LA BATTAGLIA PER IL LAVORO: IL PRIMO FRONTE NELLA LOTTA PER LA SALVAGUARDIA DELL’UMANO

  

Convegno di Sabato del 23 febbraio all’ Unione Industriale di Torino, Via Vela 17, ore 8,30

Fra le tante ragioni di confusione denunziate ogni giorno dalla cultura, dai media e dalla politica, la prima mi sembra costituita dall’ approccio meramente idiosincratico che viene usualmente adottato nell’ affrontare qualsivoglia questione. Si assume come solo metro di valutazione un unico “valore” (che, spesso, è solo un’impressione o un’emozione), per giunta sganciato da qualunque contesto, salvo le preferenze dello scrivente o della sua “constituency”, e poi si parte per la perorazione di una qualche causa pregiudicata già in partenza.

In particolare, nel valutare le trasformazioni epocali indotte dall’ avanzata delle nuove tecnologie, si adottano senz’alcun approfondimento i criteri più disparati e unilaterali: l’inarrestabilità del progresso, la sua divinizzazione o la sua maledizione; il piagnisteo sulla fine del lavoro di fabbrica, o quello sull’ arretratezza dell’Italia; la fiducia nelle capacità redentrici della Ragione, che alla fine salva sempre tutto e tutti, oppure in quelle della religione, del “mercato”, dell’ “Europa” o del “popolo”.

Per  riuscire vittoriosi nella lotta in corso per il controllo delle nuove tecnologie, occorre invece tener conto della complessità del mondo contemporaneo,  con un approccio “prospettivistico” del tipo di quello adottato da Hans Jonas nel suo “Principio responsabilità” (riallacciandosi a nostro avviso al pensiero di Moses Mendelsohn): ogni questione va vista nell’ ottica del soggetto che la vive, e che si pone il problema di affrontare le difficoltà che lo minacciano alla luce delle sue esigenze, carenze e desideri.

L’automazione indotta dall’ avanzata delle Macchine Intelligenti costituisce una questione epocale, che, come tale, investe pesantemente tutte le categorie dell’umano: quella religiosa come quella filosofica; quella scientifica come quella politica; quella economica come quella sociale; quella geopolitica come quella etica; quella biologica come quella strategica. Occorre perciò formulare un giudizio pertinente su ciascuna si queste componenti, al fine di trovare una soluzione a ciascuna delle questioni in campo.

In particolare, bisogna tener conto di quanto il mito della Fine della Storia costituisca il retaggio di una millenaria tradizione apocalittica; di come il significato del libero arbitrio cambi alla luce delle neuroscienze; di come la tecnica ecceda il significato della scienza e si trasformi in una rivoluzione politica; che l’economia digitalizzata non risponde , né a logiche capitalistiche, né socialistiche; quanto incidano, sulla “fine del lavoro”, la distinzione fra “paesi guida” e semplici “followers”; che il senso di solidarietà non possa più essere inteso solamente in senso pietistico, ma coinvolga anche la tutela dell’ identità, il “proprio dell’ umano”,  la “sovranità” degl’individui, dei corpi sociali e dei popoli.

L’ampia pubblicistica ormai esistente sul mercato su questo argomento è ben lungi dal rispondere adeguatamente a questa sfida, sicché si pone la questione di come incentivare la nascita di un’élite pensante, di una classe dirigente, di un’imprenditoria, di un sindacalismo e di una politica che pongano queste questioni al centro della loro attenzione.

Perciò, va preso atto con apprezzamento dello sforzo dell’ Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti (UCID), insieme all’ Unione Industriale di Torino, all’ Ordine dei Giornalisti e al mondo sindacale,  politico ed ecclesiale, nell’affrontare, con il convegno del 23 Febbraio, il tema della partecipazione dei lavoratori nell’era delle macchine intelligenti: un tema che si pone, appunto, all’intersezione fra tutte quelle tematiche, cercando di mettere a sistema le diverse sensibilità e competenze, per offrire ai decisori un quadro non banale.

Questo tentativo assume un significato particolare se si pensa al fatto che Torino è sede, da ormai più anni, della manifestazione internazionale “A&T”, dedicata inizialmente alla meccatronica, ma che ora si sta estendendo a ogni forma di automazione. L’edizione 2019 si è appena conclusa. Tra l’altro, Torino ha segnato molti momenti salienti della storia del diritto sociale, di cui citiamo solo la firma, fra CGL e CGI, del contratto collettivo sulle 8 ore, di cui ricorreva, il 20 u.s., il centesimo anniversario. Alpina Srl condivide in pieno questo sforzo, e se ne fa iniziatrice. Saremo presenti al convegno di sabato, e stiamo spingendo soprattutto perché esso non rimanga fine a se stesso, ma, invece, assuma un peso sempre maggiore, in particolare attraverso una serie coordinata di manifestazioni (un “cantiere” che sarà inserito, fra l’ altro, nel “Baustellen Europas” di Alpina al prossimo Salone del Libro di Torino), e attraverso un’opera collettiva che dia conto di questo percorso, alla quale speriamo diano il contributo tutte le componenti attive in questo dibattito.

In questo modo, speriamo di rinverdire le tradizioni della nostra città, quale capitale del diritto sociale in Italia.

INDUSTRIA 4.0: PARTECIPAZIONE E COGESTIONE DEI LAVORATORI NELL’IMPRESA NELL’ERA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Il convegno vuole costituire uno stimolo per la società civile italiana, di cui Torino è stata città simbolo in molte fasi delle sua storia, nell’ affrontare il tema, oggi sempre più attuale, della sfida che l’intelligenza artificiale pone alle forme consolidate di modello sociale europeo e di partecipazione nell’ impresa.

In particolare, si tenterà d’individuare un ruolo attivo per il mondo del lavoro nelle nuove forme di organizzazione economica (Impresa 4.0, Industria 5.0), con particolare riferimento alle evoluzioni legislative in Italia e in Europa e al ruolo delle parti sociali e dei pubblici poteri nel rispondere a queste sfide sui vari piani: culturale, legislativo e contrattuale.

L’attenzione su questi temi è stata riproposta anche dall’ enciclica “Laudato sì”, ultimo anello del corpus della Dottrina Sociale della Chiesa, sollecitando ulteriori riflessioni sull’Intelligenza artificiale e sulla inclusione del mondo del lavoro nell’economia informatizzata.

 

Sabato 23 febbraio 2019 – ore 8.30, Sala Piemonte

Centro Congressi dell’Unione Industriale, Via Vela 17, Torino

 Programma

Ore 8.30 Accoglienza e registrazione partecipanti

Ore 9.00 Saluti:

Massimo Richetti, responsabile Servizio Sindacale dell’Unione Industriale di Torino

Alberto Sacco, Assessore al Lavoro del Comune di Torino

Gianna Pentenero, Assessore al Lavoro della Regione Piemonte

Chiara Appendino, Sindaca di Torino

Relazioni introduttive:

Ore 9.30 Alberto Acquaviva, presidente dell’associazione Europa Nazione Cristiana:

Cenni storici sulla Dottrina Sociale della Chiesa

Ore 9.45 Riccardo Lala, manager ed editore: Panorama legislativo, tecnico e giuridico, nazionale ed europeo

Ore 10.15 Ezio Sciarra, ordinario di Metodologia delle Scienze Sociali, Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” di Chieti e Pescara: Soluzioni per salvare il lavoro al tempo della robotica

Ore 10.45 dott. Riccardo Ghidella, presidente nazionale dell’UCID (Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti): UCID e la priorità per lo sviluppo in Italia

Ore 11.15 Tavola rotonda con i rappresentanti del mondo dell’impresa e del sindacato:

Erminio Renato Goria, presidente regionale dell’UCID Piemonte

Alberto Carpinetti, presidente dell’UCID Torino

Alessandro Svaluto Ferro, direttore Pastorale Sociale e del Lavoro dell’Arcidiocesi di Torino

CGIL: Cinzia Maiolini, responsabile nazionale Ufficio Progetto Industria 4.0 – CISL: Antonio Sansone, segretario regionale Fim Piemonte – UIL: Dario Basso, Segreteria con delega Industria 4.0 – UGL: Francesco Paolo Capone, segretario generale

Ore 12.30 Intervento del Sottosegretario di Stato del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,  Claudio Durigon

Ore 13.00 Chiusura del lavori

Modera: Ezio Ercole, vicepresidente dell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte

 

CONVEGNO DEL 16 FEBBRAIO SULLE PROSPETTIVE DELLA VIA DELLA SETA PER IL PIEMONTE

        Il primo Pendolino,  treno italiano ad alta velocità

Convegno presso il Centro Studi San Carlo sulle opportunità per il Piemonte della Nuova Via della Seta

Sabato 16 febbraio, presso il Centro Studi San Carlo, si è svolto il convegno, organizzato da Rinascimento Europeo e dalla Casa Editrice Alpina, dedicato al tema: “Nuova Via della Seta, Prospettive per il Piemonte”.

