E’L’EUROPA CHE E’ IN VENDITA, NON SOLO L’ITALIA: i nodi vengono al pettine

La recentissima polemica fra la premier Meloni e il quotidiano “La Repubblica” ha  sollevato (almeno momentaneamente)le spesse coltri con cui l’”establishment” europeo ha nascosto, e ancora cerca di nascondere, lo stato comatoso delle nostre società, rappresentato icasticamente dalla loro decadenza economica, una decadenza che per altro è solo la punta dell’ iceberg di un più complessivo declino.

Certo, in teoria potrebbe esistere una “decrescita felice”, vale a dire se questa corrispondesse a una deliberata scelta esistenziale. Invece, nella realtà, la nostra è una “decrescita infelice”, perché si accompagna alla perdita dello slancio vitale, della stessa voglia di vivere (l’”era delle passioni tristi”).

Kareta FIAT (Polski) 1935

1.“L’Italia in vendita”?

Tutto è partito da un infelice titolo de “La Repubblica”, la quale,  ispirandosi a vecchi articoli dei giornali di destra sulle privatizzazioni del Centro-sinistra, suonava così:L’Italia in Vendita”. In considerazione del fatto che il gruppo proprietario de “La Repubblica”, GEDI, controllato  dagli Elkann, detiene un record nella svendita  di imprese italiane (essendo riuscito non solo a cedere all’ estero, ma addirittura a fare sparire nel nulla, un impero finanziario e industriale globale com’era la FIAT), la premier Meloni ha avuto buon gioco a ritorcere l’accusa contro il giornale e la sua proprietà, rifiutando, da quest’ultimo, una pretesa “lezione di italianità”. E certamente, John Elkann, figlio del francese Alain e di Margherita Agnelli, è tutt’altro che un patriota italiano, né ha mai preteso di esserlo, anche se non per “colpa” sua, essendo figlio di un Francese,  essendo partorito a New York  per dargli la cittadinanza americana, ed essendo stato educato in Francia. Né lo sono mai stati i giornalisti del “la Repubblica”, divisi  storicamente fra internazionalismo progressista e globalismo occidentale.

Quindi, che “l’Italia sia in vendita” non è mai stata, ovviamente, una loro preoccupazione, come stanno ribadendo in questi giorni insieme ai colleghi de “la Stampa”, esaltando, anche se fuori tempo massimo, una libertà di movimento dei capitali oramai quasi inesistente in tutto il mondo dopo l’avvio della “Guerra Mondiale a Pezzi”(fra incentivi, paradisi fiscali, dazi, sanzioni…).

Ma, venendo alla FIAT, il Gruppo Agnelli aveva desiderato da gran tempo sbarazzarsene, forse già da quando, nel 1943, in previsione della sconfitta dell’ Asse, il Dott. Camerana era andato a Berna dal fondatore della CIA, Allen Dulles, per sentirsi dire dal suo  staff che (come in effetti poi avvenne), dopo la guerra, la missione della FIAT sarebbe stata quella di produrre auto a buon mercato per l’Italia e i Paesi mediterranei sfruttando il basso costo della manodopera. E siccome le auto piccole e a buon mercato “rendono” ovviamente meno di quelle grandi e lussuose come le Mercedes e le BMW, il Gruppo Agnelli aveva cercato, giustamente dal suo punto di vista, di cambiare mestiere. Purtroppo, però, si trattava di un processo estremamente lungo e complesso (è durato un’ottantina di anni), perché un impero come la FIAT è strettamente legato alla società circostante (solidarietà politiche, aiuti di Stato, occupazione, pendenze pregresse), con vincoli ideologici, storici, familiari, legali, sindacali, politici e di immagine difficili da recidere.

Nel frattempo, i fornitori della FIAT, avendo compreso le intenzioni a lungo termine del loro cliente, cercavano anch’essi di defilarsi, vendendo i loro stabilimenti  ai concorrenti, o, in mancanza di meglio, alla stessa FIAT, e provocando, così, una crisi di fiducia nell’imprenditoria, e in tutta la società,  piemontesi. Ricordo che quando, nel lontano 1982, tornai a Torino dalle Comunità Europee, nell’ anticamera del medico del lavoro un solitario vecchio operaio mi chiese stupito: “ma la Fiat assume ancora?”

Un trend di cui oggi le pluridecennali questioni ancora pendenti dell’Embraco, della Whirlpool, della GKN, della Marelli, della Lear e dell’ Idrosapiens (che furono al centro delle mie attività già mezzo secolo fa) sono solo le ultime frattaglie. Le vendite erano incominciate già negli anni ’70.

Invece, da sempre il Governo francese, a partire da De Gaulle, ha desiderato accaparrarsi, attraverso le sue imprese, la massima quota parte della base industriale europea, per farne uno strumento della propria politica di potenza in Europa e nel mondo (quello che oggi si chiama “weaponisation”).

