SUE RADICI PREMODERNE
Il giudice costituzionale tedesco Boeckenfoerde aveva affermato che l’Europa vive grazie a premesse ch’essa non è in grado di garantire.
In effetti, il cosiddetto “Miracolo Europeo” che, secondo la “vulgata” dell’establishment, sarebbe nato come per caso dall’ incontro fra illuminismo e dottrina sociale della Chiesa , va ricondotto in realtà a millenni di tradizioni europee, che, una volta ridotte, come si fa, a semplici “radici”, senza più alcun “élan vital”, non riescono ad evitare il nichilismo, cosa che sta ora accadendo sotto la pressione, prima, della globalizzazione occidentale, poi, delle Macchine Intelligenti. Ciò è vero in particolare per ciò che concerne il modello sociale europeo e il diritto sociale, fino a poco tempo fa baluardo di un modo di vivere europeo che si distingueva all’ interno stesso dell’ Occidente.
L’idea di Gianni Alemanno di rilanciare, in alternativa all’ attuale linea politica del Governo, l’area della “Destra Sociale”, messa nella giusta evidenza da parte dei media, costituisce un’ eccezionale occasione per una rapida rassegna storica delle radici culturali dell’ idea europea di “socialità”, e della conseguente evoluzione del diritto sociale. Una rassegna quanto mai necessaria, tanto per dare un fondamento solido all’ipotesi della rinnovata “Destra Sociale”, quanto per rilanciare il progetto europeo di società in quanto modello alternativo a quello “occidentale” (cfr., p.es, Michel Albert, “Capitalismo contro capitalismo”).Una rassegna cui mi sono dedicato fino dagli anni dell’ Università, quando dedicai la mia tesi di laurea alle “Fonti del Diritto del Lavoro nell’ Europa Occidentale”, e che è continuato con l’Associazione Diàlexis, con l’opera “Il ruolo dei lavoratori nell’ era dell’intelligenza artificiale”.
Ezio Mauro, su, “La Repubblica” ha avuto una bella intuizione nel segnalare la presenza, nell’aria, del desiderio di elaborare una “dottrina sociale della destra”, che ambirebbe a sostituire la propria egemonia a quella, pluridecennale, della sinistra, che, dopo due secoli”si muove spaesata davanti alla divaricazione tra sviluppo e occupazione”. Divaricazione che, tra l’altro, Marx aveva già previsto, concludendone che non vi sarebbe stato vero sviluppo al di fuori del socialismo. La sinistra è vittima di proprie contraddizioni intrinseche e ancestrali, messe definitivamente a nudo dal suo superamento da parte del post-umanesimo dell’ ideologia californiana. Il marxismo prevedeva un’evoluzione quasi automatica, il cui esito finale sarebbe stata una società opulenta grazie all’organizzazione centralizzata dell’ economia. In questo quadro, il ruolo delle forze di sinistra non era poi così determinante.
Noi non crediamo che una“dottrina sociale della destra” quale quella abbozzata di fatto dal Centro-Destra, e descritta, anche se confusamente, da Mauro, possa conseguire l’obiettivo dell’acquisizione dell’ egemonia sociale, proprio perché colpita, non meno della sinistra,da alcune contraddizioni, appena accennate da Mauro, quali l’assenza di una visione non settoriale della crisi epocale in corso e la politica del “ressentissement”.
Certo che s’impone una “Dottrina Sociale della Destra” veramente nuova. E,in realtà, questa c’è già, ma è stata deliberatamente occultata per più di un secolo, proprio mentre s stava realizzando, da establishment, accademia e politica partitica.
1.Le radici premoderne delle politiche sociali
Occorre ora portare alla luce, con una ricerca nel profondo e una battaglia culturale, le vere radici degl’ideali e degl’istituti sociali europei.
Contrariamente a quanto si è ritenuto per lungo tempo, l’idea moderna di socialità è legata, non già alle culture antitradizionali della Modernità (in particolare, al positivismo e al marxismo), bensì soprattutto a radici premoderne, quando non antimoderne (classiche, medievali, d’Ancien Régime, cattoliche, monarchiche, fascistiche, democristiane). Seifert distingue le idee della Rivoluzione Francese, che sarebbero quelle dei tre ordini dell’ Ancien Régime, dalle “sette idee slave”, che sarebbero quelle all’ origine del Marxismo. Del resto, lo stesso Marx aveva colto l’esistenza di una specifica idea europea di socialità, diversa da quella americana, ma anche dalla sua propria, di cui il maggiore esponente sarebbe stato il Barone von Stein, caratterizzata dal fatto che il capitalismo europeo si era sviluppato in un ambiente ancora profondamente intriso di feudalesimo (cfr. i Grundrisse, citati da Luciana Castellina in “50 anni d’ Europa”).