Si sono date appuntamento otto personalità che, sotto angolature diverse, sono latori di messaggi  importanti per la comprensione della complessa tematica, contribuendoal tentativo di  sblocco della situazione piemontese delle infrastrutture, incancrenitasi per l’atteggiamento di retroguardia di un certo numero di autorità e forze politiche.

Ha introdotto i lavori  Riccardo Lala, manager, editore e scrittore, il quale ha illustrato il perché dell’abbinamento dei due temi, Via della Seta e Alta Velocità, precisando che l’obiettivo è quello di far comprendere come, mentre la Cina, in quindici anni, è passata dal semplice acquisti di un singolo treno ad alta velocità (il tedesco Maglev), a una situazione di quasi monopolio a livello mondiale, con 20.000 chilometri circa di ferrovie ad alta velocità sui 36.000 totali nel mondo intero, il Piemonte, che era stato all’ avanguardia (con il primo Pendolino realizzato nel 1964), rappresenta ora il fanalino di coda, non essendo riuscito, nello stesso periodo, neppure a realizzare un centinaio di chilometri di alta velocità fra Torino e Lione.

L’avvocato Stefano Commodo, portavoce dell’Associazione Culturale Rinascimento Europeo e padrone di casa, ha ricordato che la responsabilità del ritardo non è solamente dell’attuale governo, del Movimento Cinque Stelle e del movimento No TAV, bensì anche dell’Amministrazione della Regione, che non ha fatto abbastanza per accelerare l’iniziativa. Ha perciò auspicato che un cambio di guida nel governo della Regione possa portare finalmente alla realizzazione dell’opera.

Francesco Balocco, Assessore ai Trasporti, Infrastrutture e Opere Pubbliche della Regione Piemonte, ha invece ricordato quanto fatto dal governo regionale nell’ ambito della complessa dialettica in corso, in tema di alta velocità, fra Unione Europea, governo nazionale, regione e amministrazioni locali, rivendicando il ruolo propulsivo anche dell’attuale giunta.

Bartolomeo  Giachino, già sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti, organizzatore delle due manifestazioni in Piazza San Carlo a favore della Torino-Lione, e attualmente presidente del movimento “Sì Lavoro, Sì Tav”, ha ricapitolato il punto di vista del suo movimento circa l’importanza centrale dell’opera per il rilancio dell’ economia piemontese, ricordando che, ai tempi della sua presenza al dicastero dei Trasporti, l’ Unione Europea aveva approvato una struttura dei Corridoi Transeuropei che prevedeva l’incrocio di ben tre di essi nella Pianura Padana. Inoltre, ha sottolineato l’importanza delle due manifestazioni “Sì Tav” nel cambiamento del clima politico, nonché, in particolare, il ruolo svolto dal movimento per sollecitare l’attenzione per questo tema del vice-primo ministro Salvini.

L’avvocato Cesare Italo Rossini, Presidente della Fondazione SLALA, Sistema Logistico Integrato del Nord-Ovest d’Italia, ha illustrato, da un lato, il ruolo svolto dalla sua fondazione a supporto delle amministrazioni locali, e, dall’ altro il ruolo centrale del Porto di Genova e dell’area logistica di Alessandria nel progetto della Via della Seta.

Riccardo Ghidella, Presidente Nazionale dell’UCID, Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti, ha ricordato che né un progetto dell’importanza della Nuova Via della Seta, né tanto meno della Via della Seta Europea, può certo essere gestito efficacemente sul solo livello nazionale. Inoltre, ha deprecato l’assenza, da parecchi decenni, di una politica industriale dell’Italia.

Sua Eccellenza Alberto Bradanini, già Ambasciatore d’Italia a Pechino, ha aperto una preziosa finestra sulla realtà di quel fondamentale Paese, nonché sulle logiche che presiedono alla realizzazione dall’ iniziativa Yi Dai Yi Lu – in primis, quello della necessità del finanziamento, o anche solo di un co-finanziamento- per poter partecipare ai progetti generati dall’ iniziativa stessa.

Marzia Casolati, Senatrice della Lega e Segretaria della 14a Commissione Permanente (Politiche dell’Unione Europea), ha riepilogato la posizione del suo partito, rivendicando una coerenza nel tempo della sua linea politica e l’impegno personale in tal senso dell’Onorevole Salvini.

Il convegno si è concluso con l’intesa di continuare a seguire questo scottante tema con successive iniziative, in particolare in connessione con il prossimo Salone del Libro.

Pubblichiamo qui di seguito il discorso integrale di R.Lala al convegno.

 

Confronto fra le tre modalità di trasporto Europa-Asia

“Ringrazio l’amico Stefano Commodo per avermi offerto l’opportunità d’ introdurre questa mattinata, a cui tengo molto, essendo io un po’ il colpevole dell’idea  di tentare di mettere insieme i due temi, quello delle infrastrutture e quello della Nuova Via della Seta, idea che caldeggio da tempo, vale a dire fin da quando avevo presentato, tra l’altro, sempre in questa sala,  il libro ‘Da Qin’.

Per quanto i due temi possano sembrare, a prima vista, lontani, un esame più attento mostrerà la loro stretta connessione.

1.Obiettivi del convegno e del mio intervento.

Nelle mie aspettative, l’iniziativa di oggi dovrebbe avere la funzione di avviare un lavoro di approfondimento ancor più spinto su ambedue i versanti, opera che dovrebbe essere scaglionata nel tempo, con particolare riferimento al Salone del Libro 2019, nell’ambito del quale la mia società sta promuovendo una serie di ‘cantieri’. Cantieri che dovrebbero sfociare in precise iniziative: editoriali, imprenditoriali, consulenziali e politiche, nella direzione del rilancio della nostra presenza nel mondo, e, in primo luogo, in Eurasia.

Esse si articoleranno su due fronti, fra di loro connessi: quello dell’inserimento delle infrastrutture del Piemonte nella Nuova Via della Seta, e quello dell’utilizzo di quest’ultima quale veicolo per rafforzare la nostra economia, la nostra cultura e il nostro peso in Italia e nel mondo.

2.Confronto fra Europa e Cina

Anche nella mia biografia, i due temi sono strettamente legati. Già nel 1977, vale a dire ben 41 anni fa, mi ero recato a Canton per il Gruppo CIR, e, a partire dal 1982, vale a dire 36 anni fa, avevo partecipato alle trattative commerciali con Germania, Slovenia, Finlandia e Portogallo, negoziando l’esportazione in tutt’Europa del Pendolino, il nostro vecchio e misconosciuto treno piemontese ad alta velocità, realizzato sperimentalmente fin dal 1976 sotto la guida dell’ Ing.Di Majo. Quanto alla nuova linea Torino-Lione, essa era stata proposta in un documento delle Ferrovie Francesi già nel 2000. Nella stessa data, il Ministero cinese delle Ferrovie aveva proposto la costruzione della linea ad alta velocità Pechino-Shanghai, con la sola differenza che, contrariamente alla Torino-Lione questa era stata però poi veramente realizzata, in soli 3 anni, con un unico enorme cantiere, e rappresenta da 7 anni, con i suoi 180 milioni di passeggeri, la tratta ferroviaria più trafficata del mondo.

3.Imprescindibilità della conoscenza per poter decidere sull’ economia

Già questo semplice confronto storico conforta la mia convinzione che occorra una rinnovata centralità, per l’economia, dell’elemento cognitivo, superando i frusti pregiudizi ideologici. In questa rinnovata centralità dell’aspetto cognitivo della progettualità nel settore delle infrastrutture rientra anche l’idea di un’analisi costi-benefici, raccomandata, per prima, dalle Corti dei Conti francese e dell’Unione Europea.

Mi avvicino così al tema di oggi: il rapporto fra le scelte infrastrutturali e le connessioni con l’Eurasia, quale elemento centrale dell’economia per i prossimi anni, visto al di là delle opposte partigianerie, alla luce della geopolitica, dell’economia e della tecnica. Questa centralità è dimostrata il peso che sta sempre più assumendo, nelle dialettiche internazionali, proprio il progetto della Nuova Via della Seta, della cui importanza ci si sta rendendo conto sempre più, anche grazie alle opposte pressioni esercitate sull’ Italia da parte degli USA e della Cina, e alle violente schermaglie in proposito fra i nostri stessi leader politici. Progetto della Via della Seta che ruota appunto intorno alle nuove infrastrutture, fisiche e virtuali, che, nel mondo contemporaneo, al contempo interconnesso e multipolare, sono entrambe essenziali.

Per tutto questo, ho sentito con piacere citare, da parte del senatore Giachino, nella manifestazione SI TAV di Piazza Castello, la Nuova Via della Seta quale contesto più appropriato per comprendere i problemi di Torino, e, in particolare il significato globale della linea Torino-Lione. Credo infatti che la Nuova Via della Seta costituisca oggi, per tutto il mondo, il principale contesto entro cui si possono sviluppare nuove iniziative economiche alternative alla stagnazione universale.Infatti, essa è ben di più di una semplice, per quanto rivoluzionaria, linea ferroviaria, così come l’aveva concepita il geopolitico già nell’Ottocento von Richthofen, o di un’iniziativa del Governo Cinese, così come l’ha descritta la mozione approvata nel 2018 dal Congresso del Partito Comunista Cinese. Essa comprende altresì un intero settore marittimo, una sua parte immateriale e culturale e un contesto geopolitico generale.

