PROGRAMMA “CANTIERI D’ EUROPA”: 9 NOVEMBRE 2021
ore 10:00-13:00
60° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI MARIO TCHOU
Allora e oggi: L’informatica in Piemonte e in Europa,
una riflessione per la Conferenza sul Futuro dell’ Europa
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BIBLIOTECA GINZBURG, Via Lombroso 16, Torino
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Con la collaborazione di:
-Movimento Europeo;
-Olivettiana;
-ANGI
-Rivista “Culture Digitali”
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PROGRAMMA
Ore 10,00:Inizio dei lavori; Saluti dei promotori e delle Autorità
Ore 10,45: Intervento di Pier Virgilio Dastoli sulla Conferenza sul Futuro dell’ Europa
Ore 11,00: Galileo Dallolio (associazione “Olivettiana”) New Canaan (Usa) , Elea 9003 e Programma P101:
Adriano Olivetti, Mario Tchou, Roberto Olivetti e Pier Giorgio Perotto
dal 1952 al 1965.
Ore 11,20: Roberto Saracco, Il digitale ieri e oggi
Ore 11,40 Germano Paini, L’impatto-tecnoculturale
Ore 12,00Contributi dei rappresentanti delle Istituzioni
Ore 12,20 Domande e dibattito
Per qualunque problema, tel. 3357761536
Sulle pagine de “La Repubblica” del 4 Novembre, Massimo Cacciari ha lanciato giustamente una polemica circa l’”i ncompetenza” dei cosiddetti “tecnocrati” che reggono le sorti di molti Paesi, e, “in primis”, dell’Italia, e sono esaltati, invece, dal “mainstream”, come il sommo vertice della competenza.
Mentre ci riserviamo d’intervenire con maggiore profondità su quell’ articolo, ci limitiamo qui a ricordare ai nostri quattro lettori, un evento, che ricorre domani, che può aiutarci a chiarire la problematicità delle “competenze” nella società europea contemporanea: il sessantesimo anniversario della drammatica morte di Mario Tchou, responsabile della progettazione dei computer Olivetti e personaggio emblematico di tutta una stagione dell’economia italiana, caratterizzata dallo sforzo di imprenditori e manager (Olivetti, Mattei, Ippolito) per conseguire eccellenze tecnologiche italiane, capaci di contendere i mercati internazionali alle industrie delle grandi potenze, e, in primis, di quelle americane.
Si trattava di “super-competenti” (tanto dal punto di vista della cultura , quanto da quello dell’economia e della politica) che avrebbero dovuto, e voluto, riorientare la società italiana verso un adeguato equilibrio fra formazione umana e potenza tecnologica, ma che invece, purtroppo per noi, furono prematuramente stroncati prima di poter realizzare i loro obiettivi.
Anche Olivetti, Mattei ed Ippolito si situavano dunque a cavallo fra tecnica e politica, sì che sarebbero stati perfetti per un “governo dei competenti” quale auspicato da Cacciari; purtroppo, non erano riusciti ad orientare la società italiana; anzi, furono sonoramente sconfitti. In particolare, il modello olivettiano era tutto finalizzato a creare una sintesi politica nel senso alto fra una cultura poliedrica e le più avanzate tecnologie.
Quella stagione si concluse quindi tragicamente per i suoi protagonisti, stritolati fra i poteri forti occidentali e l’establishment italiano, che, dal dopoguerra, ha basato tutta la propria strategia sulla svendita dell’economia nazionale (sia essa “pubblica” o “privata”), ricevendone in cambio la protezione dei privilegi consolidati e un “soft landing” finanziario all’ estero.
1.Divisione internazionale del lavoro e tecno-nazionalismo
Come ricorda Giuditta Parolini nella sua tesi di dottorato su Mario Tchou, “E’ un dato di fatto che l’economia italiana per decenni è cresciuta senza produrre innovazione. Non tutti ritengono che sia un problema. Lo storico David
Edgerton, critico di quella che chiama una visione “innovation-centric techno-nationalist”, usa proprio il caso italiano per sostenere la sua argomentazione:’Negli anno Ottanta, l’Italia ha superato la Gran Bretagna per guadagno pro-capite (…).In un mondo ispirato dal tecno-nazionalismo era letteralmente incredibile che l’ Italia fosse diventata più ricca della Gran Bretagna pur spendendo molto meno della Gran Bretagna in ricerca e sviluppo.”