Soprattutto in Inghilterra enei Paesi tedeschi, il diritto del lavoro presenta profonde tracce della cultura feudale. Basti pensare alla denominazione del diritto del lavoro quale “Law of Master and Servant” (=“Legge del padrone e del servo”) e del contratto di lavoro come “Treuedienstvertrag” (=“Contratto di fedeltà e servizio”). La Rivoluzione Francese, con la Legge Le Chapelier, segna in Francia, almeno ufficialmente, la fine del sistema corporativo, mentre, per esempio, in Austria, le corporazioni si trasformano in Camere di Commercio e Camere del Lavoro.
Contrariamente all’idea conservatrice di socialità intesa come solidarietà, la motivazione primaria di Marx non era stata la questione sociale, bensì l’aspirazione al superamento delle religione (cfr. “La Sacra Famiglia”) come testimoniato dalla sua opera giovanile “Oulanem”, deliberatamente satanistica, ispirata alla retorica libertaria del Prometeo di Goethe.
Da queste sue radici nello Sturm und Drang, Marx fu spinto, prima, all’adesione alla Sinistra Hegeliana -la quale tentava di attualizzare gli obiettivi del “Primo Programma Sistemico dell’ Idealismo Tedesco” (realizzare nell’immanenza le promesse escatologiche delle religioni occidentali)-, e, poi, all’elaborazione del Materialismo Storico, una teoria del Progresso che si pretendeva scientifica, opponendosi alle premesse spiritualistiche e organicistiche del Socialismo Utopistico (la ricerca di una “Nuova Società Organica”-cfr. Saint Simon-). In tutto ciò, la questione sociale si poneva, per Marx, sostanzialmente solo come un passaggio strumentale, una fase necessaria della transizione automatica, meccanicistica, dal capitalismo al socialismo. Il proletariato avrebbe realizzato la necessità storica di questa fase attraverso la sua rivoluzione e la sua dittatura; le sue rivendicazioni economico-sociali avrebbero costituito semplicemente un’astuzia della Ragione per favorire il corso del Progresso. Il socialismo sarebbe non già più etico, bensì tecnicamente superiore al capitalismo, e quindi destinato a sostituirlo, per il semplice fatto che, incarnando l’intelligenza collettiva (“General Intellect”) sarebbe più razionale, e, pertanto, economicamente più efficiente. Un siffatto “socialismo” avrebbe anche ben poco a che fare con l’assistenzialismo: esso era semplicemente il controllo sociale sui mezzi di produzione, in vista di un’evoluzione tecnologica illimitata, destinata a rendere superfluo, alla fine, il controllo sociale esercitato storicamente dallo Stato e dal diritto (e di conseguenza lo stesso socialismo, superato dal “comunismo”, una sorta di anarchia tecnologica). Nel socialismo, l’automazione avrebbe permesso di produrre in abbondanza e senza sforzo, sì che, ad un certo momento (il comunismo) l’umanità avrebbe potuto dedicarsi quasi esclusivamente al tempo libero. Quest’ anarchia finale, la ”trascendenza pratica” di cui parlava Nolte, avrebbe realizzato il progetto chiliastico del Primo Programma Sistemico dell’ Idealismo Tedesco(sostanzialmente, il paradiso in terra).Infatti, essendo la cultura una “sovrastruttura” della struttura economica, la soluzione del problema delle risorse materiali avrebbe comportato quasi automaticamente il venir meno delle contraddizioni della società: potere, violenza, ingiustizie…
Il problema della sinistra è che questo obiettivo sembra ora realizzarsi non già grazie agli sforzi della politica marxista, bensì per effetto della dialettica intrinseca al Complesso Informatico-militare. E, per giunta, come potevasi prevedere sin dall’inizio, questa società della sovrapproduzione appare, vista da vicino, così poco attraente!
Per Lenin, il socialismo sarebbe stato “i soviet più l’elettrificazione”, vale a dire la dittatura del proletariato organizzato sotto la guida del Partito Bolscevico, per il compimento della rivoluzione industriale, fino alla fase in cui “le macchine produrranno altre macchine”, come accennato nel cosiddetto “Maschinenfragment” di Marx. Purtroppo, il proletariato sarebbe naturalmente riformista, perché non solo non condivide, ma non comprende neppure, gli obiettivi della rivoluzione. Perciò, dev’ essere assoggettato alla rude guida del Partito.
Stalin si sottrae al dibattito sul socialismo imponendo il dogma secondo cui esso, anziché essere un obiettivo di lungo periodo, sarebbe già stato realizzato nell’ URSS attraverso il capitalismo di Stato (il “socialismo reale”), mentre, nei Paesi satelliti, si avvia la “costruzione del socialismo” mediante le politiche di fronte popolare sotto l’egemonia del Partito Comunista (la “Blockpolitik”). L’approssimarsi del Comunismo renderebbe particolarmente violenta la lotta di classe, e, quindi, necessario il terrore rosso (come sostenuto da procuratore generale Vysinskij, regista dei “Processi di Mosca”).