Se il Piemonte, l’Italia e l’Europa non sapranno ritagliarsi il loro spazio in questo nuovo mondo, saranno condannati a passare, dalla stagnazione, alla recessione, e, da questa, al sottosviluppo e alla destabilizzazione. Infatti, le altre opportunità di mercato, in Italia, in Europa e in Occidente, vanno drammaticamente restringendosi, come ben sa chi produce e vende beni o servizi.

La necessità di percorrere vie nuove è dunque imposta dai dati sull’economia italiana che confermano che il nostro Paese, storicamente all’ avanguardia nel commercio mondiale (dalle città marinare a Marco Polo, dai grandi navigatori alle tecnologie informatiche, ferroviarie e spaziali), è da decenni sempre più assente dalla scena internazionale, anche e soprattutto per ciò che concerne i nuovi business. Ricordiamo a questo proposito soprattutto l’arenarsi del progetto della Olivetti dei primi personal computer già fino dagli anni ’60.

4.La disinformazione sull’ alta velocità e l’alta capacità

Ci si comporta come se quello della Torino-Lione fosse l’unico treno ad alta velocità progettato nel mondo, mentre, al contrario, già il Pendolino, che abbiamo diffuso in tutta Europa a partire dal 1988, era un treno ad alta velocità, e, soprattutto, mentre esistono già, nel mondo, più di 50.000 chilometri di linee ferroviarie ad alta velocità, di cui circa 2/3 nella sola Cina. Inoltre, la tratta Torino-Lione non è certo l’unica linea ad alta velocità che si sia arenata in Europa in interminabili battaglie di retroguardia.Un grave aspetto di tale disinformazione è  costituito dalla falsa impressione che la battaglia pro o contro la nuova linea Torino-Lione costituisca, per così dire, la frontiera di uno scontro epocale fra una nuova e una vecchia economia, mentre si tratta in realtà di un ramo di quell’ingentissima rete ferroviaria mondiale di treni ad alta velocità, dove l’area delle Alpi Occidentali costituisce oggi uno dei punti morti non coperti dalle maglie ormai fittissime di quella rete.

Occorre tuttavia prendere nota, di un fatto, per la nostra regione, altamente preoccupante: vi sono da molte parti pressioni per tagliare fuori l’ Italia dalla Nuova Via della Seta, sfruttando proprio le nostre incertezze circa la Torino-Lione e il Terzo Valico. In occasione della visita a Pechino del Cancelliere austriaco Kurtz, sono state fatte circolare mappe in cui la tratta europea della Via della Seta aggirerebbe l’Italia. 5.Una Via della Seta europea? La stessa Corte dei Conti Europea aveva stigmatizzato nel 2018 questa confusa situazione.  L’Alta Rappresentante per la Politica Estera e di Difesa Federica Mogherini ha proposto una “Via della Seta Europea”, fondata sui principi della concorrenza negli appalti, dei diritti dei lavoratori, ecc…,e alternativa (e/o complementare) a quella ‘cinese’. Tuttavia, se non ci sarà un impegno finanziario e politico dell’ Europa, tale progetto non si potrà realizzare. E’ fuori luogo parlare di un preteso ‘imperialismo cinese’, perché la Cina sta semplicemente riempiendo i vuoti che l’Europa non ha avuto, né l’intelligenza, né il coraggio, di riempire. 

Grazie alle mie pregresse esperienze, sono convinto più che mai che, per ovviare alla cronica recessione della nostra economia, non bastino certo gli strumenti per così dire tradizionali, come gl’ investimenti anticiclici, gli aiuti all’ export, il sostegno al reddito e ai consumi (strumenti di cui non possediamo neppure più la leva principale, cioè la capacità d’ indebitamento), bensì occorra riorientare coraggiosamente la nostra economia verso direzioni fino ad ora insufficientemente esplorate, ma che appaiono oggi molto promettenti.  Ne citerò solo tre: i business verso l’Eurasia, il turismo extraeuropeo, l’industria digitale.

6.I business verso l’ Eurasia: costruzione delle infrastrutture ed export

Al di là della Via della Seta, tutta l’Asia, dalla Siberia all’ Iran, dalla Siria all’ India, è sempre stata un’area di business importante per l’Italia. E’ perciò paradossale che proprio ora che l’Asia è divenuta più attrattiva, l’Italia rimanga indietro per una serie di errori di carattere politico.

I politici nazionali ed europei paventano che, invece, tanto come generatrici di appalti, quanto come  facilitatrici del business, le due Nuove Vie della Seta favoriscano soprattutto le imprese cinesi. E, in effetti, a oggi, l’89% dei progetti è stato attribuito a queste ultime. Questo è legato innanzitutto al meccanismo di finanziamento, che è basato prevalentemente sul credito e su risorse cinesi. Del resto, anche i tanto esaltati Piano Marshall e aiuto europeo allo sviluppo erano stati disegnati precisamente per favorire le imprese americane, e, rispettivamente, europee, grazie al finanziamento vincolato dei progetti. L’obiettivo della Cina è fare sì che quei Paesi possano spendere di più, comprando ovviamente merci cinesi, ma quest’ultimo corollario non è sancito certo da nessuna legge, sì che tutti gli esportatori intraprendenti ed appoggiati dai loro governi ne potranno usufruire.Per partecipare a questo business, occorre partecipare anche, e in modo sostanziale, al suo finanziamento e alla sua promozione: passare, dal ruolo di paesi beneficiari, a quello di Paesi promotori e finanziatori. Non solo con il denaro, ma anche con le idee.

Certo, con attori colossali quali lo Stato, i fondi e le grandi imprese cinesi, occorrono, per poter dialogare alla pari, strutture di pari consistenza (come sarebbe stato il gruppo Siemens-Alstom in preparazione, e com’è l’Unione Europea). Invece, oltre a boicottare i campioni europei, le risorse europee esistenti, come il fondo EFSI della BEI, vengono gestiti con reticenza, anche per via dell’erraticità delle politiche europee verso la Cina e la conflittualità fra le politiche dei vari Stati membri, che non permettono una negoziazione a tutto tondo con la Cina stessa, che ci permetta di essere con quest’ultima dei partners strategici, non già dei rivali o degli spettatori inerti.

7.140 milioni di turisti da conquistare (1% delle visite-1,5 milioni).

Un altro settore in cui si potrebbe e si dovrebbe fare di più è quello del turismo. Già le statistiche della Banca d’Italia e del Governo sono inaffidabili. Facendo la media fra le due, si può ritenere che i turisti cinesi che vengono in  Italia siano l’1,5%del totale (1 milione e cinquecentomila). Dato l’interesse particolare dei Cinesi per l’Italia e per l’Europa, e l’incremento esponenziale dei viaggi all’ estero (che raggiungeranno presto i 300 milioni), un maggiore coordinamento e miglioramento delle infrastrutture dovrebbero dare risultati interessanti. Mancano però una narrativa e un’informativa coerenti, e solo queste aggiungerebbero attrattiva alla destinazione “Italia”. L’Italia di oggi, che vuole ridurre lo spazio per le lingue classiche per sostituirle con l’Inglese, non è certo fatta per attrarre chi viene qui per respirare l’atmosfera di Roma, di Pompei e di Siracusa.

8.Alleanze tecnologiche.

La principale impresa hi-tech europea è la Huawei (la maggior depositante di brevetti all’ Ufficio Europeo brevetti), mentre il maggior numero di brevetti in Italia è di Ansaldo Energia, partecipata dai Cinesi al 40%. Queste circostanze hanno fatto sì che l’Italia, Paese che tradizionalmente depositava pochi brevetti, abbia aumentato di molto i suoi depositi.

Il Gruppo Huawei è anche il maggiore depositante presso l’Ufficio Brevetti Europeo, e l’esistenza di un importante centro di ricerca Huawei a Segrate costituisce una prima, embrionale, forma di alleanza tecnologica fra Italia e Cina, che ora Trump vorrebbe spezzare. E tuttavia, quella delle alleanze con le imprese cinesi di alta tecnologia è l’unica soluzione per uscire dalla sudditanza asfissiante verso le Big Five, e produrre in Italia della ricerca innovativa.

