostow, as a basis for his “Development Theory”, represents the “hidden engine” of American power, in the same way as theology represented, according to Benjamin, the hidden engine of marxism. If this dogma would fall, not just the West, but also modernity, and even the United States, would fall apart.
Olivetti and Chou: prematurely disappeared
4.Huawei proposal
In the last few days, myriads of hypotheses have been worked out for explaining Ren’s proposals. Most of them are inspired by eternal anti-Chinese biases. First of all, the suspicion that the proposal is “a tactical trick”, or that it is the evidence that Huawei is desperate, for not being able to sell enough mobiles and other equipment in the West.
The truth is that the whole life of today’s technologies is based upon IPR transfer contracts: nobody has been able to exploit forever an invention under a monopoly; since ever there have been an “exhaustion of rights”, a “trickle-down effect”, licences and know how agreements. This contractual and commercial transfer of technologies has represented since ever a physiological form of international technical cooperation, albeit some “pathological” cases of forced transfer of technology have existed, like the capture and deportation of von Brown and of Antonov. China is trying precisely to avoid that things may follow again that course.
Moreover, the transformations under way in world economy are so fast, that the role of Chine, as the focal point of this economy, cannot but change without interruption, so that what was true yesterday is no more true today. If China had been transformed in the ‘90ies, by US multinationals, by the delocalisation of their productions, into the “manufacturer of the world”, China is new becoming (always in symbiosis with Western economic milieus), “the brain of the world”. In such situation, it is no more so important, for China, that telecom products are manufactured within the Huawei universe: what is strategic is to govern the international supply chain as a qualified partner for its players. In the same way as Google, Apple, Microsoft, Facebook, Amazon and Alibaba already do.
A licence of the G5 technology, as liberal as it may be, would not put an end to Huawei’s “intellectual leadership”, whose force derives precisely from continuous innovation. The Dong Guan campus will be used precisely for nurturing innovation worldwide. The fact of having been built “copying” the bulwarks of European culture (and not of the American, Russian, islamic or Indian), shows that the model, and the natural partner, for these developments is Europe. This for two reasons: one is historical, since DA QIN has represented since ever the mirror image pole of the Silk Roads, at which China has looked since the times of the Former Han; the other, geopolitical, because Europe is, today, the mirror-image of China, and therefore is complementary to it in culture, politics, technology and economy.
Olivetti: a piemontese entrepreneur with universal ambitions
5.Challenging the Cultural and Technological Backwardness of Europe
From the technological point of view, Europe appears, at the down of the Era of Intelligent Machines, as an underdeveloped country: “If it is true that Europe has, in extra-UE commerce, a positive balance of manufacturing export as a whole, it shows a deficit as to high technology productions. In 2015, the European deficit has been of 63,5 billion Euro, especially, but not only, towards China: also the United States, Korea, Japan, and even Vietnam and Thailand, have achieved a an export surplus in high tech products towards the European Union… “(Francesca and Luca Balestrieri, “Guerra Digitale”). As the cited authors are writing, “The discontinuity marking the beginning of the second phase of the digital revolution should offer theoretically to Europe the opportunity for a change of direction: in the new mix of converging technologies, the European excellence in sectors like robotics, automation and -in general- manufacturing 4.0, could foster the birth of new global champions, having their roots in Europe. The critical element consists in the ability to work out an effective European scale industrial policy.”
According to me, the absence of Europe from high tech is a consequence of a generally favourable geopolitical and intellectual environment (i.e. of motivated vanguard engineers, such as von Braun, Turing, Olivetti, Chou, or, in the US, Wiener, von Neumann, Esfandiari, Kurzweil…; of initiatives like Minitel or Programma 101; of an independent military decision-making center like DARPA, financing ITC as intrinsically “dual”; of intelligence networks apt to prevent the theft of technologies).Perhaps, also of secret agreements with the US.
Notwithstanding all that, if, in the XX century, European countries still could have hoped to maintain their “European lifestyle” while remaining simple “followers” of the US, they cannot nurture such hope after the digital revolution, dominated by the Silicon Valley, Dong Guan, Xiong’an, Bangaluru, Internet providers,digital intelligence, Big dat, quantic computing and 5G.