Per i marxisti revisionisti, poi, il socialismo si sarebbe potuto realizzare anche solo attraverso un’interpretazione elastica dei “fronti popolari”, in cui la guida del Partito Comunista si manifestasse gramscianamente nella forma di un’”egemonia culturale”, capace di gestire “democraticamente” una temporanea collaborazione di classe con la borghesia, in modo da indirizzarla verso riforme in senso socialista, mantenendo così l’orientamento finale verso il socialismo e il comunismo. Era questo tra l’altro il senso del “Compromesso Storico”. Per l’ideologia socialdemocratica, ciò non implicherebbe l’uso della violenza, ma solo di un “soft power”, grazie a cui, per esempio, come avviene ancor oggi oggi, sono vietati i partiti di ispirazione fascista (ma non quelli postfascisti), e il sistema dei media è controllato da lobbies invisibili, laicistiche e pacifiste.
La società europea idealizzata da Mauro sarebbe infine l’”Eredità del Novecento”, cioè dell’ idea maritainana, secondo cui la Democrazia Cristiana sarebbe stata “un partito di centro che guarda a sinistra”,”che aveva benedetto la solidarietà, la responsabilità, la sussidiarietà m e il bene comune della dottrina sociale della Chiesa, e aveva fissato nelle Costituzioni del Dopoguerra la dimensione sociale e solidale dello Stato.”Tutte belle parole che però, come veremo, non corrispondono alla realtà, molto più complessa, e articolata nello spazio e nel tempo.
L’attuale “ideologia californiana” va ancora oltre, ritenendo che il “deperimento dello Stato” profetizzato da Marx nella fase storica del Comunismo, riprendendo precedenti miti nichilistici, stia già avvenendo grazie al “Trust Socialism” delle multinazionali (Burnham) e allo strapotere dei GAFAM (i giganti dell’ informatica).
In tutta questa vicenda, “i poveri” e “i lavoratori” hanno svolto un semplice ruolo di comparse, mentre il pathos solidaristico delle Chiese e del sindacalismo è stato bollato come la peggiore tentazione del movimento progressista, così come predicava Brecht attraverso opere quali “Santa Giovanna dei Macelli” e “L’anima buona del Sechuan”.
In definitiva, la tradizione marxista, in tutte le sue sfaccettature, s’inserisce perfettamente in un elitarismo tecnolatrico di origine alchemica, cabbalistica, massonica e sansimoniana, radicalmente opposto alle tradizioni cetuali, corporative ed etiche europee, dove il “popolo” e le sue aspirazioni non hanno alcun peso, anzi, vengono repressi.
La differenza di base fra, da un lato, le tradizioni europee di socialità e la Grande Narrazione progressista del “sociale”( sia essa marxista, tecocratica o populista) è una divergenza teologica. Per i progressisti, la “vera” socialità è quella che nasce, con una cesura netta con l’Antichità, con le eresie, i Comuni, la Riforma, il marxismo, la rivoluzione industriale e tecnologica: essa costituisce l’inveramento delle profezie sul Millennio, che si adempiono ora con il Postumanesimo. Per i conservatori, o, meglio, i “conservazionisti”, la socialità è invece una costante dell’ Epoca Assiale, un”ideale normativo” mai interamente realizzato (come il Da Tong cinese, che, come la lingua Cinese, ignora i tempi occidentali del verbo, e quindi può realizzarsi, o scomparire, in qualunque momento).
La pretesa dei progressisti occidentali d’imporre una “Fine della Storia” si tramuta, per via dell’Eterogenesi dei Fini, nella Fine dell’ Uomo, che, infatti, sta per intervenire a causa dell’ipertrofia della tecnica e della sua prevaricazione su uomo e natura. Il conservazionismo contiene una risposta adeguata alla Società del Controllo Totale, e il suo discorso pubblico sta già sostituendosi, per mille diversi rivoli (pessimismo tecnologico, socialismo di guerra, umanesimo digitale,revivals religiosi, sovranismo) al “mainstream” progressista.
2.Il solidarismo, dai Romani all’islamismo
Se vogliamo trovare una radice dello spirito solidaristico che ha ispirato la creazione del diritto sociale in Europa, e ispira ancora gran parte delle attuali retoriche europee, lo troviamo piuttosto nelle società cetuali del passato, ben anteriori all’ “Eredità del Novecento” di cui parla Mauro.
In esse, i poveri erano visti come un ceto sociale come gli altri, con particolari diritti e doveri, come i “Proletarii” nella costituzione repubblicana romana, che avevano un loro status giuridico -uno jus activae civitatis-, sotto la protezione dei tribuni della plebe.
Quanto al Discorso della Montagna, letto attentamente, esso sembra volto non tanto a promuovere una generica solidarietà sociale, bensì a stabilire una nuova gerarchia basata su valori ascetici (i “poveri nello spirito”). Esso ha contribuito potentemente alla saldatura fra religione e socialità. In generale, Le religioni di salvezza, condannando l’attaccamento alle cose materiali, esaltavano la solidarietà fra gli uomini, e quindi il senso di misericordia. Di qui, l’orientamento degli ordini monastici verso le opere sociali, come pure l’inserimento della “Zakat” (la beneficienza) fra i 5 Pilastri (Arkan) dell’ Islam.