9.La manifestazione al Salone del Libro e la rete di professionisti

Prima di dare la parola a Stefano Commodo, padrone di casa e moderatore, vorrei fare un sintetico riferimento, per evitare di essere accusato di un atteggiamento sterilmente critico, alle iniziative che la mia organizzazione ha in corso per avviare una riscossa contro tutti gl’inconvenienti sopra registrati:

1)una pubblicazione sulla Via della Seta nell’ ambito della collana Evrazija, con cui daremo seguito al libro DaQin, dedicato in generale ai rapporti fra Europa e Cina;

2)Un convegno su Europa e Eurasia nel corso del Salone del Libro;

3)Una rete di professionisti e d’intellettuali, forniti delle necessarie esperienze e competenze nei vari settori (politico, finanziario, di business, giuridico, linguistico, culturale), i quali, in connessione con le due iniziative di cui sopra, si rendano disponibili a Enti e imprese italiane, per studiare, organizzare, acquisire, gestire e realizzare business connessi al progetto, come appalti, investimenti diretti, joint ventures…”

 

 L’ing. Mario Chou, capo-progetto cinese dell’ Ing. Olivetti,

scomparso in circostanze misteriose

 

MANIFESTAZIONI DEL MESE DI FEBBRAIO

Per le prossime due settimane, abbiamo promosso con altre organizzazioni e associazioni due importanti manifestazioni, che trattano di due temi di un’ attualità scottante: il 16 febbraio, la questione delle infrastrutture per il commercio internazionale, e, il 23, quella dell’impatto, sul futuro del lavoro, delle nuove tecnologie, e, in particolare, dell’intelligenza artificiale.

In ambo i casi, si tratterà di un approccio radicalmente anticonformistico.

Nel primo ( PUNTO 1), il dibattito in corso circa la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione sarà inquadrato, da diplomatici, politici e specialisti, nel suo naturale contesto: quello dell’integrazione economica e culturale del continente eurasiatico. Nel secondo (Allegato 2), il discorso si sposterà, dalla sterile discussione, senza basi fattuali, circa i pretesi benefici o danni, per l’occupazione, della crescente automatizzazione, ad una concreta disamina delle modalità in cui i pubblici poteri, il mondo dell’ impresa e quello del lavoro, agendo di comune accordo, potranno porre sotto controllo la tecnica dispiegata, realizzando un incremento della capacità umane e del benessere e della libertà di tutti, incominciando dal Piemonte, dall’ Italia e dall’ Europa.

 

 1.  SABATO 16 FEBBRAIO, CENTRO STUDI SAN CARLO, VIA MONTE DI PIETA’ 1

ORE 9,30

L’Alta Velocità Torino – Lione è certamente uno dei temi caldi nel dibattito politico in vista delle elezioni regionali ed europee di maggio 2019: capace di incidere sul verdetto delle urne e recentemente oggetto di grandi manifestazioni di piazza. L’Italia, il Piemonte e soprattutto Torino ancora faticano, tuttavia, a capire la portata rivoluzionaria di tale opera, determinante per il ruolo e la prosperità dei sistemi locali e nazionali. In tale scenario si colloca la “Belt and Road Initiative” o nuova “Via della Seta” che prevede la realizzazione di una rete di infrastrutture ferroviarie e marittime atte a collegare Europa ed Oriente lungo sei corridoi transnazionali di cui la TAV rappresenterebbe l’anello mancante di congiunzione.  Un vero e proprio sistema, concepito per rilanciare la connettività infrastrutturale e commerciale della grande massa continentale eurasiatica ed edificare una nuova architettura economico-commerciale. L’Europa, compressa tra due superpotenze quali Stati Uniti e Cina, ha ormai ceduto da tempo il dominio delle infrastrutture tecnologiche più all’avanguardia e quelle fisiche procedono ad una lentezza esasperante in stridente contrasto, ad esempio, con la rapidità decisionale delle Ferrovie Cinesi che, avviate nel 2002 sono arrivate ormai alle soglie dell’Europa.

Introduce RICCARDO LALA (Alpina)

Modera STEFANO COMMODO (Rinascimento Europeo)

Partecipano:

Cesare Italo ROSSINI, Presidente Fondazione SLALA, Sistema Logistico Integrato del Nord-Ovest d’Italia

Riccardo GHIDELLA, Presidente Nazionale UCID (Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti) Bartolomeo

GIACHINO, Presidente “Sì Lavoro, Sì Tav”

S.E. Alberto BRADANINI, già Ambasciatore d’Italia a Pechino

Francesco BALOCCO, Assessore ai Trasporti, Infrastrutture e Opere Pubbliche Regione Piemonte

Maurizio MARRONE, Dirigente nazionale Fratelli d’Italia

MARZIA Casolati, Senatrice Lega e Segretaria 14a Commissione Permanente (Politiche dell’ Unione Europea)

Andrea Tronzano, Consigliere Regionale Forza Italia

 

2.  23 FEBBRAIO, UNIONE INDUSTRIALE, SALA PIEMONTE, VIA VELA 17

INDUSTRIA 4.0: PARTECIPAZIONE E COGESTIONE DEI LAVORATORI NELL’IMPRESA NELL’ERA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Il convegno vuole costituire uno stimolo per la società civile italiana, di cui Torino è stata città simbolo in molte fasi delle sua storia, nell’ affrontare il tema, oggi sempre più attuale, della sfida che l’intelligenza artificiale pone alle forme consolidate di modello sociale europeo e di partecipazione nell’ impresa.

In particolare, si tenterà d’individuare un ruolo attivo per il mondo del lavoro nelle nuove forme di organizzazione economica (Impresa 4.0, Industria 5.0), con particolare riferimento alle evoluzioni legislative in Italia e in Europa e al ruolo delle parti sociali e dei pubblici poteri nel rispondere a queste sfide sui vari piani: culturale, legislativo e contrattuale.

L’attenzione su questi temi è stata riproposta anche dall’ enciclica “Laudato sì”, ultimo anello del corpus della Dottrina Sociale della Chiesa, sollecitando ulteriori riflessioni sull’Intelligenza artificiale e sulla inclusione del mondo del lavoro nell’economia informatizzata.

Sabato 23 febbraio 2019 – ore 8.30, Sala Piemonte

Centro Congressi dell’Unione Industriale, Via Vela 17, Torino

Programma

Ore 8.30 Accoglienza e registrazione partecipanti

Ore 9.00 Saluti:

Massimo Richetti, responsabile Servizio Sindacale dell’Unione Industriale di Torino

Alberto Sacco, Assessore al Lavoro Comune di Torino

Gianna Pentenero, Assessore al Lavoro Regione Piemonte

Relazioni introduttive:

Ore 9.30 Alberto Acquaviva, presidente dell’associazione Europa Nazione Cristiana:

Cenni storici sulla Dottrina Sociale della Chiesa

Ore 9.45 dott. Riccardo Lala, manager ed editore: Panorama legislativo, tecnico e giuridico, nazionale ed europeo

Ore 10.15 prof. Ezio Sciarra, ordinario di Metodologia delle Scienze Sociali, Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” di Chieti e Pescara: Soluzioni per salvare il lavoro al tempo della robotica

Ore 10.45 dott. Riccardo Ghidella, presidente nazionale dell’UCID (Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti): UCID e la priorità per lo sviluppo in Italia

Ore 11.15 Tavola rotonda con i rappresentanti del mondo dell’impresa e del sindacato:

Erminio Renato Goria, presidente regionale dell’UCID Piemonte

Alberto Carpinetti, presidente dell’UCID Torino

Alessandro Svaluto Ferro, direttore Pastorale Sociale e del Lavoro dell’Arcidiocesi di Torino

CGIL: Cinzia Maiolini, responsabile nazionale Ufficio Progetto Industria 4.0 – CISL: Antonio Sansone, segretario regionale Fim Piemonte – UIL: Dario Basso, Segreteria con delega Industria 4.0 – UGL: Francesco Paolo Capone, segretario generale

Ore 12.30 Intervento del Sottosegretario di Stato del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,  on. Claudio Durigon

Ore 13.00 Chiusura del lavori

Modera: dott. Ezio Ercole, vicepresidente dell’ Ordine dei Giornalisti del Piemonte

INTERVENITE NUMEROSI!

 

 

UN'”EUROPA VIVENTE?” Forse qualcosa si muove

I simboli dell’ Europa nel tempo

Nel post precedente, prendevo atto con soddisfazione del fatto che l’establishment fosse oramai obbligato a riflettere sulle questioni centrali per il nostro momento storico. Oggi, noto anche con piacere che vengono pubblicate sempre nuove opere che, seppure in modo a mio avviso non sufficientemente radicale, mettono in discussione le Retoriche dell’ Idea d’Europa,  su  questioni centrali come quelle dell’ identità, dei simboli, delle passioni, dell’ autonomia.

L’ Europa ha tanti altri simboli ed eroi, che non sono solo la bandiera con le dodici stelle, l’Inno alla Gioia , Spinelli, Monnet, Schuman…Come tutti i Paesi con una storia millenaria, essa ha memorie sue specifiche che risalgono alla preistoria, al mondo classico, al Cristianesimo e alla Modernità, e simboli che si proiettano nella Post-modernità. L’Unione Europea, con i suoi simboli e i suoi avatar, non è se non una fra le infinite tappe della sua storia, e, speriamo, non sarà l’ultima.