In Europe, nobody has yet understood that today’s societies have overcome the axle-ages logics, as well as the ones of modernity, based upon religion, humanism, rationality, law, personality, freedom, state, industry, society. Those elements have been substituted with ICT, machine dominance, “Big Data”, “hair trigger alert”, social media, Big Five, virtual mankind. Who is not in a position to master this complex world will step quickly down, to the level of a passive object, of a Guinea pig, of a mere archaeological fund, from which to dig new ideas (as it happens in the Dong Guan campus).
Today, US, China, Russia, India, Israel, Iran, have their own Big Data, their own digital intelligence, their own ICT pundits, their own OTTs…We don’t. For this reason, we have lost any possible geopolitical status and even the capability to survive economically and culturally.
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6.Let’s Build-Up a European ICT Agency
Escaping this decadence spiral requires a cultural shock and new technologies. Both of them could come from Dong Guan : from one side, regenerating our pride of belonging to “DA QIN”, the other major pole, together with Asia, of human civilisation, and, from the other side, utilising 5G technologies, which represent the ICT of the future. For both things, we need China.
As Francesca and Luca Balestrieri are writing, “The forecasts of the next few years include so many variables, that bi-polarity does not appear to be a destiny necessarily scratch us by the logic of a new cold war: although, at present, the scene is dominated by the US and China, the second phase of digital revolution is still open to a possible wider dissemination of industrial power and to a more sophisticated geopolitical landscape.”
Having in mind such objectives and such strategy, Europe should organise a negotiating package with Huawei, to which not only the European ITC multinationals, but also other subjects may be involved, first of all the European Union, possibly as such. I cannot see why, as we have a European Space Agency, we could not have also a European ICT Agency, which operates, directly or via financial vehicles (such as Aerospatiale), as a player on the market of digital products and services, acquiring premium technology where it is available, and creating the new (and today not existing) ruling classes of the European ICT society, in the same way as, for the design of “Programma 101”, Adriano Olivetti had hired (upon recommendation of Enrico Fermi), the Italian-Chinese engineer Mario Chou.
After the deception of the neo-liberal and post-humanist rhetorics, everywhere a very interventionist mood towards ICT is gaining momentum, alongside the examples of the US DARPA and of the Chinese Committee for the Unification of Civil and Military. Well: if even Great Powers need such instruments for disputing mutually about the technological world dominance, imagine if we Europeans do not need a similar approach for avoiding to be reduced to the role of “digital primitives”, as a consequence of the most spectacular “market failure” of world history.
Also we must build-up our humanist-digital campus, including both the best traditions of all phases of Europe’s history and a selected anthology of all cultures of the world.
L’Olivetti ELEA , il primo personal, era italiano, e fu progettato dall’ italo-cinese Mario Chou.
Il nuovo campus della Huawei, a Dong Guang, e al centro della nascente città metropolitana sul Fiume delle Perle, grande come la Germania, ospiterà gli Enti centrali del gruppo Huawei. Esso consiste delle riproduzioni integrali a grandezza naturale dei centri storici di 12 città europee, scelte in modo non banale ed evitando le localizzazioni più commercializzate, come la Torre di Pisa o Piazza San Marco, e andando invece alla ricerca di perle nascoste della cultura europea, da Verona al castello di Heidelberg, fino all’ Alhambra di Granada (e inoltr Parigi, la Borgogna, Friburgo, Cesky Krumlov, Budapest…), che spesso neppure gli Europei conoscono.Questa “città ideale” costruita sui modelli di Pienza, Sabbioneta, Palmanova, Zamosc e San Pietroburgo, costituisce di per sé una ben congegnata provocazione nei confronti dell’inesistenza , a oggi, di una cultura europea dell’informatica.
Essa costituisce anche l’ esempio più recente dello spirito con cui la Cina, o parte di essa, sta affrontando le sfide della post-modernità è chiaramente tradizionale, o, per usare un termine più appropriato, “assiale” (cioè dell’era delle grandi civiltà, cfr. Jaspers, Eisenstadt, Cojève, Assmann). Questo è reso evidente dalle citazioni sempre più ossessive delle antichità cinesi ed europee. A partire dall’esercito di terracotta e dalla Grande Muraglia, senza parlare del movimento Hanfu, per giungere alla frenesia con cui vengono clonati un po’ ovunque tutti i monumenti dell’Occidente, con un’attenzione e una cura che in Europa certamente non abbiamo.