Anche le corporazioni, che nascono, nella società classica, da un’ispirazione religiosa (pagana), trovano la loro massima fioritura nel Medioevo cristiano, e vengono incorporate nelle politiche colbertistiche dello Stato Assoluto, che prendevano come modello l’Impero cinese pubblicizzato dai Gesuiti, ispirato all’ ideale dell’”Armonia”.
A questo ideale si ispira anche l’istituzione originalissima delle “Reducciones”, Enti autonomi costituiti in America Latina sempre dai Gesuiti (cfr. in particolare le lettere di Dom Antonio Vieira al Re del Portogallo), quale baluardo della libertà degl’indigeni contro lo schiavismo dei conquistadores, e organizzate secondo il sistema comunitario ch’ era stato proprio dell’ Impero Inca.
Più che contro l’aristocrazia, la Rivoluzione Francese si accanì contro i ceti lavoratori. Intanto, la maggior parte delle 500.000 vittime della Rivoluzione Francese furono membri delle corporazioni, mentre, in Inghilterra, si scatenava la repressione contro i Luddisti, che si opponevano alla meccanizzazione del lavoro nell’industria tessile, con un dispiegamento di truppe superiore a quello delle Guerre Napoleoniche. Anche in Scandinavia, l’abolizione, più tarda, delle corporazioni, porterà a violenti scontri sociali.
Nel frattempo, le Chiese cristiane prendevano posizione sulla “Questione Sociale”. All’interno del Calvinismo olandese, Abraham Kuyper dedicò tutta la sua vita di teologo, di pastore, di pubblicista e ministro, alla creazione di un intero sistema di pensiero sociale neo-corporativo (“Organisch Gedachte”), che fu poi ripreso dall’ Anti-Revoltionair Partij. Nella Chiesa Cattolica, i Pontefici adottarono una decina di Encicliche Sociali, mentre teorici e organizzatori come von Ketteler, Vogelsang e Toniolo, gettavano le basi del pensiero sociale cattolico.
Tutta l’ideologia e la prassi del Principio di Sussidiarietà, tanto invocata da tutti soprattutto nell’Unione Europea, deriva dalla scoperta, da parte di Tocqueville, dei “corpi intermedi” quale contrappeso agli aspetti totalitari ella democrazia; concetto ripreso dalle Encicliche Sociali come difesa della società civile contro la pervasività dello Stato laicista ottocentesco, e poi base teorica per l’associazionismo cattolico, che rivendicava dal basso quel ruolo centrale che la Chiesa aveva assunto nell’assistenza sociale ai tempi dell’ Ancien Régime. Fiorivano allora , soprattutto in Piemonte, i Santi Sociali: Don Bosco, Cottolengo, Faà di Bruno.
Di qui la nascita del Terzo Settore, una società solidaristica come quella delle Reducciones, alternativa tanto al capitalismo quanto al socialismo, che sostiene in modo autonomo la vita della società, quasi fino a sostituirsi all’ economia commerciale e perfino allo Stato. Lo stesso principio solidaristico, tratto però dalle radici tribali, lo si ritrova nelle società africane, con movimenti come Njamaa o Ubuntu Mobuntu, e in quelle estremo-orientali (la “Mura Mentality”, eternata nei “Sette Samurai” di Kurosawa).
Sempre nell’ Ottocento, il Barone von Stein studiava in Austria la questione sociale. Tra l’altro, fu lui a inaugurare l’espressione “movimenti sociali”. Nasceva il Socialismo della Cattedra e II Reich inaugurava il Reichsversicherungsamt (L’Ente Imperiale delle Assicurazioni Sociali), a cui si affiancò ben presto una parallela legislazione austro-ungarica, non priva di connessioni con lo studio delle società contadine slave (in particolare, della “zadruga” balcanica),da parte di riformatori conservatori germanici Il Kaiser qualificava i lavoratori come “Soldaten der Arbeit“. Pochi anni dopo, Spengler parlerà di un “socialismo prussiano”.
All’inizio del ‘900, Sorel rivendicava, contro l’inerzia del movimento socialista, il movimentismo quale motore dell’azione sociale. Ne nasceva il “Cercle Proudhon”, luogo d’incontro fra anarco-sindacalisti e l’Action Francaise, aspirante a restaurare l’ordine cetuale dell’ Ancien Régime. Nello stesso tempo, il movimento sionista coniugava aspirazioni nazionali e religiose con un’ethos socialista, attraverso istituzioni quali il sindacato Histadruth e Enti quali i Kibbutzim.
A cavallo della 1° Guerra Mondiale, l’interventismo di sinistra, e, in particolare, Mussolini, propugnavano la sintesi fra socialismo e nazionalismo, che troverà la sua pratica espressione nel Programma di Sansepolcro.