Non per nulla gli autori più prolifici sul tema dell’identità europea sono oggi i coniugi Assmann (Jan e Aleida), cultori della “memoria culturale”. Questa memoria culturale non può certamente essere inventata “à la carte” (come invece hanno fatto tutti, ma proprio tutti, a partire da Coudenhove-Kalergi per continuare con Dawson, passando per De Rougemont e continuando con Duroselle…). Occorre invece seguire tutti i filoni della storia culturale europea, certo tentando una sintesi e stabilendo paragoni con gli altri continenti.

Passiamo rapidamente in rassegna le iniziative più significative.

 

Le grandi cuture del’ Epoca Assiale: i politeismi occidentali,  lo Zoroastrismo, il San Jiao

  1. Jan e Aleida Assmann:memoria culturale e Europa

Partiamo dunque dai più recenti libri degli Assmann, “Achsenzeit”, di Jan, e “Der europaeische Traum”, di Aleida (premio per la pace dei librai tedeschi per il 2018).

Nell’introduzione al mio primo volume della trilogia “10.000 anni d’identità europea”, dichiaravo d’ ispirarmi espressamente all’approccio della “memoria culturale” degli Assmann, vale a dire di non guardare alla storia, né come a una semplice sequenza di eventi, né come alla realizzazione di un disegno, bensì come ad un insieme di fenomeni di difficile interpretazione, da spiegarsi per quanto possibile attraverso un’opera di confronto e di riflessione. In quest’ottica, essa, lungi dal venire piegata alle esigenze propagandistiche delle forze via via dominanti, serve per ricostruire la logica nascosta dei comportamenti sociali, e, in particolare, l’origine, il divenire e la progettualità dei soggetti collettivi.

Jan Assmann, partendo dall’idea di Jaspers dell’“Epoca Assiale” e da quella spengleriana sull’ indipendenza delle varie storie, ma anche da quella di Toynbee del loro parallelismo, giunge a definire ciò che distingue la memoria culturale mondiale da quelle specifiche dei singoli Continenti. Aleida si concentra sulla memoria culturale dell’Unione Europea.

Con “Achsenzeit”, Jan Assmann svolge ora uno studio filologico degli autori che si sono dedicati a sviluppare l’idea di un’“Epoca Assiale”, costituendo così le basi di questa conoscenza delle identità collettive. Con “Der europaeische Traum”, Aleida spiega l’attuale, crescente, divergenza politica fra la parte orientale e quella occidentale del nostro Continente con il diverso modo che esse hanno di rapportarsi all’eredità storica della IIa Guerra Mondiale.

In ambo i casi, una riflessione profonda e stimolante su quelli che sono temi centrali per il dibattito politico e culturale oggi in Europa.

 

2.Ulrike Guérot: la Repubblica Europea e  la nuova Guerra Civile

Quando, in tempi non sospetti, affermavo che all’Europa mancavano l’entusiasmo e la passione, venivo preso per un esaltato. Eppure, ciò che l’establishment cerca oggi disperatamente di recuperare per arginare l’euroscetticismo è propri questo: l’entusiasmo, la passione. Ma, per poter fare questo, non basta proclamarlo, né imitare, in modi spesso ridicoli, concorrenti, avversari o soggetti esotici, che una passione invece ce l’hanno (per esempio, portando la mano al cuore come nel “Balch Salute” americano, ma ignorando che il “Balch Salute” è stato l’avvio del saluto romano).

Per avere dell’entusiasmo, bisogna essere vivi, educati alla vita e non al meccanicistico vegetare di oggi. Bisogna avere cultura, e ricordarci le glorie europee del passato: i Greci e i Troiani; l’Odissea e l’Orestea; le Odi e il Carmen Saeculare; i Carmina Burana e Mozart; Napoleone e Beethoven; Baudelaire e St. Exupéry; Kieslowki e Tarkovskij….Ricordiamo (con tutti i limiti del caso) l’entusiasmo di cui i popoli erano stati capaci nel XX° secolo anche per cause che oggi giudichiamo non commendevoli…

Ciò premesso, tanto di cappello a Ulrike Guérot, che, a essere entusiasta, ci prova ancora, nonostante tutto, con la sua “Repubblica Europea”, che vuole ricostruire l’”estetica politica” dell’Europa. Tema che ha illustri precedenti, da Romain Rolland a Coudenhove-Kalergi, ma che  ha trovato pochi e deboli seguaci (vedi, per tutti, Luisa Passerini, Il Mito d’ Europa). I nostri “50 anni d’Europa, immagini e riflessioni” di Jean-Pierre Malivoir, pubblicato da Alpina nel 2007, avevano voluto costituire un esempio di questa “estetizzazione della politica europea”.

Altra provocazione (che, per altro, giudico salutare): quella della “nuova guerra civile” che dovrebbe scuotere le certezza consolidate sull’ Europa, usando i populisti come una sorta di ariete per distruggere gli Stati Nazionali, veri nemici dell’ Europa (la “Nuova Guerra Civile”). La “Repubblica Europea” a cui pensa Ulrike Guérot risale all’anarchismo proudhoniano, all’austromarxismo di Bruno Bauer, agli “anticonformistes des Années Trente”, al Federalismo Integrale di Alexandre Marc e alla Carta delle Minoranze di Maribor.  Certamente, avrebbe il vantaggio di distruggere le false identità degli attuali Stati Membri, dietro le quali si cela solamente la volontà di potenza delle burocrazie nazionali, che costituiscono il maggiore ostacolo alla creazione di un’Identità Europea. Tuttavia, le Regioni autonome europee sarebbero troppo numerose (da 150 a 200) per poter essere vitali, e senz’altro darebbero vita, per reazione a uno Stato europeo molto centralizzato, conseguenza a cui Ulrike Guérot sembra non pensare. Inoltre, non sono delineate le strategie, né per il rafforzamento dello Stato europeo, né delle identità regionali (cosa per altro non impossibile)

Ovviamente, già solo queste due parole d’ordine, “Repubblica Europea” e “Nuova Guerra Civile” hanno fatto gridare allo scandalo da parte di molti, cosicché non vi è stata una grande copertura di stampa per le iniziative di Ulrike Guérot. Iniziative che non si esauriscono in quest’attività editoriale, ma comprendono anche iniziative di mobilitazione pubblica, come Eutopia, Europe Balcony e la proclamazione della Repubblica Europea.

Jean-Claude Juncker e Angela MerkelFine corsa per la mentalità eurocratica

  1. Robert Menasse e “la capitale”.

Buona parte delle sue iniziative, Ulrike Guérot le ha condivise con Robert Menasse, Premio dei Librai Tedeschi ma nel 2017.

Anch’egli ha compiuto un gesto iconoclastico con la sua “Capitale”, tradotto anche in Italiano, dedicato all’ambiente degli Eurocrati.

Debbo dire che, avendo io stesso fatto parte di questo ceto, ed avendo volontariamente deciso di uscirne  35 anni fa, sono rimasto abbastanza stupito dal quadro che ne risulta. Non tanto dal quadro politico e professionale, quanto, invece, dal quadro umano. Probabilmente a causa dei decenni trascorsi, che hanno deteriorato proifondamente il tessuto sociale ed etico dell’ intera società europea.

Mentre la Bruxelles e la Lussemburgo a cui appartenevo erano caratterizzate soprattutto dalla loro vivacissima vita sociale e culturale, in cui spiccava in particolar modo la vita familiare, i funzionari descritti da Menasse sono individui soli, senza famiglia ma anche senza amici, che si trascinano fra l’ufficio e squallidi di appartamenti d’affitto, dove i loro principali interlocutori sono, a parte, ovviamente, i colleghi, le segretarie e le donne di servizio. Non vi è, in essi, un minimo d’interesse per le grandi questioni alla cui soluzione sono chiamati a collaborare, nelle quali essi s’impegnano solo nella misura in cui esse siano funzionali alle loro personali strategie burocratiche.

Questa critica è particolarmente spietata là dove essa si rivolge all’attività della Direzione Generale “Cultura” della Commissione, di cui si mette in satira soprattutto la scarsa attenzione ch’essa riesce ad ottenere da parte delle Istituzioni in generale. L’occasione intorno a cui ruota la storia, la commemorazione dei 50 anni di vita della Commissione, e, in particolare, il tentativo di incentrarla intorno alla memoria della Shoah, dà il destro per mettere in luce una mancanza di fantasia, d’informazione, di concordia e di decisione, che frustra qualsivoglia iniziativa che si discosti dal solito “tran-tran”.

Un quadro sconsolato, che ben giustifica i propositi barricadieri della Guérot.

Come ben sa chi ha lavorato nelle Istituzioni, la colpa non è certo dei funzionari, che normalmente sono diligenti, motivati e con una grande cultura, e riescono in 30.000 a compiere un lavoro che, negli Stati membri, viene svolto da milioni di funzionari, quanto del personale politico che dirige ciascuna Istituzione e che, provenendo dalla politica nazionale, dove non ha, normalmente, acquisito una grande familiarità con le questioni europee, ha però il diritto d’ impartire ordini, spesso incomprensibili, a funzionari che hanno dedicato, all’ Europa, tutta la vita.