Mario Chou era stato segnalato a Olivetti da Enrico Fermi
1.L’offerta di Reng Zhenfei
Anche l’offerta di Reng Zhenfei, Amministratore delegato della Huawei, di vendere (o, più precisamente, di licenziare), a un concorrente estero la sua tecnologia, rientra certamente in quello spirito “perennialista”. Secondo l’“arte della guerra” di Sun Zu, l’obiettivo di un condottiero è quello di “conquistare il Tian Xia senza uccidere nessuno”. Già in questo possiamo apprezzare la differenza con Google. Infatti, nell’ opera “The New Digital Age”, due membri del Consiglio di Amministrazione di Google, Schmidt e Cohen, raccontavano di aver elaborato insieme, nella Baghdad distrutta dalle bombe americane, la nuova strategia di Google, che sarebbe quella di “sostituire la Lockheed nel guidare l’America alla conquista del mondo”. Pare che anche…avrebbe incitato i suoi azionisti-soci-collaboratori a muovere alla conquista del mondo, però non ha associato questa conquista ad una strategia bellica.
Si è detto che anche Ren avrebbe esortato i propri azionisti-collaboratori a marciare alla conquista del mondo. Tuttavia, non ha legato questo programma a un programma militare o ideologico, ma, a quanto pare, a una visione culturale.
In un certo senso, ha ragione il Presidente Trump nel ritenere che l’attuale “sorpasso” della Cina sugli Stati Uniti nei campi economico e tecnologico, sia dovuto all’ abilità dei Cinesi nel copiare l’Occidente. Infatti, tutte le civiltà che hanno progredito e vinto hanno copiato massicciamente quelle precedenti (Babilonia, l’ Assiria, la Persia, la Macedonia, Roma…). Tutti i Paesi extra-europei (America, Russia, Turchia, Giappone, India), a partire dal colonialismo, hanno copiato massicciamente l’Europa, a cominciare dalla religione (il Brahmo-Samaj, i Bahai, i Taiping), per passare all’ ideologia (il nazionalismo, la monarchia, il liberalismo, il marxismo, il fascismo), e continuare con l’ economia (libero mercato, socialismo), fino alla tecnologia (informatica, alta velocità, ecologia, spazio). Se questo è un “furto”, esso è costitutivo dell’idea stessa di “storia”, e gli Stati Uniti sono il caso più flagrante di “furto”, avendo “rubato” la terra agl’Indiani, la libertà agli Africani, il territorio agli Europei, le idee a Inglesi e Iberici, la cultura e la tecnologia a Tedeschi ed Ebrei…
L’idea di una “Nuova Europa” in Cina rappresenta una risposta alle idee di Hegel sulla “Fine della Storia”in Europa e a quelle dei Neo-hegeliani circa l’ America quale “vera” fine della Storia. Se lo Spirito del Mondo segue il corso del sole verso Occidente,. Allora, esso, dopo l’ America, illuminerà nuovamnte la Cina (e l’ Eurasia).
Adriano Olivetti, l’imprenditore piemontese che realizzò l’ELEA
2.La lotta fra Trump per frenare la Cina
Comunque, nessuno aveva mai spinto quella tendenza emulatoria così avanti come ha fatto la Cina degli ultimi 30 anni, giungendo addirittura a emulare la stessa ragion d’essere occulta della modernità occidentale, la rivoluzione delle macchine intelligenti. Se la Cina riesce là dove l’America non può arrivare è perché la Cina, da sola, racchiude in sé, sotto un’unica guida, un universo grande quanto l’intero Occidente, un universo in cui coesistono le più avanzate tecnologie e società ancora primitive, una vasta borghesia colta e un vastissimo sottoproletariato, un grande ceto medio burocratico e manageriale e una miriade di piccole e medie imprese: l’”unità nella diversità”, tanto esaltata da tutti, ma che non può essere realizzata là dove c’è invece una grande omogeneità. La Cina ha potuto così giocare su tutti i tavoli, dal comunismo di guerra al laissez-faire più sfrenato, dallo stalinismo alla finanza internazionale, dal libero mercato al “keynesismo militare”. Essa continua a poter mobilitare in modo differenziato centinaia di milioni di migranti e di funzionari, d’imprenditori e di professionisti, su tutti gli scacchieri e su tutti i varabili scenari economici mondiali (dalla guerra fredda alla lotta al sottosviluppo, dalle delocalizzazioni alla rivoluzione digitale…).In questo modo, essa è riuscita fino ad ora ad evitare l’”impasse” di una linea di sviluppo monocorde, sia essa la programmazione sovietica o il neo-liberismo anglo-americano.