Parolini contrappone alle tesi di Edgerton degli ottimi argomenti:“Quanto scritto da Edgerton nel 2006 oggi solleva molti interrogativi alla luce della crisi che ha colpito le economie europee. Paradossalmente sono proprio nazioni quali Spagna e Italia a soffrire di più. Attribuirne tutta la colpa al sistema di sviluppo senza innovazione su cui hanno basato la loro fortuna è certo eccessivo, ma è altrettanto legittimo chiedersi se una diversa attitudine per la ricerca e sviluppo non avrebbe potuto dare a queste nazioni strutture più dinamiche e un capitale umano in grado di facilitare la ripresa.”
Basti pensare alle esperienze, in quegli stessi anni, di Francia e Israele in campo nucleare, al Concorde, a Minitel, ad Ariane, al TGV.
L’autrice cita a questo proposito Luciano Gallino: “L’attività di ricerca e sviluppo da cui nasce una tecnologia è di per sé un’attività ad alta intensità di lavoro e di conoscenza. La fabbricazione industriale di prodotti ad alta tecnologia è anch’essa ad alta intensità di lavoro. L’impiego di una tecnologia proprietaria consente di generare in tutta la filiera del processo produttivo un valore aggiunto più elevato”.
2. La svendita della Divisione Elettronica
Il punto di vista degli “occidentalisti” sulla Olivetti era stato espresso icasticamente da Vittorio Valletta nel 1964: “La società di Ivrea è strutturalmente solida e potrà superare senza difficoltà il momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inseriti nel settore elettronico, che nessuna azienda italiana può affrontare”. Per questo motivo, come aveva scritto Lorenzo Soria, l’Olivetti venne svenduta alla GE, la quale per altro l’aveva acquistata solo per “ordini di scuderia” del Dipartimento di Stato, perché, come implicato dal libro di Paolo Fresco, che aveva negoziato l’acquisto, non interessata a quel mercato, tanto che essa aveva rivenduto subito dopo la divisione alla Honeywell. Nel frattempo, la Olivetti (forse illegalmente, perché la divisione era stata ceduta) era riuscita a vendere in America ben 44.000 calcolatrici(ori) P101.Questo per dire che la Olivetti era un’impresa che andava benissimo grazie alle sue competenze, anche senza l’appoggio, né della proprietà, né dello Stato.
Certo, visto che l’informatica non sarebbe divenuta un settore di alti profitti se non trent’anni dopo, con il “capitalismo della sorveglianza”, si sarebbero dovuti superare alcuni decenni durissimi, per i quali effettivamente si sarebbe richiesto un pesante intervento dello Stato, che avrebbe potuto venire solo da un “progetto europeo”, come Panavia, Airbus ed Arianespace, che pure si fecero in quegli anni. Si sarebbe soprattutto passare dalla produzione del hardware a quella del software, dall’informatica alla cibernetica, dalla produzione di sistemi a quella di servizi, e da questi agli ecosistemi.
3.Una scelta esistenziale
La scelta fra il “laissez-faire” e il “tecno-nazionalismo” deriva innanzitutto da scelte antropologiche e politiche a monte. Il “tecno-nazionalismo”, esaltato tra gli altri da Servan-Schreber e da Glotz, Seitz e Suessmuth, oltre che da Edward Luttwak, prende le mosse da una valutazione “forte” del legame sociale, inteso in primo luogo un progetto di civiltà. I “tecno-nazionalisti” sono convinti che, pur all’ interno della visione scettica tipica della modernità, l’Umanità meriti ancora di proseguire, e, pertanto, che anche la singola persona abbia delle ragioni per garantire una continuità di idee, di affetti, e perché no, anche di istituzioni e di sangue. Il che non significa solo Nazione, ma anche e soprattutto famiglia, impresa, città, tradizioni, Continente. Orbene, nella società post-industriali, queste forme di continuità sono rese possibili solo dal possesso delle nuove tecnologie, in quanto i poteri forti condizionano tutte le società, proprio tramite le tecnologie, nella direzione dell’ omologazione e dalla meccanizzazione della vita. S’impone agli altri un Kulturkampf tecnologico .