In pratica, affinché l’integrazione europea possa continuare, occorre, come suggeriscono Guérot e Menasse, che tutto ciò cambi.

 

Arianespace: l’unico orgoglio dell’ Europa

4.Mercedes Bresso : un’Europa forte e sovrana, con coraggio e passione.

L’agile e.book di Mercedes Bresso fa tesoro di questo nuovo clima anticonformistico. Senza soffermarsi anacronisticamente sui presunti meriti di quest’ Unione Europea, si concentra su alcuni aspetti che, non solo condivido, ma che hanno costituito addirittura il leitmotiv di questi miei  ultimi dodici anni di vita e di attività:

-la centralità acquisita dalla questione europea in tutti i dibattiti, a tutti i livelli, a cui fa riscontro, paradossalmente, un’ignoranza generalizzata sull’ Europa;

-la necessità di una nuova narrativa, contro un discorso politico fondato solo su slogan che si alimentano dell’obsoleta dialettica destra-sinistra, e che parta  dalla constatazione dell’obsolescenza delle vecchie ideologie politiche;

-la constatazione che l’Europa è, per la Presidenza americana, un nemico perché potenzialmente concorrente, il che porta alla necessità di difenderci da soli -militarmente ed economicamente- dal resto del mondo che si sta appropriando dei nostri dati e del nostro gettito fiscale,e innanzitutto con la creazione di piattaforme digitali europee, tanto per difenderci dai giganti dell’economia digitale, quanto per creare lavoro.

 

Festeggiare i Santi Protettori dell’ Europa

  1. L’ appello di Prodi a esporre la bandiera europea il 21 marzo

A questo stesso spirito si riallaccia l’appello di Romano Prodi per l’esposizione della bandiera europea il 21 maggio. Proposta che per altro è stata poco propagandata e poco spiegata, anche perché non è chiaro che cosa si celebri il 21 marzo.

Ci riserviamo poi di approfondire il significato mitoòlogico e storico tanto della data del 21 marzo, quanto della bandiera dalle 12 stelle.

Per intanto, pubblichiamo qui di seguito l’appello di Romano Prodi:

“C’è molto in gioco nelle prossime elezioni europee, alle quali troppi cittadini si avvicinano con un senso di smarrimento e di frustrazione, dimenticando la nostra storia e, insieme ad essa, i contributi che, se camminiamo insieme, possiamo dare per affrontare i problemi di oggi e per riaccendere le speranze per il domani del nostro pianeta così affaticato.

Nel passato l’Europa ha affrontato, attraverso drammi e conflitti, tutti i grandi scontri che insanguinano e dividono il mondo d’oggi, trovando le mediazioni e preparando i passi in avanti che più hanno fatto progredire la nostra tribolata umanità. Ci sorprendiamo delle lotte religiose fra sciiti e sunniti che oggi infiammano il mondo islamico e non pensiamo alla faticosa convivenza che i Paesi europei hanno raggiunto dopo secoli di lotte religiose fra i cristiani. Non ripensiamo al nostro faticoso cammino verso la democrazia intervallato dalle esperienze dittatoriali e dalle guerre che hanno devastato il nostro continente per tutto il secolo scorso, ma alle quali l’Unione Europea ha potuto fare seguire il più lungo intervallo di pace mai esistito nella storia. Senza dimenticare il benessere che abbiamo potuto raggiungere costruendo (caso unico nella storia) un mercato comune che ha unito tra di loro Paesi ripetutamente devastati da guerre commerciali e dalle barriere al libero movimento di uomini e di beni.

Nella frustrazione nella quale siamo immersi dimentichiamo persino la fatica con cui abbiamo costruito lo stato sociale che, pur con i suoi limiti e le sue imperfezioni, resta la più grande conquista della politica mondiale e non riesce ad essere riprodotto nella sua universalità perfino nel più ricco Paese del mondo e non sembra essere un obiettivo prioritario nemmeno per la Cina, astro nascente della politica mondiale.

Sappiamo benissimo che, di fronte alla potenza americana e all’ascesa cinese nessuno Stato europeo potrà da solo conservare quanto è stato conquistato in passato: eppure ci stiamo illudendo che il ritorno alle frontiere nazionali possa essere la soluzione dei problemi e il superamento degli ostacoli che rendono faticoso il progresso del cammino europeo. Facciamo finta di ignorare che i grandi cambiamenti o vengono imposti con le armi o esigono tempo e fatica. Eppure, invece di dedicarci a preparare il futuro, lottiamo per dividerci il presente, pur sapendo che anche il presente non potrà essere conservato se non rafforzando la nostra unità.

Se siamo incapaci di interpretare il ruolo che l’Europa unita può giocare nel mondo, una grande responsabilità grava certamente anche sui responsabili dei governi e dei partiti che più si dichiarano europeisti. I governi hanno sistematicamente anteposto gli interessi elettorali di breve periodo alla politica di coesione necessaria ad assicurare all’Europa il ruolo di protagonista nell’economia e nella politica mondiale.

I secondi hanno regolarmente usato le elezioni europee per garantire un posto ai perdenti delle elezioni nazionali, contribuendo quindi anch’essi a sminuire il ruolo delle istituzioni comunitarie che, dopo avere fatto grandi cose in passato, si sono ridotte a giocare un ruolo sempre minore, senza più avere la forza e il coraggio di affrontare i grandi temi oggi sul tavolo: dalle regole della globalizzazione alle migrazioni, dalle disuguaglianze economiche alle conseguenze delle nuove tecnologie.

Tutti questi limiti, uniti alla sciagurata gestione della lunga crisi economica, hanno allontanato il nostro cuore dalla grandezza e dalla necessità della missione europea. Noi tutti comprendiamo che non vi è alternativa al destino comune: il nostro cervello ci fa capire che le nostre energie si indeboliscono ogni giorno di fronte a superpotenze sempre più forti ma il cervello non basta. Credo proprio (e vi prego di perdonare questa per me inusuale espressione retorica) che occorra qualcosa che riscaldi il cuore e che ci faccia anche visibilmente capire che l’Unione Europea è il nostro destino e non l’oggetto di piccoli disegni politici.

Mi piacerebbe quindi che il 21 marzo noi tutti, nel nostro e negli altri Paesi dell’Unione, esponessimo dalle nostre finestre e sventolassimo nelle nostre strade e nelle nostre piazze milioni e milioni di bandiere europee. Penso al 21 marzo perché quel giorno deve simbolicamente richiamare il primo giorno della primavera europea e perché ci ricorda San Benedetto, che non solo è il patrono d’Europa ma che, nel secolo più buio del disfacimento dell’impero romano, ha fatto appello ai nostri valori comuni per ricostruire l’anima e la stessa economia dell’Europa di allora.
Per scaldare i nostri cuori abbiamo anche bisogno di simboli: la bandiera è il simbolo più comprensibile e immediato che noi possediamo.

Non è un compito facile perché anche la bandiera deve essere fabbricata, distribuita da mille e mille associazioni, accolta da milioni e milioni di persone (#uneuropapernoi) e spiegata a tutti nel suo significato etico, politico, economico e sociale. Non sarà questo un gesto rivoluzionario ma sarà certo utile per capire quanto la scelta o il rifiuto dell’Europa saranno decisivi per il nostro destino futuro. E quindi quanto saranno importanti le prossime elezioni europee.”

Un’Europa senza preconcetti, tutta da farsi

5.Preparare la Festa dell’ Europa

A me, tutto questo riemergere del simbolico, dell’estetico, del passionale, non può fare altro che piacere.Ciò che è fondamentale, però, è che, dietro ai simboli, vi sia anche della sostanza. Non si può, infatti, confondere, né la ragione, né la passione, con il semplice buon senso, né , peggio ancora, con il velleitarismo.

Oggi, questa sostanza resta tutta da costruire, perché le seppur giuste idee di Dante e di Podiebrad, di Sully e di Saint Pierre, di Coudenhove-Kalergi e di Spinelli, hanno, come minimo, 80 anni. Nel frattempo ci sono stati la Shoah e Hiroshima, l’Impero Sovietico e la Perestrojka, l’informatica e la Nuova Via della Seta, la religione di Internet e l’America First di Trump. L’umanità di oggi non ha più nulla a che vedere con quella del 1941: figuriamoci l’Europa! Ma nessuno ha potuto, saputo o voluto, dire nulla di nuovo. E tutti si ostinano a voler riproporre le idee che hanno clamorosamente fallito: quella di un progresso illimitato, al contempo materiale e spirituale; quella della “vox populi vox Dei”; quella del ruolo salvatore dell’ Occidente; quella dell’estinzione degli Stati; quella dell’ informatica quale regno della libertà….