Trump , avendo abbandonato (finalmente) l’ipocrisia dei presidenti precedenti, ha anche le sue ragioni, in quanto difensore degli Stati Uniti, nel tentare palesemente di arginare questa tumultuosa crescita della Cina, ma ne è ostacolato dalle limitate dimensioni del suo Paese e dai seppur modesti “check and balances” che, in Occidente, limitano ancora la sua libertà di manovra, a cominciare dall’ esistenza dell’ Unione Europea (ch’egli considera infatti come la sua peggiore nemica). Non per nulla egli sta facendo di tutto per imitare la Cina, a cominciare dalla concentrazione del potere sulla sua persona e dal tentativo di ridurre ulteriormente i margini di manovra degli Europei. E’ anche normale, nell’ottica della lotta fra grandi potenze, che la crescita della Cina e il conseguente benessere del resto del mondo vengano in qualche modo frenati dall’ azione di Trump, ma non è probabile un suo sostanzioso successo.
Sono, infatti, 4000 anni che l’ Oriente trasferisce tecnologia in Occidente (agricoltura, scrittura, papiro, porpora, strategia, seta, porcellana, vetro, bussola, polvere da sparo, stampa, carta moneta), come 500 che l’Occidente ritrasferisce la tecnologia in Oriente (cannoni, motori a vapore e a scoppio, giornali, automobili, radio, cinema, energia atomica, televisione, spazio, informatica).Vi è cioè una sorta di “principio dei vasi comunicanti”. Il tipo di rapporto contrattuale potrà variare ad libitum, ma, nella sostanza, non è (ancora) ammissibile, fintantoché le Macchine Intelligenti non imponessero un proprio impero mondiale, che esista nel mondo un unico fornitore dei beni più essenziali. Una situazione del genere sfocerebbe senz’altro in una guerra per l’appropriazione “manu militari” delle nuove tecnologie.La Cina ha già sventato un siffatto colpo di mano da parte di Google, Microsoft, Apple, Facebook e Amazon, resistendo alle spinte disgregatrici sullev sue province periferiche e creando, come ha fatto, omologhi cinesi per le “Big Fives” (Baidoo, Alibaba, Tencent).
Mario Chou con Adriano Olivetti
3.Fine del monopolio della Silicon Valley
Avendo costituito un’ alternativa alla Silicon Valley, la Cina sta offrendo al resto del mondo l’opportunità di una reale concorrenza, creando due ecosistemi digitali paralleli, non limitati al territorio di ciascun blocco, bensì a livello mondiale. Una concorrenza che, paradossalmente, costituisce una delle rivendicazioni tradizionali delle retoriche del libero mercato, e una delle basi delle politiche della concorrenza, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa.A tutela della quale non si era esitato, neln XX Secolo, ad emettere i cosiddetti “orders to divest” contro la Standard Oil, la SKF e la General Electric. Orbene, visto che nessuno nel mondo ha oggi più il coraggio di emettere un “order to divest” (giustificato quant’altri mai) nei confronti delle Big Five, perché queste dispongono ovunque di un potere assoluto, , è lo stesso Ren a emettere (contro se stesso) un “oder to divest”, dando, così, un esempio che potrà avere un impatto dirompente in tutto il mondo. Se la Huawei si è sentita obbligata a spezzare il proprio stesso monopolio, perché non dovrebbero farlo anche le Big Five?
In questo scenario, si capisce anche che è impossibile impedire che le tecnologie sviluppate in Cina possano essere applicate nel resto del mondo, anche se ciò costituisce un vulnus inaccettabile al dogma hegeliano e weberiano che lo sviluppo economico della modernità è una conseguenza diretta e inscindibile della rivoluzione puritana (americana).Questo dogma, invocato a suo tempo da Marx a giustificazione dello schiavismo in America e da Rostow per la sua “teoria dello sviluppo”, costituisce il motore occulto della potenza americana, così come la teologia costituiva, per Benjamin, la forza occulta del Marxismo.S e cadesse questo dogma, si sfalderebbero non solo l’Occidente, ma la modernità, e gli stessi Stati Uniti.
La famiglia Chou
4.La mossa di Huawei
In questo breve lasso di tempo, sono state formulate, sulla mossa cinese, le ipotesi più svariate, per lo più ispirate a immarcescibili pregiudizi anticinesi, soprattutto quella che si tratterebbe solo di una mossa tattica, di un trucco, oppure che essa sarebbe la prova che la Huawei è disperata per non poter più vendere abbastanza telefonini e materiale logistico in Occidente.