In Germania, nel 1920, il Reichswirtschaftsrat univa lavoratori e datori di lavoro. Nel 1922,colla Gesetz über die Entsendung von Betriebsratsmitgliedern in die Aufsichtsräte der Kapitalgesellschaften, veniva avviata la cogestione e la socializzazione delle imprese, che i Sindacati cristiani salutavano come la “costituzione dei lavoratori quale nuovo ceto”.Tuttavia, il sopraggiungere della crisi del 29 e el nazismo interruppero questi tentativi.
La Carta del Quarnaro di D’Annunzio e di De Ambris introdusse in Italia, riallacciandosi agli statuti delle antiche città adriatiche, l’idea, presente anche nell’art. 165 della Costituzione di Weimar, di una partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese e dello Stato, ricalcata sull’ idea di Toniolo, di associazione fra capitale e lavoro.
Il fascismo sviluppò nella sua massima estensione il concetto corporativo, a cui aderirono pensatori e sindacalisti di tutta Europa, facendone uno dei cardini del proprio sistema. In occasione del congresso corporativo di Ferrara, Ugo Spirito lanciò la sua idea della Corporazione Proprietaria, che costituì poi la base occulta del modello socialista jugoslavo.
Nella sua fondamentale opera “Der Arbeiter” (“L’Operaio”), Ernst Juenger teorizzò, espandendo idee del marxismo e del “socialismo prussiano”, la nascita, con la “Mobilitazione Totale” industriale bellica, di un nuovo tipo di uomo, un gigante mezzo uomo e mezzo macchina, il “Post-Uomo” che avrebbe dominato la nuova era. A questa specie di cyborg corrispondeva, sul piano politico, un nuovo tipo di Stato, lo “Stato Nazionale del Lavoro”, incarnato, nel 1927, dai due modelli sovietico e italiano. E, in effetti, nell’ immaginario collettivo, bolscevismo e fascismo furono accomunati nella loro idea di “nazionalizzazione delle masse” attraverso il completamento della rivoluzione industriale e la creazione dello Stato sociale.
Nel Manifesto di Verona venne proclamato il principio della socializzazione delle imprese, poi realizzato legislativamente negli ultimi giorni della Repubblica Sociale.
Buona parte delle classi dirigenti della sinistra postbellica furono allevate dai “fascisti di sinistra” operanti nel campo del sindacalismo (come De Ambris), e intorno al Ministro Bottai, e, in particolare, la sua rivista “Primato”, o a Cinecittà. Basti pensare a Malaparte, Ingrao, Pajetta, a Napolitano, a Fo. Anche i teorici del federalismo europeo, come tutta Giustizia e Libertà, e, in particolare, Adriano Olivetti, furono ispirati dal corporativismo, proprio nella sua forma della Corporazione Proprietaria e della Socializzazione. I progetti della Resistenza (come quelli di Galimberti, Spinelli, Het Parool e Libérer e Fédérer), contenevano accenni al corporativismo (avversione per la partitocrazia, socializzazione delle imprese strategiche).
Subito dopo la IIa Guerra Mondiale,nonostante la sconfitta dell’ Asse, le corporazioni vennero introdotte in Olanda, Spagna e Portogallo, mentre la Jugoslavia socialista adottava in pratica, sotto i nome di “autogestione sociale”, tutti i principi della Corporazione Proprietaria (OOUR, Federazione di Organizzazioni di Lavoro Associato), della rappresentanza corporativa e del Federalismo Integrale, poi imitati in altri Paesi ”socialisti”, come per esempio l’Algeria.
In Olanda, l’ordinamento corporativo si fondava su un’organizzazione complessa, avente al vertice la Fondazione del Lavoro (“Stichting van de Arbeid”), e il Consiglio Economico e Sociale (“Sociaal- Economisch Raad”), sulla falsariga del Reichswirtschaftsrat in dem Arbeitgeber und werkschaften vertreten sind e, alla base, le Corporazioni (“Bedrijf- en Produktschappen”).
Molti principi del diritto del lavoro contenuti nella Costituzione Italiana, e in gran parte mantenuti nel diritto del lavoro postbellico, provengono dalla Carta del Lavoro fascista, di cui riprende la terminologia (“lavoro”; “giusto salario”;”contratto collettivo valido erga omnes” “responsabilità sociale dell’ impresa”, “lex favorabilis”).
Nel 1952, in Germania, per evitare l’acquisizione forzata delle aziende da parte delle imprese dei Paesi vincitori, venne introdotta, dal Governo democristiano, una cogestione delle imprese estremamente pervasiva, simile a quella del Manifesto di Verona, che è tutt’ora in vigore, e che è stata imitata praticamente in tutta Europa (paradossalmente, salvo che l’Italia, madre della socializzazione, ma che, nel dopoguerra, non ne ha più neppure voluto parlarne).
La Democrazia Cristiana fu particolarmente attiva nelle politiche sociali, allineandosi così sulle Encicliche Sociali. Basti ricordare lo Statuto dei Lavoratori, votato dalla DC e approvato con l’astensione dei Comunisti.
Anche la politica del lavoro gollista fu basata sul principio della cogestione delle imprese, oltre che su altri simili principi “corporativi”.