Ufficio Olivetti di New York

2.Un processo lungo cinquant’anni

Negli Anni ’80, erano partite le manovre allo scoperto per vendere l’intera FIAT: gli accordi FIAT-Ford, FIAT General Motors e FIAT-Chrysler. Quest’ultimo fu spacciato all’opinione pubblica  come una “fusione fra eguali”, ma era chiaro che il Gruppo Agnelli aveva la maggioranza, anche se non lo faceva vedere per non urtare le suscettibilità  americane, visto l’enorme “leverage” dato all’ operazione dal Presidente Obama. Un caso speculare a ciò che, come rilevato dalla premier, è ora accaduto con la Francia.

Comunque, già allora i centri direzionali si erano spostati ad Amsterdam, Londra e Detroit. Risolto con un’abile mossa di Marchionne, l’accordo con la General Motors la proprietà trovò finalmente una via di uscita definitiva con la fusione con la PSA, controllata dallo Stato francese, anch’essa “spacciata ” come una “fusione fra eguali”, ma che si palesò ben presto come una cessione occulta allo Stato francese (cosa accertata fin da subito dalle Autorità di banca e di borsa, e “rivelata” ora platealmente da Giorgia Meloni).

Nel frattempo, si vendevano anche i rami secondari, dall’ Aspera, all’IVI,  all’Altecna,  alla SEPA, alla Fiat Engineeering, all’Avio, all’ IVECO, alla Marelli….

Missile nucleare francese

3.Arrivati alla fase finale?

Come se ciò non bastasse, ora, il nuovo gruppo Stellantis sta chiudendo varie fabbriche secondarie ex Fiat, in Italia e all’ estero (per esempio la FIAT Polski, un’azienda esistente dal 1936, e da noi ricostituita con fatica dopo la caduta del Muro di Berlino), ed, ora, la Maserati (venduta online come capannone), e perfino, dal 2014, la FIAT Spa.

Ma la goccia che starebbe facendo traboccare il vaso è che questa Stellantis, che oramai non ha più nulla di italiano, starebbe chiedendo soldi al Governo per non trasferire in Marocco le poche attività residue. Questo smaschera la ormai pluridecennale finzione della politica, dei sindacati e dei media, sul fatto che la Stellantis fosse rimasta in fondo la vecchia FIAT.

Oggi, il Governo sta giustamente condizionando la concessione di nuovi aiuti alla produzione di ulteriori aiuti alla produzione in Italia di più automobili. Una politica di “reshoring” simile a quella di molti altri Stati, ma che, a nostro avviso, in Europa significa condannarci sempre più al ruolo di paesi industriali obsoleti.

Nessuno contesta il diritto  di qualunque multinazionale a perseguire i propri interessi, ma nessuno dovrebbe mettere in dubbio nemmeno il dovere dei Governi di presidiare l’interesse pubblico con tutti gli strumenti politici e giuridici disponibili, in base a considerazioni geopolitiche, culturali, politiche e sociali, come hanno fatto, e stanno facendo più che mai in questa “fase prebellica”, tutti i Paesi del Mondo.

Contrariamente a quanto hanno pensato da sempre (per motivi elettorali) dai politici, il mantenimento sul territorio della produzione è meno importante di quello del controllo finanziario, tecnologico e manageriale. Cosa ben chiara all’ Avvocato Agnelli, che, in un suo libro-intervista, aveva ben spiegato i vantaggi derivanti a Torino dalla presenza delle varie holding de suo gruppo e dell’ indotto, comprensivo di professionisti ed altri fornitori di servizi.

Cosa che il Governo Francese, pur con i suoi enormi limiti (vedi Sahel), ha sempre cercato di fare. Invece di lamentarcene, dovremmo almeno cercare di trarne ispirazione.

C’è solo da chiedersi se i Paesi Europei, che, nell’Era delle Macchine Intelligenti, pretendono di difendere la “manifattura”, non facciano il male dell’Europa, allontanandola sempre più dalla competizione per l’eccellenza nei settori che contano, dall’industria culturale (grandi istituzioni culturali, media), delle alte tecnologie (informatica, neuroscienze) e dell’ industria aerospaziale e di difesa. ,Ripetendo le scelte sbagliate di tanti anni fa, come  far morire l’Olivetti e il Concorde (oltre che la bomba atomica europea), e sostenere invece le industrie dei beni di consumo.

I governi militari secedono dalla Comunità dell’ Africa Occidentale

4.L’Italia specchio dell’ Europa

Quella diatriba italo-italica, come tante altre, risulta essere, alla fine, solo un ennesimo gioco delle parti all’ interno di un “establishment allargato”, ma provinciale, per scaricarsi reciprocamente addosso responsabilità che, per altro, ci sono, e sono enormi.

Il punto è, infatti, che tutti i governi italiani, compresi quelli di destra, hanno avuto almeno 50 anni per comprendere, tanto la strategia dimissionaria dell’industria metalmeccanica, quanto i mezzi giuridici, politici, e perfino giudiziari, per contrastarla, quanto, infine, l’avanzare della Società delle Macchine Intelligenti e la nascita dei GAFAM americani e dei BAATX cinesi. Eppure, nessuno ha mai mosso un dito per cambiare la situazione.