La verità è che la vita stessa delle tecnologie moderne è fondata sulla contrattualistica della proprietà industriale : nessuno è mai riuscito a sfruttare per sempre un’invenzione in regime di monopolio; da sempre ci sono stati l’”esaurimento dei diritti” , il “trickle down effect”, le licenze, i trasferimenti di know-how. Questi trasferimenti per via contrattuale e commerciale hanno costituito da sempre la forma fisiologica delle collaborazioni tecnologiche internazionali, anche se non sono sconosciuti casi “patologici” di trasferimento forzoso di tecnologia, come quello realizzato manu militari dopo la Seconda Guerra Mondiale, arrestando e trasferendo a forza von Braun e Antonov. La Cina sta cercando proprio di evitare che si arrivi a tentativi di questo tipo.
Inoltre, le trasformazioni in corso nell’economia mondiale sono così rapide, che il ruolo della Cina , in quanto parte oramai centrale di questa economia, è condannata a mutare continuamente. Ciò che era vero fino a ieri non lo è più oggi. Se, per volontà delle multinazionali americane, che, negli Anni 90 vi avevano delocalizzato il grosso delle loro produzioni, essa era divenuta la “manifattura del mondo”, oggi essa sta diventando, sempre in simbiosi con gli ambienti economici occidentali, il “cervello del mondo”. In questa situazione, non è essenziale produrre in Cina, ma neanche all’ interno dell’universo Huawei, tutto il materiale telefonico. L’importante è controllare la filiera internazionale, per imporsi quale partner qualificato di coloro che vi operano. Così come fanno Google, Facebook, Amazon e Alibaba, che in pratica gestiscono le attività di altri.
La licenza della tecnologia 5G, per quanto offerta nei termini più liberali, non arresterà dunque l’“intellectual leadership”di Huawei, la cui forza consiste proprio nell’innovazione continua. Il campus” di Dong Guan servirà proprio per coltivare innovazione per tutto il mondo. Il fatto che esso sia costruito “copiando” le roccaforti della cultura europea (e non di quella americana, russa, islamica o indiana), dimostra che il modello e il partner elettivo di questi sviluppi è l’Europa. Questo per due motivi, l’uno storico, perché DA QIN ha costituito da sempre il polo speculare delle Vie della Seta, al quale la Cina ha guardato sin dal tempo degli Han Anteriori, e l’altro, geopolitico, perché l’Europa è, oggi, speculare e quindi complementare nei campi culturale, politico, tecnologico ed economico, alla Cina.
Il Minitel, il primo Internet, era europeo
5.Sfidiamo l’arretratezza culturale e tecnologica dell’ Europa
Dal punto di vista tecnologico, l’Europa appare, all’alba della Società delle Macchine Intelligenti, come un paese sottosviluppato: “Se è vero che l’ Europa ha nel commercio extra-UE un saldo positivo dell’industria manifatturiera nel suo complesso, registra però un deficit nei prodotti ad alta intensità tecnologica. Nel 2015, il disavanzo europeo è stato di 63,5 miliardi di euro, soprattutto verso la Cina, ma non solo: anche Stati Uniti, Corea, Giappone e persino Vietnam e Thailandia hanno segnato un più nello scambio di prodotti high tech con l’ Unione Europea….”(Francesca e Luca Balestrieri, “Guerra Digitale”). Come scrivono gli autori citati, “La discontinuità che segna l’inizio della seconda fase della rivoluzione digitale offrirebbe sulla carta all’ Europa l’opportunità di un cambio di marcia: nel nuovo mix di tecnologie convergenti, l’eccellenza europea in settori come la robotica, l’automazione e -in generale -la manifattura 4.0 potrebbe portare alla nascita di nuovi campioni globali, questa volta radicati in Europa. Il fattore critico è però la capacità di elaborare un’efficace politica industriale a dimensione europea. “
L’assenza dell’ Europa dai settori di punta delle nuove tecnologie deriva dall’ assenza di un ambiente geopolitico ed intellettuale complessivamente favorevole (di innovatori motivati e all’ avanguardia come a suo tempo von Braun,Turing, Olivetti, Chou, o, in America, Wiener, von Neumann, Esfandiari, Kurzweil…; d’ iniziative come quelle del Minitel e di Programma 101; di un centro decisionale militare autonomo come il DARPA americano, che finanzia l’industria digitale in quanto tipicamente “duale”; di reti d’intelligence capaci d’impedire il furto delle tecnologie).Forse anche da accordi segreti con l’ America.