Il liberista o il terzomondista, che considerano peccaminoso il tecno-nazionalismo perché mira a rafforzare la propria azienda, il proprio territorio, il proprio Paese, nella concorrenza internazionale, sono in fondo dei nichilisti e degl’ipocriti, che sanno benissimo che le grandi Potenze praticano il tecno-nazionalismo fino a livelli impensati (il “keynesismo militare” di Kalecki); e, tuttavia, ritengono (in buona o in cattiva fede), che, per l’ Europa, sia meglio non imitarli, sia perché le risorse impiegate per la ricerca e sviluppo (come quelle per la Difesa) potrebbero essere invece usate per incrementare i consumi, sia perché una corsa agl’investimenti tecnologici porta con sé un accrescimento delle conflittualità, con rischi per la stabilità dei rapporti sociali consolidati. L’azienda, il paese, la nazione, perfino la famiglia, sono, per costoro, delle realtà transeunti, da subordinare al quieto vivere, e, soprattutto, alle gratificazioni immediate degl’individui. Per essi, il modello ideale sono le “trente glorieuses”, in cui gli Europei campavano, anche se ingloriosamente, costruendo automobili, producendo moda, gestendo alberghi e spiagge per i miliardari americani e le dive di Hollywood, mentre gli Americani (e i Sovietici) andavano nello spazio.
Di converso, per i “tecno-nazionalisti”, ad alimentare la volontà d’ innovazione tecnologica e sociale è proprio quella “corrispondenza di amorosi sensi” con i morti e con i non ancora nati, che dà l’entusiasmo di vivere e di lottare. Non per nulla il movimento di Olivetti si chiamava “Comunità”, ed aveva, come simbolo, una campana, dimostrando le proprie fortissime radici personalistiche, localistiche e tradizionalistiche.
Non diversamente che nel mondo naturale, anche in quello umano tutto si sviluppa conquistando nuovi spazi. Nel mondo contemporaneo, dove la guerra è più rara perché più micidiale, quest’espansione si realizza essenzialmente attraverso l’economia, e sempre più la tecnologia. La “Search of Excellence” tanto esaltata, negli anni ’80 e ’90, dalle teorie di management, altro non era se quella scienza che studiava la conquista dei mercati grazie all’innovazione tecnologica e sociale all’ interno della “Società della conoscenza”.
Dopo la IIa Guerra Mondiale, gli Stati Uniti (definiti proprio per questo una nazione giovane, che traina il mondo intero) hanno perseguito in tutti i modi la superiorità politica ed economica attraverso l’innovazione sociale (la grande impresa, l’organizzazione tayloristica-fordista, l’economia creditizia, la bomba atomica, le Conferenze Macy, il fall-down tecnologico, la common law, la rivolta di Berkeley, la globalizzazione, la finanziarizzazione, l’informatica, l’ideologia californiana…).
Hanno imitato gli Stati Uniti quei Paesi che aspiravano (ed aspirano) a non essere fagocitati nel “soft power” americano (URSS, Israele, Giappone, Francia, Germania, e, oggi, Cina),perché presumono di avere un messaggio storico alternativo da tramandare ( il mondo delle steppe, il monoteismo, la saggezza orientale, la Rivoluzione Francese, la cultura mitteleuropea, il “socialismo con caratteristiche cinesi”), i quali sono stati costretti, dal meccanismo della “rivalità mimetica”(Girard), a “clonare” almeno taluni aspetti del sistema americano (l’industria militare, la militarizzazione della società, il fall-out tecnologico, le Public Companies, le industrie digitali).