Non parliamo dei moti del ’68, che non furono solamente progressisti, bensì conobbero anche, soprattutto nelle università di Roma, di Perugia di Messina e Reggio Calabria, un’ampia gamma di espressioni alla tradizioni della Destra Sociale, in particolare con le riviste “L’Orologio” di Luciano Lucci Chiarissi e “Nuova Repubblica” di Giano Accame, nata dall’omonima ala scissionista filo-gollista del Partito Repubblicano, quella di Randolfo Pacciardi.
Buona parte del diritto sociale europeo è dipendente storicamente dai principi della cogestione, della partecipazione e del sindacalismo. D’altronde, dobbiamo le assicurazioni sociali e l’Ordinanza sull’Orario di Lavoro, al II° Reich; l’Opera Maternità e Infanzia, al fascismo; i Contratti Collettivi validi erga omnes, alla Carta del Lavoro; le Case INA, a Fanfani, i Comitati Economici e Sociali all’ Anti-Revolutionair Partij olandese; la cogestione ad Adenauer e De Gaulle. Senza contare il peso che il Peronismo ha esercitato sul pensiero sociale di Papa Francesco.
Lo stesso discorso vale per l’ambientalismo,nato con Thoreau, Ruskin, Arnold e i Wandervoegel, come protesta contro le brutture dell’ industrializzazione, proseguito sotto il Nazismo, come ritorno al Sangue e alla Terra, e ripreso da intellettuali conservatori, come Améry, Bahro, Jonas, Lorenz e Eibl-Ebersfeld, e, infine, teorizzato dall’Enciclica “Laudato sì”.
La riunificazione dell’ Europa dopo la caduta del Muro di Berlino avvenne innanzitutto sotto la spinta del sindacato polacco Solidarnosc, fortemente influenzato da Papa Giovanni Paolo II e dalla Chiesa polacca.Nello stesso modo, la nascita di un Islam politico democratico, e, quindi, dell’ Euroislam, ha conosciuto la spinta sociale di partiti come i Fratelli Mussulmani e l’AKP, fortemente radicati nei corpi intermedi.
La dottrina politica dell’Unione Europea si fonda sui concetti conservatori di “stabilità” , “pluralismo”, ”sussidiarietà” e “solidarietà”; la sua legislazione comprende direttive sulla partecipazione dei lavoratori e sui Consigli di Fabbrica Europei, tratti dalle tradizioni del corporativismo cristiano e dalla prassi della Mitbestimmung tedesca.
Si può dire così che buona parte del patrimonio ideale, concettuale, politico e legislativo del “sociale”, vantato come proprio dalla sinistra, e divenuto parte integrante della sua egemonia, sia in realtà oggetto di un’appropriazione culturale rispetto a preesistenti culture politiche. E, ancor oggi, le retoriche delle istituzioni nazionali ed europee, ivi comprese quelle del pensiero unico e del post-umanesimo, non sono altro che una scimmiottatura riduttiva, dogmatica ed ossessiva dei temi storici della “Destra Sociale”: ambientalismo, solidarismo, interclassismo, elitarismo, stabilità sociale, Stato etico…
Per questo, la “Destra Sociale”, anziché rappresentare, come vorrebbero i luoghi comuni, una forma di “estremismo”, costituirebbe il reale “mainstream” della cultura europea del sociale, se non fosse oscurata dalle convergenti narrative di diverse lobbies antieuropee: quella post-marxista, quella post-umanista quella californiana…
3.La politica sociale non può neppure cominciare senza una “difesa del lavoro nazionale”
Esula da tutte le tradizioni sociali europee, ivi comprese quelle marxiste,l’idea dell’ assistenzialismo (centrale invece nel dibattito sul Reddito di Cittadinanza e sul Salario Minimo), ovvio corollario dell’accettazione del principio liberistico dell’inevitabilità della disoccupazione, che, invece, gli Stati Nazionali del Lavoro non ammettevano, poiché il lavoro era, per essi, non già un diritto, bensì un dovere, in vista della Mobilitazione Totale.
Né le politiche sociali marxiste, né quelle antimoderne, hanno perciò mai posto al loro centro l’assistenzialismo, che è solo l‘effetto indiretto di una cattiva gestione dell’ economia (le “market failures”, a cui, perfino secondo i liberisti, lo Stato deve rimediare con il proprio intervento). Si è condannati a fare assistenza quando non ci sono, come oggi, né lavoro, né partecipazione, sicché i cittadini si trasformano tutti gradualmente in “nuovi poveri” e, poi, in potenziali “Gilets Jeaunes”.