Il trasferimento all’ estero dei centri decisionali della FIAT non è di oggi: era già incominciato con l’accordo con la General Motors, ed era continuato con quelli con Chrysler e PSA (che ha dato origine a Stellantis). Ancor più antica, l’uccisione deliberata dell’ Olivetti Elettronica (“un neo da Estirpare”). Adesso che i buoi sono usciti dalla stalla è troppo comodo stare a polemizzare retroattivamente, senza più poter fare nulla, salvo bloccare eventuali nuovi finanziamenti, a meno della sempre più improbabile ipotesi di  affiancarsi alla Francia nella proprietà di Stellantis.

La forza dei gruppi industriali deriva soprattutto dalla volontà politica dei loro governi, come dimostrato proprio dalla FIAT con il suo protagonismo nelle guerre del XX° Secolo, nella motorizzazione dell’Est Europa e nell’industrializzazione del Mezzogiorno. Quando i Governi sono pusillanimi, come quelli dell’Europa attuale, le imprese cercano invece solo di evitare di essere “prese in mezzo” a cose più grandi di loro, e si alleano con Governi più potenti e/o più assertivi.

Pensiamo soltanto a come tutti hanno accettato senza reagire la distruzione del North Stream II, con tutti gl’investimenti europei ch’esso era costato. Un altro  esempio: il gruppo automobilistico francese pubblico al 100%, la Régie Rénault, quando sono sopraggiunte le sanzioni e le contro-sanzioni fra Europa e Russia, anziché resistere con il proprio investimento in quel Paese, come hanno fatto tante imprese occidentali (e, in particolare, americane), hanno addirittura svenduto allo Stato russo per il prezzo simbolico di 1 rublo, la loro partecipazione a nella AvtoVaz, la società della città di Togliatti, costruita dalla FIAT. Una intera città, costruita con tanta fatica dai lavoratori e manager torinesi,  venduta per un rublo!

Lo dice qualcuno che ha passato buona parte della vita lavorativa a costruire una presenza italiana ed europea sui mercati extraeuropei. Anche e soprattutto in quell’ Africa, di cui oggi tanto si parla (vedi “Piano Mattei”), che è stata uno dei principali fallimenti dell’ Europa (Vedi il libro R.Lala. “Les procédures de la coopération Financière e Technique dans le care de la II Convention de Lomé”, Giappichelli, Torino, 1981).

E’ semplicemente inaudito che i politici e i giornalisti di tutte le tendenze fingano di ignorare completamente l’esistenza della cooperazione europea allo sviluppo e dell’ Associazione ACP-CEE, che sta facendo (male) da più di mezzo secolo ciò che ora l’Italia si ripromette di fare con il “Piano Mattei”. Certo, se ne vergognano, forse perché, dopo tanti anni, l’UE non è riuscita a risolvere neppure in piccola parte, i problemi dell’Africa, ma nemmeno a impedire che li risolvessero invece quegli altri Stati che si sono affacciati prepotentemente nel mondo della cooperazione allo sviluppo (Cina, Russia, Arabia, Turchia).

Quando parliamo di “Europa in Vendita”, abbiamo però in mente soprattutto l’incredibile viavai dei guru informatici e di altri consulenti americani nelle stanze del potere europeo, dal Berlaymont all’Eliseo, dal Quirinale a Palazzo Chigi, fino ai vari Ministeri della Salute e perfino in Vaticano. Dopo l’ “uccisione” della divisione informatica della Olivetti (“un neo da estirpare”) attraverso la sua svendita alla General Electric, si continua da sessant’anni a impedire la nascita di una seppur minima industria informatica europea, arricchendo in ogni modo i GAFAM e le altre multinazionali con i dati e i denari di pubblico e privati europei. Tra l’altro, una fonte di corruzione di fronte alla quale quella delle monarchie del Golfo appare come un gioco da ragazzi.

Se si volesse veramente creare una “Sovranità Europea”, come si sta ricominciando a dire da quando si prospetta una nuova vittoria di Trump in America, bisognerebbe rovesciare proprio questo trend verso la colonizzazione del nostro Continente, investendo innanzitutto nelle attività “proibite” agli Europei. Basterebbe riprendere sul serio le infinite cose iniziate e mai finite, come l’Esercito Europeo, la bomba europea, l’EADS,  l’Associazione ACP-CEE, Qwant, Gaia-X, l’Accademia Europea, la Politica Agricola Comune…), non  trastullarsi con le “armi di distrazione di massa” quali la “religione dei diritti” o le “fake news”. Di quelle si dovrebbero occupare fin da subito la Politica Industriale Europea, la Politica Estera e di Difesa dell’ Europa e la Conferenza sul Futuro dell’ Europa!

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