4.Un declino inevitabile
Dal punto di vista dei risultati a lungo termine, le due scelte non sono indifferenti. La strada dei prodotti di consumo a basso contenuto tecnologico (vetture utilitarie, turismo, moda) percorsa deliberatamente da Italia e Spagna ha portato (come si prevedeva), dopo i primi 30 anni dalla fine della guerra, alla fuga da questi Paesi dei capitali nazionali, degl’intellettuali e dei tecnici innovativi, delle imprese importanti, dei posti di lavoro. Un invecchiamento generale della società.
Non per nulla questa strategia era stata predicata, praticata e perfino imposta al mondo industriale di gran parte d’ Europa, espressamente per non fare ombra ai colossi americani (come risulta dalle documentate pressioni in tal senso, descritte ancora in opere recenti). E se ne vedono i risultati. Questa “linea politica”, controintuitiva e tirannica non meno di quelle imposte a Est dal Comintern e dal COMECON, dava luogo a situazioni paradossali, spiegabili solo con un eccesso di conformismo. Un ricordo personale: i Servizi Legali della FIAT avevano realizzato, negli Anni ’70, un’indagine fra i cosiddetti “capi-settore”, cioè gli Amministratori delegati delle 12 sub-holding del Gruppo, sull’ importanza dei brevetti, da cui era emerso che nessuno di essi li considerava importanti, preferendo evidentemente, o copiare, o pagare delle licenze, o infine, usare tecnologie obsolete. La realtà sul campo era ancor più stupefacente. Infatti, quando, al Settore Componenti aveva realizzato un’indagine lievemente diversa, vale a dire quella del bilancio tecnologico fra tecnologia acquisita dall’ esterno e tecnologia licenziata a terzi, era risultato che, in realtà, tale bilancio era positivo: la componentistica FIAT in realtà cedeva all’ esterno più tecnologia di quanta ne comprasse, e questo dimostra ch’essa generava, al suo interno, tecnologia nuova. Come si spiega siffatto paradosso se non con il conformismo dei vertici aziendali, che, per essere più realisti del re, fingevano addirittura di essere più arretrati di quanto in realtà già lo fossero?
5.Olivetti, Mattei, Ippolito (e Tchou) in controtendenza
Olivetti, Mattei e Ippolito, pur essendo ben introdotti nella logica dei “poteri forti” dell’era della Guerra Fredda, avevano deciso di non stare al gioco, anzi, avevano sfidato quel “mainstream” rinunciatario. Tchou, che era un giovanissimo professore ancora in aspettativa in America, lo aveva detto con chiarezza nella sua intervista del 59 di Paese Sera:“Attualmente possiamo considerarci allo stesso livello (dei nostri concorrenti) dal punto di vista qualitativo. Gli altri però ricevono aiuti enormi dallo Stato. Gli Stati Uniti stanziano somme ingenti per le ricerche elettroniche, specialmente a scopi militari. Anche la Gran Bretagna spende milioni di sterline. Lo sforzo della Olivetti è relativamente molto notevole, ma gli altri hanno un futuro più sicuro del nostro, essendo aiutati dallo Stato.”La Olivetti, invece, anziché vendere i propri computer allo Stato a caro prezzo, li aveva perfino regalati.
Nel 1958, il Governo americano aveva fondato DARPA, il famoso Ente militare per il finanziamento delle tecnologie “duali”, che, proprio nel 1960, aveva cominciato a finanziare DARPANET, il primo Internet.
Olivetti stava lavorando a una trasformazione dell’ Olivetti secondo il modello tedesco dell’”impresa di Stakeholders”, un’associazione fra Politecnico di Torino, comune di Ivrea, una fondazione di lavoratori e la famiglia Olivetti, non diversa da quello che sono oggi, grazie alla cogestione, la Volkswagen, la Daimler e la BMW. Il 28 luglio 1960 era entrata in vigore la Volkswagengesetz, grazie a cui la più grande impresa automobilistica (che domina, tra l’altro, il mercato cinese), è diretta congiuntamente dal Governo, dagli azionisti, dai manager, dai lavoratori e dalle banche. Come dimostrato dall’ enorme peso che la sindacalista italo-tedesca Cavallo sta avendo nel conflitto con il vertice aziendale.