L’economia è stata mal gestita per molti decenni, non soltanto in Italia, ma in tutta Europa, per effetto di ideologie e politiche mistificatorie, come il liberismo e la lotta di classe, impostesi in Europa dopo la IIa Guerra Mondiale, paradossalmente proprio in un’era di gestione politica dell’ economia in tutto mondo (e in primis negli Stati Uniti, che si pretendono liberisti), a partire dal Piano Marshall, per arrivare al DARPA, all’aiuto allo sviluppo, all’ antitrust, dalle tecnologie duali, al Trading with the Enemy Act, alle sanzioni, al “de-risking”, al “friend-shoring” (senza contare le politiche del blocco socialista e dei Paesi in Via di Sviluppo)….Solo l’Europa postbellica aveva sempre sdegnosamente rifiutato di condurre questo tipo di politiche. Ora le conduce “perché ce lo chiede la NATO”, per contrastare le “influenze maligne” delle “Autocrazie”.
La Terza Guerra Mondiale oramai avviata ha portato comunque alla rivalutazione dei vecchi concetti (mai abbandonati nella sostanza) dell’ Economia Nazionale, del controllo politico e militare sull’ economia, dei sussidi e dei divieti, delle collaborazioni pubblico-privato e civile-militare, delle politiche industriali nazionali, dei consorzi obbligatori : nella terminologia di Lenin, il”socialismo di guerra”, in quello di Kalecki, il “keynesismo militare”. In questo contesto , anche le politiche sociali non possono non assumere una connotazione “nazionale”: i posti di lavoro si creano sostenendo la competitività del “sistema Paese” nei confronti del resto del mondo. Per esempio, favorendo una cultura tecnologica nazionale, la nascita di nuove imprese nazionali in aree strategiche e la difesa di quelle esistenti. Nella presente fase, ciò deve avvenire in un contesto europeo, come avvenuto in passato con l’Ariane, l’Eurojet, l’Eurofighter, i Corridoi Europei, l’Airbus, Galileo…
IL Governo Meloni si è fatto recentissimamente portatore di questo keynesismo militare, attraverso lo stravolgimento dei patti parasociali della Pirelli, la tassazione degli extra-profitti delle banche e l’intervento diretto del Ministero delle Finanze nella rete telefonica nazionale per controbilanciare l’azionariato francese ed americano.
Purtroppo, abbiamo assistito negli ultimi decenni a operazioni catastrofiche di segno opposto, come la distruzione dell’ Olivetti e del Concorde, il boicottaggio di Eurofighter e EADS, la difesa oltre i limiti del ragionevole dei monopolisti americani dell’ informatica, la cancellazione della FIAT..
Queste attività di sabotaggio antieuropeo continuano tutt’ora, con la svendita ai Russi di Togliattigrad e con l’acquisto, da parte di ESA, del lanciatore SpaceX di Elon Musk in luogo della paneuropea Ariane. Per non parlare degli effetti catastrofici per l’ Europa delle sanzioni contro mezzo mondo e del “decoupling” dalle economie russa e cinese, effetti che si stanno vedendo in questi giorni con la decrescita in Germania, colpiti dalla riduzione degli affari con la Cina e con la Russia.
Poi ci si stupisce della scarsità di posti di lavoro altamente qualificati e del dilagare di attività da terzo mondo (l’”economia da bar”), come i balneari (in cui vorremmo fare concorrenza sui prezzi all’ Albania) e il bracciantato agricolo, principale stimolo all’immigrazione clandestina! I posti da grande finanziere internazionale, un tempo ambiti dai “capitani di ventura” italiani; di supermanager come Mattei, Romiti, Marchionne; di scienziati internazionali come Marconi e Fermi; di grandi imprenditori come Olivetti, Versace, Armani, lo stesso Berlusconi; quelli di intellettuali internazionali come Puccini, Toscanini, Montessori, Fellini, Visconti, Antonioni, Eco, sono oramai prerogativa di quei Paesi che sostengono maggiormente i loro talenti, con un’adeguata “advocacy”, più necessaria che mai in un mondo di lobby internazionali, di “soft power”, di disinformazione e di trolls: America, Cina, India, Israele..L’Europa non è più un posto per giovani, né tanto meno per giovani laureati.
Siamo stati testimoni di questo progressivo declassamento, avendo lavorato all’ internazionalizzazione dell’ industria italiana per i gruppi CIR e FIAT, su progetti come Togliattigrad, FIAT Polski, Eurojet, Eurofighter, Airbus, Ariane, Vega.., gradualmente liquidati da politiche antinazionali ed antieuropee, come la cessione dell’ Olivetti alla General Electic, l’acquisto dei F35 americani, lo smantellamento dell’EADS…
In questa situazione, nessuno, né la sinistra, né la destra, è in grado di offrire concretamente ai nostri giovani dei posti di lavoro all’ altezza delle nostre tradizioni, della nostra cultura, delle ambizioni e dei sacrifici delle nostre famiglie. Esistono solo più posti da entertainer, baristi, camerieri, bagnini.
Stupisce solamente che movimenti come quello dei “Gilets Jaunes” non siano più frequenti.