Tuttavia, se, nel XX° secolo, i Paesi europei potevano ancora sperare di mantenere il loro “European life style” restando dei semplici “followers” dell’ America, essi non possono più nutrire questa speranza dopo l’avvento dell’ economia digitale, dominata dalla Silicon Valley, da Dong Guan, Xiong’an, Bangalore, dai providers di Internet, dai Big Data, dai computers quantici e dai 5G.
In Europa non si è ancora capito che le società attuali hanno oramai abbandonato, non solo le logiche della società assiale, ma anche quelle della Modernità, fondate su religione, umanesimo, razionalità, diritto, personalità, libertà, Stato, industria, società. Oggi, quegli elementi sono oramai stati sostituiti dall’ informatica, dal macchinismo, dai “big data”, dall’”hair trigger alert”, dai “social media”, dalle “Big Five”, dall’uomo virtuale. Chi non è in grado di padroneggiare questo complesso mondo mondo decade rapidamente a suddito, a cavia, a mero reperto archeologico da cui ricavare le nuove realtà (come il campo di Dong Huang).
Oggi, USA, Cina, Russia, India, Israele, Iran, hanno i loro Big Data, i loro sistemi di intelligence, i loro guru dell’ informatica, le loro OTTs, ecc…Noi no. Per questo abbiamo già perduto ogni rilevanza geopolitica e stiamo perdendo addirittura la capacità di sopravvivere economicamente e culturalmente.
Uscire da questa spirale discendente richiede una scossa culturale e nuove tecnologie. Ambedue le cose potrebbero venirci da Dong Guan: da un lato, il rilancio dell’orgoglio di appartenere a “Da Qin”, l’altro grande polo, insieme all’ Asia, della civiltà umana, e, dall’ altro, l’utilizzo delle tecnologie 5G, che rappresentano l’informatica del futuro. Per tutte e due queste cose, abbiamo bisogno della Cina.
Come scrivono Francesca e Luca Balestrieri, “Nello scenario dei prossimi anni vi sono dunque troppe variabili perché si debba considerare il bipolarismo come un destino, in cui restare schiacciati nella logica della nuova guerra fredda: anche se al momento la scena è occupata da Stati Uniti e Cina, la seconda fase della rivoluzione digitale è tuttora aperta a una possibile più larga distribuzione del potere industriale e a più complessi assetti geopolitici”.
Con quest’obiettivo e con questa strategia, l’Europa dovrebbe organizzare un pacchetto negoziale con Huawei, a cui possano partecipare, ma non solo, le multinazionali europee dell’informatica, ma anche altri soggetti, primo fra i quali l’Unione Europea, addirittura in quanto tale. Non si vede perché, come esiste un’Agenzia Spaziale Europea, non possa esistere anche un’ Agenzia Digitale Europea, la quale si ponga, direttamente o attraverso società-veicolo (come Arianespace), come attore sul mercato dei prodotti e servizi digitali, acquisendo tecnologia di punta là dove essa è disponibile e creando le nuove (oggi inesistenti) classi dirigenti della società digitale europea, così come, per la progettazione del “Programma 101”, l’Ing. Olivetti aveva reclutato (su raccomandazione di Enrico Fermi) ,l’italo-cinese Ing. Chou.
Dopo trent’anni di delusioni dalle retoriche neo-liberistiche e post-umanistiche, sta prendendo piede ovunque un atteggiamento altamente interventistico delle Grandi Potenze nei confronti dell’ universo digitale, sulla falsariga del DARPA americano e del Comitato cinese per l’Unificazione del Civile e del Militare. Orbene, se di questo hanno bisogno addirittura le due Grandi Potenze che si contendono il controllo tecnologico del mondo, figuriamoci se non ne abbiamo bisogno noi Europei, ormai ridotti a dei “primitivi digitali” a causa del più spettacolare “fallimento del mercato” che la storia ricordi!
Anche noi dobbiamo costruire il nostro campus umanistico-digitale, comprendente e le migliori tradizioni di tutte le fasi della storia europea, e un’antologia selettiva di tutte le culture del mondo.