Queste anomalie non potevano essere tollerate, né a Roma, né a Torino. Gli Stati Uniti avevano più volte fatto pressione sul Governo perché bloccasse le iniziative di Mattei (che morrà anch’egli, in un attentato, nel 1962). Nello stesso tempo, in Italia, anziché la trasformazione dell’ Olivetti in fondazione, si era verificato l’ingresso nel capitale sociale del Gruppo d’Intervento capeggiato da Mediobanca, con il passaggio in minoranza della Famiglia Olivetti. In quell’occasione, il Professor Valletta, presidente della Fiat, aveva pronunziato la famosa frase sulla necessità di “estirpare la Divisione Elettronica, perché l’ Italia non se la poteva permettere”.
6.Il ruolo di Tchou
Valletta non aveva poi tutti i torti.
Innanzitutto, gli Stati Uniti non avevano alcuna intenzione di permettere la nascita di concorrenti nell’ industria informatica.
In secondo luogo, senza l’ Europa, l’Italia non avrebbe potuto sostenere il costi di una corsa all’ informatica. Oggi, perfino gli USA sono stati costretti ad adottare una legislazione ben più coercitiva per costringere i vari segmenti della società americana a cooperare alla rincorsa della Cina in campo digitale.
Infine, l’ Italia non aveva neppure tutte le competenze necessarie.
Mentre le prime due carenze non si rivelarono superabili, alla terza Olivetti aveva cercato di porre rimedio attraverso Mario Tchou, un italiano anomalo (soprattutto per quei tempi): un italo-cinese di seconda generazione, specializzato in America, dov’era diventato professore giovanissimo.
Nel fare ciò, Olivetti era stato incoraggiato da Enrico Fermi. Un altro innovativo professore italiano emigrato e ben inserito in America.
Infine, nel 1961, quando era risultato evidente a Roberto Olivetti, rimasto solo a proseguire l’ambizioso programma del padre, che non avrebbero trovato aiuto in Italia, i due avevano perfino tentato (secondo la giornalista americana Meryle Secrest, che vi aveva addirittura partecipato, un avventurosissimo contatto con la Cina di Mao, partendo da Hong Kong con lo yacht di Roberto, pochi giorni prima della morte di Tchou.
In effetti, Tchou, per quanto italianissimo e perfettamente inserito nell’ambiente culturale italiano, non aveva troncato per nulla i suoi legami con la Cina. Aveva ancora il passaporto cinese (a quell’epoca l’unico Stato cinese riconosciuto dall’ Italia era Taiwan), e in famiglia parlava cinese. D’altro canto, la sua famiglia, originaria di Hangzhou (città dedita quante altre mai al culto di Marco Polo), era di altissimo livello culturale; suo padre era stato imprenditore della seta e diplomatico.
Anche Mario Thou aveva un ampio spettro di interessi, ed era stato dispiaciuto di dover interrompere, per l’impegno alla Olivetti, la sua consuetudine di suonare al pianoforte.
Dalle ormai molte sue biografie, risulta ch’egli era un tipico “gentleman” d’una volta, un “junzu” per la terminologia confuciana. Qualità che gli giovava moltissimo, tanto nei rapporti interpersonali, quanto nella leadership del gruppo di lavoro ch’egli diresse, prima a Barbaricina, poi a Borgolombardo. Questo suo modo di fare, unito alla sua incredibile cultura e competenza, lo rendevano estremamente persuasivo, mettendolo in grado di chiedere al suo team le prestazioni più impossibili. Spirito di “team”, se vogliamo, “tipicamente cinese”, che gli sopravvisse, e trovò la sua più illuminante espressione dopo la sua morte e dopo la cessione della Divisione alla GE, quando il piccolissimo team dell’ ing. Perotto, in una stanza completamente circondata dallo stabilimento GE, riuscì a produrre come Olivetti, sotto la dicitura “Calcolatrice”, quello che in effetti era un calcolatore elettronico (quindi, ceduto alla GE), a venderlo in America in 44.000 esemplari e a vincere, infine, una causa milionaria con Honeywell per plagio.