Dire che si tratta di un compito trasversale è dire poco. Contrariamente a quanto l’establishment, pro domo sua, ha voluto farci credere, qui non c’è nulla di solido su cui costruire: occorre costruire ex novo delle realtà che, a oggi, non ci sono:

-una filosofia che si distingua da quelle “occidentali”. Fino a qualche anno fa, c’erano almeno i “filosofi continentali”, contrapposti a quelli “analitici”anglosassoni, ma, dopo, ci si è dispersi, addirittura, fra una “French theory”(Francois Cusset) e un’”Italian Theory”(Roberto Esposito), ambedue molto vaghe e deboli;

-una teologia europea che non scimmiotti, né la Teologia della Liberazione, né il puritanesimo, né il Silenzio del Buddha di Panikkar.  Papa Francesco aveva incitato, a Strasburgo, le Chiese nazionali a svolgere questo compito, ma non pare che nessuno abbia raccolto, fino ad ora, questa sfida;

-una classe dirigente europea, non divisa da campanilismi populistici o vetero-ideologici, bensì accomunata dalla sua cultura “alta”, trasversale e interlinguistica. Infatti, la sedicente “élite” si è oramai sgretolata e non è stata capace di proporre un’alternativa credibile al populismo (cfr. Baricco, Orsina, Mauro…);

-un movimento europeo forte, che si faccia carico dell’”unità di comando politica” nonostante, e attraverso, le infinite autonomie territoriali e sociali: quello che doveva essere il Congresso del Popolo Europeo di Spinelli;

-un nucleo duro iniziale d’ informatica europea, capace di padroneggiare innanzitutto gli aspetti culturali e antropologici della rivoluzione digitale, prima ancora di quelli tecnologici, finanziari, militari, imprenditoriali, di intelligence, sociali e commerciali: quello che avrebbero dovuto fae la Olivetti e il Minitel, ambedue misteriosamente stroncati quando invece l’informatica stava decollando in America e in Cina. Come scrive, su “la Stampa”, Marta Dassù, “senza investire risorse più rilevanti nelle tecnologie dell’intelligenza artificiale e senza creare una capacità industriale high tech in grado di competere realmente sul piano globale, il Vecchio Continente resterà schiacciato dalla competizione fra Stati Uniti e Cina”.

Per questo, pur prendendo atto dell’ottima idea di Prodi, proponiamo di attuarla in modo più ponderato e integrale, soprattutto in connessione con il Salone del Libro di Torino, il quale quest’anno, per una fortunata coincidenza, inizierà il 9 maggio, Festa dell’Europa, e sarà aperto da una lectio magistralis sull’ Europa di Antonio Savater.

Vorrei ricordare che Alpina e Diàlexis sono state le due uniche entità che a Torino abbiano organizzato sistematicamente la Festa dell’ Europa negli ultimi 12 anni. Questo la dice lunga su quanto a tanti sedicenti europeisti, che sono sempre intenti a fare discorsi e a tagliare nastri,  interessi veramente l’ Europa.

Intorno a quelle scadenze, stiamo organizzando, come tutti gli anni e più ancora degli altri anni, la celebrazione del 9 maggio, anche con “cantieri” di lunga durata (“Baustellen Europas”), e, intanto, un momento di riflessione sul significato, tanto del 21 marzo, quanto della bandiera con 12 stelle.

Speriamo che queste attività non rimangano fini a se stesse, ma, al contrario, assumano (almeno nella forma di “Baustellen Europas”), un carattere permanente.

QUEL BISOGNO DI LIBERTA’ A cinquant’anni dalla morte di Jan Palach

 

    Jan Palach

“Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zpravy. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s’infiammerà “

                                                                                                                      Jan Palach

Saluto con gioia il fatto che, in questa situazione di crescente pericolo, anche la cultura “mainstream”  e i media  stiano finalmente riscoprendo le questioni che veramente contano. Intanto, la domanda sull’ essenza della sovranità. Che va ben al di là della sovranità stessa, e, anzi, è la chiave interpretativa che ci permette di comprendere la sostanza del presente attraverso i parametri dell’assertività, dell’ideologia, della storia, della religione, della libertà.

E’ per la sovranità che gli Europei hanno combattuto a Berlino, Poznan, Budapest, Praga, Danzica, Vilnius…

Proprio dalla polemica martellante che l’”establishment” sta conducendo contro un diffuso, ma indefinibile, “sovranismo”, si capisce sempre più che, per essa, il nemico da battere è, non già “la sovranità”, bensì una cosa ben più ampia e profonda, “l’assertività” (quella che Heidegger chiamava “Selbstbehauptung”, Nietzsche “volontà di potenza” e, Bergson, “élan vital”). E’ questo il bersaglio nascosto che s’ intravvede fra le righe nei discorsi delle autorità e degli articoli degli opinionisti. Salvini, Orban e Kacynski sono soltanto un pretesto. Non si tratta, infatti, di un’avversione politica, bensì antropologica e teologica: quella fra coloro che, con Leibniz e Nietzsche,  pensano “che sia meglio esista qualcosa piuttosto che niente”, e coloro i quali, con Buddha e Schopenhauer, aspirano alla “decreazione” del mondo, alla finale entropia. Il nostro “establishment” rinunziatario e nichilista sta dalla parte di questi ultimi. Chi vuole che il mondo continui deve volere anche l’affermazione di se stesso, dei suoi prossimi, della sua discendenza, del suo popolo (il “gene egoista”, la “discendenza grande come i granelli del mare”). Solo chi non vuole che il mondo continui pensa che tutti gli uomini si equivalgano, e che per questo non valga la pena di avere eredi (al massimo eredi “virtuali” e anonimi come i robot e i software). Non per nulla, preveggentemente, Edgar Morin aveva scritto addirittura un “Plaidoyer pour l’Europe décadente”.

In altre parole, gli “identitari” esaltano la personalità, la differenza, i ceti sociali, le identità collettive, il genius loci, mentre i nichilisti amano la fluidità, le mode, l’egualitarismo, una mobilità fine a se stessa, la “Singularity”. La metafora più calzante di questa società autodistruttrice è contenuta nella tragedia “R.U.R.” del Ceco Karel Čapek (1923), in cui gli uomini, da quando esistono i robot (rectius, gli androidi) non si riproducono più: gli androidi sono gli uomini del futuro. Guarda caso, è proprio quanto sta succedendo ora in Europa, con il crollo del tasso di fecondità (e della stessa produzione di spermatozoi).

Non vi sarebbe alcun motivo per cui l’Europa debba identificarsi così con il  “cupio dissolvi” di Čapek, o addirittura divenirne la quintessenza. Invece, purtroppo, dalla decomposizione delle ideologie novecentesche è nata, all’inizio di questo secolo, una setta fanatica, che, proprio nel nome del “cupio dissolvi”, monopolizza tutte le posizioni di potere, rendendo l’Europa debole, noiosa e opprimente.Accusano tutti gli altri di essere dei fondamentalisti, ma i veri fondamentalisti sono loro. La retorica dell’Europa come antidoto all’ elemento “hard” della Storia (volgarmente detta “Pace Perpetua”), adottata da questa setta, è significativa della sua radice chiliastica, che l’apparenta addirittura, alle religioni di rinunzia (come il Jainismo, il Buddhismo Hinayana e il Catarismo), e, dall’ altro, alle escatologie immanentistiche (come il manicheismo, la “Filosofia della Causa Comune” russa e il trotzkismo).

La pretesa origine kantiana di questa retorica è un’ennesima “fake news”: Kant stesso soleva affermare che il marchio  “zur ewigen Friede” l’aveva letto sull’insegna di una locanda dove figurava l’immagine stilizzata di un cimitero.

D’altro lato, l’altro pilastro di questa retorica, i pretesi 70 anni di pace in Europa (per altro interrotti da continue guerre imperialistiche  nelle periferie europee, rivolte, repressioni, invasioni, attentati,guerriglia, terrorismo..) sono stati dovuti non già all’ Unione Europea (che, non avendo alcun compito militare, non può influenzare né la pace, né la guerra), bensì dalla fitta rete di basi militari americane e russe, dall’ equilibrio del terrore e soprattutto dall’ eccezionale prestazione del tenente colonnello  sovietico Stanislav Petrov, che, nel 1983, bloccò il procedimento automatico di risposta nuclearea un presunto attacco missilistico americano erroneamente rilevato dai computer. Popov fece per la pace molto più di 70 anni di Unione Europea, semplicemente impedendo, a suo rischio e pericolo, e mettendo in pericolo la stessa Unione Sovietica, la IIIa Guerra mondiale.