Una destra veramente sociale dovrebbe quindi cominciare dalla creazione, con una politica proattiva, di posti di lavoro nei settori strategici. E’ tanto bello parlare di un nuovo “Piano Mattei”, ma Mattei andava in giro per il mondo a combattere per l’economia italiana, per dare, come egli diceva, “un posto al sole” all’ Italia, e per questo fu ucciso. I nostri attuali governanti sono disposti a rischiare la loro vita per il futuro dei nostri giovani, difendendo le nostre aziende nel mondo, applicando coerentemente l’antitrust e la legislazione fiscale, sostenendo la tecnologia nazionale con adeguate politiche interventiste? Parliamo di industrie informatiche, di finanza internazionale, delle stesse industrie culturali.
Invece, si preoccupano di aggiungere le beffe al danno, accettando di fare, del patrimonio culturale nazionale, lo scenario di una pagliacciata quale il preannunziato incontro di arti marziali fra Musk e Zuckerberg. Ma “oportet ut scandala eveniant”: così si metterà in scena lo spettacolo realistico di un’Italia di “superbe ruine” pura scenografia, sullo sfondo del quale si scontrano i veri poteri del mondo:”il disprezzo insito nella richiesta di umiliare l’Italia a set di polistirolo”, come scrive Gianni Riotta, il quale conclude giustamente:”Passeggiare nelle nostre città, da Venezia a Siracusa, lascia già temere che un modello di sviluppo affidato solo al turismo svuoti per sempre i centri storici di cittadini, artigiani, artisti, famiglie lasciando solo fast food, Airbnb, bancarelle, kitsch”.
4.Quali programmi per una Destra Sociale?
Nel nostro opuscoletto, ci siamo permessi di suggerire a tutti gli schieramenti presenti nel Parlamento Europeo per riprendere vitalità, ritornando ai fondamentali, vale a dire alle esigenze per cui, secoli fa, essi erano nati. Questo vale a più forte ragione per una “Destra Sociale”, le cui radici (Classicità, Medioevo, corporazioni, Encicliche Sociali, Gaullismo, partecipazione) si confondono con la storia stessa dell’ Identità Europea.
Una volta rovesciate le politiche economiche antinazionali e antieuropee degli ultimi 50 anni, occorrerebbe, per l’Italia, accingersi anche a raggiungere gli altri Paesi d’Europa nel campo del diritto sociale, avvicinandoci a quel “modello renano” -di origine corporativa, democristiana e gollista-, dominante in tutta Europa, e di cui i partiti socialisti, in assenza di idee proprie, si erano arditamente appropriati per un certo periodo, e che è stato poi abbandonato anche da questi ultimi negli ultimi decenni: Commissariat au Plan, salario minimo, politica dei redditi, dialogo sociale, federalismo integrale, partecipazione alla gestione e agli utili delle imprese.
Gli esempi legislativi non mancano in tutta Europa: Comitato Economico e Sociale, Centre d’Analyse Stratégique, France Stratégie, Institut fuer Wiederaufbau, Betriebsverfassungsgesetz, Mitbestimmungsgesetz…
In campo ambientale, occorrerebbe mettere in pratica quanto accennato nella “Laudato sì”, in particolare un’ecologia che non fosse il puro e semplice “greenwashing” di interessi finanziari internazionali, di cui la propaganda ecologistica costituisce troppo spesso una semplice funzione di marketing, bensì una “ecologia profonda”, o “ecologia dell’ anima”.Certo, non una politica ecofobica quale caldeggiata da taluni nelle destre europee.
Sul piano della prassi politiche, ciò dovrebbe passare attraverso la presa sotto controllo dei movimenti sociali di contestazione del sistema, a partire dal Movimento Europeo, da quelli studenteschi, dai sindacati e dai movimenti ecclesiali, per rivendicare la trasformazione dell’Unione Europea in un vero Stato-civiltà; l’introduzione di sistemi capillari di partecipazione a tutti i livelli; la difesa da parte dell’ Unione, dell’economia continentale, e, in particolare, la creazione di Campioni Europei nei “settori di punta”. Insomma, per usare un’espressione cara un tempo all’ On.le Alemanno: “Italia, Europa, Rivoluzione!”
Come tutto ciò possa sposarsi con le politiche parlamentari italiana ed europea, e, in particolare, con le tattiche elettoralistiche dei partiti di destra in vista delle elezioni europee (cfr. nostro volumetto”Elezioni 2024, I partiti europei nella tempesta”), è ancora tutto da vedere.
Tuttavia, proprio se, come afferma l’on.le Alemanno, questo rilancio vuol essere più ambizioso che non una pura manovra pre-elettorale, esso non può prescindere da un preliminare lavoro culturale, che dipani questa complicata matassa di radici e di rapporti, per renderla utilizzabile oggi, nell’ era delle macchine intelligenti.E questo lavoro dovrebbe interessare intellettuali di tutto l’attuale e fatiscente “arco politico”: infatti, il diritto sociale costituisce una parte importante della identità, tradizione, storia, società ed economia europee, senza il quale non si può progettare alcuna politica seria, nessuna uscita dall’ attuale palude!
Se e nella misura in cui questo sforzo ci sarà, siamo interessati a parteciparvi, contribuendo a riscoprire quest’intero mondo sommerso, su cui poggiano comunque le basi delle nostre società europee.