7.Una nuova sconfitta del Piemonte: l’Istituto Italiano per l’Intelligenza Artificiale
Dopo 60 anni, c’ ancora qualcuno che non vuole che Torino rinasca come città delle alte tecnologie, perché non vuole che la transizione italiana ed europea verso il digitale abbia una testa pensante, bensì che resti una massa fluida e innocua, che non incide nella divisione internazionale del lavoro.
In contemporanea con le elezioni amministrative di Torino del mese scorso, il Governo ha elaborato infatti una nuova strategia per l’ IA, che smentisce integralmente i risultati a cui era pervenuta la lunga e faticosa elaborazione della precedente commissione di esperti, e, in particolare, cancella completamente, tanto l’ Istituto Italiano per l’ Intelligenza Artificiale, quanto la scelta di Torino quale sua sede.
Su tutto questo non c’è mai stato un articolo sui giornali di Torino, né una spiegazione, presa di posizione o polemica da parte di scienziati, candidati, industriali, eletti, partiti politici. Tutti d’accordo, tutti zitti, come ai tempi di Olivetti, Mattei e Ippolito (e Tchou).
Poco più di tre anni fa, nel settembre 2018, il Ministero per lo Sviluppo Economico Di Maio aveva pubblicato un bando per cercare esperti che redigessero la strategia italiana per l’intelligenza artificiale, che l’anno successsivo avevano presentato 72 raccomandazioni, poi diventate 82.
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Il 1 ottobre 2020 era partita una nuova consultazione pubblica della durata di un mese.Nel frattempo erano passati due anni dal primo bando per cercare gli esperti, con ben due consultazioni pubbliche sui documenti prodotti.Durante questo periodo si era parlato molto dell’Istituto e di quale città dovesse ospitarlo. Era stata Torino a spuntarla, forse anche per compensare la mancata assegnazione del Tribunale UE dei brevetti (andato a Milano). Nel novembre del 2020 il Governo aveva annunciato lo stanziamento di fondi per l’I3A di Torino.
Ora non è più il Ministero dello sviluppo economico a tirare le fila, bensì una collaborazione fra il Ministero dell’università e della ricerca, il Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale e il MISE, che costituiscono un nuovo gruppo di esperti, per redigere un documento “aggiornato”.
Il quadro tracciato non è roseo. L’Italia arriva in ritardo rispetto ai partner europei. Era il 2018 quando l’allora ministro dello Sviluppo economico aveva annunciato la pubblicazione di una strategia italiana per l’IA. Da quel momento si erano succeduti tre governi ed erano stati prodotti due documenti strategici, con relative consultazioni pubbliche, senza arrivare a una versione definitiva per far recuperare all’Italia il tempo perduto nella governance e nell’accelerazione dell’AI, sorpassata praticamente da tutti i partner europei (oltre che, ovviamente, da USA e Cina).
Nel frattempo, il Pentagono sta testando sistemi AI per ottenere allerte strategiche sulle azioni avversarie prima che queste avvengano. In altre parole, un sistema di AI predittiva che prevede le mosse del nemico per consentire azioni proattive, che ripercorre i passi del vecchio sistema sovietico con lo stesso scopo, che era stato bloccato nel 1983 dall’ eroico comportamento del maggiore Petrov.
Questa è la vera ragione dell’ incredibile ritardo: si aspettava che al governo negli Stati Uniti arrivasse Biden, per poter avviare il Transatlantic Technology Council, per poter inserire l’Intelligenza Artificiale italiana nella programmazione dell’ Endless Frontier Act, che stabilisce la nuova strategia digitale americana, che continua ad essere basata sull’ imperativo (avente forza di legge) della subordinazione degli ecosistemi digitali europei a quello americano.
Di tutto ciò, neppure la seppur minima indicazione da parte della politica. In queste condizioni, in cui nulla del nostro destino si decide con le urne, come stupirsi se l’enorme maggioranza degli elettori non va a votare?