L’’imporsi dell’ informatica come fenomeno centrale del XXI Secolo ha stravolto, già di per sé, molti dei presupposti -filosofici, politici, economici e giuridici- delle società contemporanee, a partire dalle idee di libertà, di Stato e di concorrenza, rendendo obsolete, tra l’altro, le vecchie ideologie e le vecchie scuole economiche e giuridiche. E’evidente, infatti, che le Big Five non sono soltanto delle imprese, ma corrispondono anche, contemporaneamente, a ciò che un tempo erano gli Stati, le Chiese e i servizi segreti. Difendere l’Umano contro i Big Data e l’uomo artificiale richiede molta più energia e ingegnosità che non difendere i cittadini separatamente contro lo Stato, la Chiesa o la repressione poliziesca, come si era fatto nel ‘600 con l’Habeas Corpus, nel ‘700 con il Toleration Act, o nell’ Ottocento con le costituzioni liberali.
Per questo le Autorità americane stanno giustamente ripensando all’intero impianto della legislazione antimonopolistica, nata proprio in America per difendere, prima che i consumatori, la stessa democrazia, la quale non può coesistere con un potere preponderante, superiore a quello di Stato, Chiesa e polizia messe insieme. Infatti, le Big Five spiano quotidianamente ciascuno di noi, a cominciare dal Papa e dal Presidente degli Stati Uniti, manipolano le elezioni in tutti i Paesi del mondo, ma soprattutto in America, rivendono i nostri dati acquisendo un potere economico che permette loro di acquistare aziende aerospaziali e interi territori, catene editoriali e fabbriche automobilistiche, catene distributive e fabbriche di robot: distruggendo l’intero ceto imprenditoriale e gran parte di quelli tecnici e operai, in tutto l’ Occidente.
Ma, per fermare le Big Five, non resta che ricreare la concorrenza (per esempio, quella dei concorrenti europei che oggi non ci sono).
La polemica forzata di Trump contro la decisione della Commissione ha se non altro il pregio di mettere in evidenza una serie di verità lapalissiane che tutti hanno preferito ignorare per molti decenni. Al di là dei mutevoli e mistificati rapporti in politica interna, vi è una sostanziale convergenza fra, da un lato, il perpetuarsi dello strapotere delle Big Five, e, dall’ altra, le politiche protezionistiche, aperte o nascoste, dello Stato Americano, di oggi e di ieri.
1.L’informatica quale arma suprema del XXI Secolo
Dato, infatti, il carattere centrale dell’ informatica nella società di oggi, e, soprattutto, di domani, essa rappresenta oggi l’arma suprema, superiore perfino a quella nucleare. Come ha detto il Presidente Putin, “chi controlla l’ Intelligenza Artificiale controlla il mondo”. Questo l’avevano scritto per primi Eric Schmidt e Jared Cohen, membri del CdA di Google: “mentre, nel XX Secolo, era stata la Lockheed a guidare l’America alla conquista del mondo, nel XXI secolo, questo compito spetterà a Google”. D’altra parte, questo lo sapeva per primo il Department of Defence americano, che, in piena Seconda Guerra Mondiale, aveva lanciato “AAA Predictor”, un programma che aspirava nientemeno che a prevedere le mosse del nemico. Se non è questa l’Intelligenza Artificiale! E, nello stesso modo, lo sapevano i vertici del PCUS, che, dal 1983, avevano affidato la decisione della eventuale rappresaglia nucleare, a un sistema informatico detto “OKO” (Occhio).
E’ questo il motivo per cui tutti gli Europei (Governi, Istituzioni, partiti, imprenditoria) non hanno mai fatto nulla contro lo strapotere delle Big Five, concepito come una semplice e logica estensione della cessione agli Stati Uniti del diritto di pace e di guerra. Ed è questo per cui il seppur modesto attacco odierno della Commissione alla Google viene descritto da Trump come un’insopportabile prevaricazione degli Europei, che va repressa al più presto.
L’approccio di Trump si differenzia perciò da quello di Obama solamente per lo stile. L’Amministrazione Obama si era illusa di rendere irreversibile il predominio delle Big Five (e, quindi, del proprio Complesso Informatico-Militare), attraverso il TTIP e il TTP, mettendo al bando come “protezionismo” ogni misura volta a rafforzare le nascenti industrie europea e giapponese del Web Poiché non si sono potuti stipulare i due trattati, si è scelto ora il rude approccio di Trump: non potete multare la Google (seppure applicando la normativa antitrust, che è un prodotto del liberismo giuridico americano) perché la Google è americana, e gli Europei stanno già traendo fin troppi vantaggi (quali?) dalla cooperazione con l’America. L’atteggiamento di Trump è simile a quello del lupo nella favola di Esopo/Fedro e Lamartine, in cui questo animale divora l’agnello dopo averlo accusato di una colpa irrisoria e comunque impossibile (avere sporcato l’acqua d’un ruscello quando in realtà era l’agnello ad essere a valle del lupo).
2.L’insostenibilità della subordinazione europea
Addirittura, l’insufficienza economica, a parere di tutti, della multa miliardaria comminata a Google dalla Commissione, rispetto all’ enormità dei danni causati dall’ impresa, mette a nudo l’insostenibilità di un tipo di rapporto, fra Europa e America, fondato su una totale sproporzione di potere. Infatti, già soltanto mantenendosi entro i ristrettissimi limiti del diritto europeo positivo (ripetiamolo, di origine americana) esisterebbero strumenti ben più efficaci, come l’”order to divest”, che nessuno si sogna però neppure di suggerire. Ricordo che questa soluzione era stata applicata fin dagli inizi dell’antitrust americano a conglomerate, come la Standard Oil, ben meno minacciose che non le Big Five di oggi. Quanto poi alle diatribe euro-americane, avevo avuto modo già negli anni ’70 di assistere ad un “order to divest” piuttosto discutibile, quello contro la SKF svedese (per cui lavoravo), evidentemente per favorire i suoi concorrenti americani.
Ma c’e di più: sempre secondo la stessa teoria liberistica, lo Stato deve intervenire nell’ipotesi di un “fallimento del mercato”. Ebbene, questo è appunto il nostro caso, perché, senza un aiuto dello Stato (o meglio dell’ Unione Europea), un’industria europea del web non sorgerà mai, e, quindi, in Occidente non sorgeranno mai dei concorrenti delle Big Five come Alibaba o Baidu in Cina .E giacché, senza un’industria informatica autonoma, non è possibile, né una politica di difesa, né un’industria delle comunicazioni, né un sistema commerciale efficiente, né un’industria dei trasporti, ecc…, se l’ Europa non si dota della sua autonoma industria del web, essa sarà condannata a una decadenza rapidissima, sul genere di quella che stiamo già sperimentando in Italia, dove da più di un decennio, la “crescita”, mai superiore all’ 1%, non compensa neppure l’inflazione programmata. Non per nulla, l’Italia costituisce un caso estremo di rinunzia a tutte le tecnologie di punta: dall’ informatica (ricordiamo il caso Olivetti), al nucleare (vedi referendum), alle portaerei (vedi il caso delle nostre portaelicotteri), alla propulsione aerospaziale (caso Fiat Avio). Un’Italia priva delle industrie di punta è condannata a non offrire più alcun posto di lavoro interessante, soprattutto per gl’intellettuali, i managers, gl’ingegneri, i finanzieri, i legali, perché questi si concentrano ovunque là dove c’è un potere effettivo: intorno alla Silicon Valley, a Shenzhen, al Pentagono, al Cremlino, a Wall Street, a Gerusalemme, a Pechino, a Riad….Qui restano solo posti da politici di second’ordine, da burocrati esecutori, da camerieri, da contabili e lavoratori manuali in attesa di essere sostituiti dai robot…
La difesa d’ufficio che il Presidente Trump sta facendo di Google conferma che si tratta di una lotta per la sopravvivenza fra le economie americana ed europea. D’altronde, il caso di Cambridge Analytica dimostra che anch’egli, come già Obama, non avrebbe vinto le elezioni senza l’appoggio determinante delle Big Five. Dove poi l’influenza russa, per altro non dimostrata e non specificata, sarebbe stata infinitesimale rispetto a quella, confessa, di Facebook e di suoi partners.
Urge un’azione da parte della società civile per fare pressione sulle Autorità Europee. Se l’Unione Europea non saprà tutelare i suoi cittadini contro questa che è la minaccia più grave nei confronti della nostra libertà e della nostra stessa sopravvivenza, non vedo come essa possa rivendicare una qualsivoglia legittimità democratica, e come faccia a evitare il prevalere di forze che promettono (sinceramente o meno), nuovi assetti, radicalmente diversi.