Perché non ci viene detta questa  verità? Perché quella Weltanschauung autolesionistica è paradossalmente funzionale al mantenimento all’attuale equilibrio geopolitico, che vede gli Europei eternamente subordinati all’ America. Infatti essa sostiene che, per dirla con Ezio Mauro,  i “fenomeni che ci sovrastano” sono “incontrollabili” , mentre, come vedremo, le crisi dell’ economia mondiale sono provocate  deliberatamente dall’ America, con sanzioni e dazi (come previsto fin dall’ inizio dal programma su cui Trump è stato eletto).Al contrario, cent’ anni fa, l’ Europa era, come scriveva Nietzsche “signora del mondo”, e poteva benissimo “controllare i fenomeni”, e, in particolare, i grandi flussi di ricchezza nel mondo, così come oggi fanno Trump e Xi Jinping. L’economia mondiale è così com’è non già perché lo impongano delle leggi bronzee del libero mercato, ma perché così vuole che sia chi ha il potere di manipolare tale mercato, attraverso l’ideologia, lo spionaggio e le leve amministrative. Un’ “Europe Puissance” (Giscard d’ Estaing) potrebbe anch’ essa influenzarla pesantemente, attraverso quella che, non a caso, Helmut Schmidt chiamava “Selbstbehauptung Europas”, vale a dire una diversa politica economica internazionale sotto l’influenza di uno Stato pan-europeo.

1953: guerriglia di strada davanti al Reichstag

1.Elite o setta?

Che l’establishment sia finalmente costretto a riconoscere il proprio carattere autodistruttivo è dimostrato dal magistrale articolo di Ezio Mauro su La Repubblica del 12 Gennaio (“Così l’ Uomo nuovo abbatte il sapere delle élite decadute”). Dove si incomincia finalmente a porre in questione la stessa qualifica di “élite” per le classi dirigenti, che originariamente, era positiva, e che oggi invece è ”nell’ inferno delle parole dannate”. Il punto è che questa pretesa “élite” non è decaduta: è sempre stata decadente.

Mauro usa questa terminologia in un senso molto diverso dal mio, sulla base di una diversa scelta valoriale. Per Mauro, “élite” sarebbe, paretianamente, una qualsiasi classe dirigente, mentre, per me, è tale solo una classe dirigente fornita di qualità positive. Per lui, poi, l’“aristocrazia” sarebbe una classe dirigente pietrificata e inutile, mentre, invece, secondo la definizione classica, era addirittura il governo dei migliori; infine, per lui, l’”establishment” sarebbe una classe dirigente conscia della sua missione, mentre invece, per me, è una classe dirigente la cui posizione è, come dice Mauro, “nuda, giustificata solo da se stessa”.

Quello che manca è proprio una vera aristocrazia, vale a dire una classe dirigente dotata di una superiore leadership etica, culturale e pragmatica, capace di strutturare il popolo europeo, così come i kalokagathoi greci, il ceto senatorio romano, i ceti feudali medievali o la vera borghesia otto-novecentesca di Goethe, di Mann, di Croce…..o  il Partito Comunista Cinese…

Il funzionamento del presente “establishment” è proprio quello di cui parla Mauro,”l’esercizio di un monopolio sull’ interpretazione del reale, sulla rappresentazione del contemporaneo.  “. Esso “diffonde modelli di società, piega alla sua lettura la storia e la interpreta, detta le mode, fissa le consuetudini , costruisce un paesaggio indicando i libri, i film, la musica,…” Insomma, il compito che, nei sistemi totalitari, è svolto dal partito unico. Il fatto che in Occidente non vi siano un Primo Segretario o un Duce non migliora, bensì peggiora, la situazione, perché toglie ai dominati perfino la possibilità di concentrare la critica e la lotta su un personaggio particolarmente rappresentativo, mentre la colpa delle decisioni resta diffusa e indefinita. E, nello svolgere questo compito, il nostro establishment segue comunque una sua linea settaria, che violenta l’intera storia culturale per farla combaciare con le proprie scelte, eccentriche rispetto alla cultura europea: Il decadentismo dei Sannyasin indiani contro la salute delle grandi civiltà antiche, come scriveva Nietzsche ne “La genealogia della morale”; le eresie contro San Paolo, Sant’Agostino e San Tommaso; l’Occidente tecnocratico moderno contro le grandi civiltà di tutto il mondo.

La cultura settaria minimizza le inesauribili fonti di sapienza delle società pre-alfabetiche, a cui dobbiamo la quasi totalità della nostra civiltà (Eisenstadt), a cominciare dalle lingue, la cui originaria sofisticazione, confrontata alla loro attuale povertà, non può denotare se non una perdita di qualità umane (Brague, Bettini, Gardini, Marcolongo). Si descrive la storia universale come se fosse la storia del solo Occidente, ignorando gli sviluppi paralleli ma indipendenti realizzati soprattutto in Asia e Nordafrica (Goody). Si nasconde il fatto che la stessa periodizzazione attuale della storia (antica, medievale, moderna), lungi dal descrivere un fatto obiettivo, è semplicemente il riflesso delle profezie di Cristoforo Colombo, che a sua volta si rifà all’apocalittico Gioacchino da Fiore; si soffocano le infinite voci autorevolissime levatesi nella Storia contro le vulgate razionalistiche e progressive: da Socrate a Confucio; da Senofonte a Tertulliano; da Pascal a Rousseau; da Leopardi a Foscolo; da Nietzsche a Heisenberg; da de Finetti a Simone Weil…

L’inganno principale è costituito dalla volgarizzazione del progetto baconiano del paradiso in terra (l’isola di Bensalem) da raggiungersi tramite la tecnica, un paradiso che l’inveramento sta trasformando in un inferno, di alienazione, di insensatezza, di conformismo, ma, soprattutto, di crisi e di decadenza. Soprattutto nel Secondo Dopoguerra, l’establishment aveva promesso agli Europei un paradiso di benessere, di pace e di libertà, che si è trasformato in un abisso di depauperamento, di disordine e di egemonia culturale. Questo problema non è certo limitato all’ Italia, ma si estende all’ intero “Occidente”. Anzi, esso rappresenta la natura stessa dell’Occidente (dove Bacone aveva collocato la sua isola). Finché ci considereremo parte di quest’ “Occidente”settario, non potremo far altro che subire la dittatura di quella setta. La quale è oggi paradossalmente la prima a lamentarsi, perché, non appena sono stati scalfiti i suoi privilegi, si accorge improvvisamente dell’ insostenibilità della società ch’essa stessa ha creato e ancora sostiene.

Non per nulla gli Egiziani consideravano l’Occidente (Imunet) la dimora dei morti, e quest’idea riviveva nella famosa lettera dell’imperatore giapponese a quello cinese (Sol Levante contro Sole Calante), come pure nell’idea hegeliana, e poi spengleriana, dell’Occidente come Tramonto: gli “Occidentali” sono, oggi come allora, i morti viventi, gli zombie, come i potenti italiani ,che secondo Pasolini, citato da Mauro,” agiscono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari, in quanto potenti essi sono già morti e il loro vivere è un sussultare burattinesco”.

Per tutto questo, come scrive Mauro, “la garanzia viene dal non sapere, dal non essere conformi al linguaggio degli esperti”. Questo, secondo mentalità dei populisti, ma però potrebbe aprire la strada a un’altra, più autentica, sapienza, dischiudendo i giacimenti incolti della conoscenza, celati nelle civiltà antiche e “orientali”, nelle culture demonizzate, come quelle dell’ Europa Orientale,  dei Gesuiti, dell’Illuminismo non “radicale”, nel decadentismo, nell’esperienza concreta dei mondi del lavoro e del management, nelle dottrine giuridiche ed economiche sacrificate, come la concezione istituzionale del diritto, il keynesismo militare….

ll generale Maleter, comandante supremo       dell’                         Esercito Ungherese, fucilato per l’insurrezione di Budapest

2.Sovranismo e “angelismo”

La pubblicistica “mainstream” designa dunque, con il termine “sovranismo”, cose fra loro diversissime: la riaffermazione, fatta da Trump, dell’egemonia americana sul mondo, e la sua negazione da parte di Putin; il rifiuto, da parte di Orban, dell’università ungherese di Soros, e la pretesa di Bannon d’imporre la propria “Accademia” agl’ Italiani, ecc…Cos’hanno in comune tutte queste cose? Appunto, una pretesa (seppur vaga) di”auto-affermazione”, l’atteggiamento, che un tempo era normale da parte di tutti, di voler affermare il proprio punto di vista contro quello di altri, quello che il poeta ungherese Vörösmarty chiamava essere ”orgogliosamente volti versi il mondo”. Erano assertivi, in questo senso, tutti gli eroi culturali delle antiche civiltà: Mosè e Achille,  Ulisse e Leonida, Augusto e Gregorio VII,  Machiavelli e Alfieri, Foscolo e Garibaldi,  Nietzsche e D’Annunzio, oltre che, ovviamente, i Grandi Dittatori, Gandhi, Spinelli, De Gaulle, Che Guevara, Papa Wojtyla, Gorbacev, Chavez . Soprattutto sono, oggi, assertivi tutti i capi di Stato del mondo, salvo quelli europei.

Perché mai gli Europei di oggi non sono, e non debbono, essere assertivi? Una spiegazione può essere quella tentata da Giovanni Orsina, che parla, nel suo articolo su “La Stampa” del 6 gennaio 2019, dell’ “illusione della fine del potere”. Gli Europei non hanno voluto essere assertivi perché sono stati educati a rinunziare (o a fingere di rinunziare) all’ autorità, all’ arbitrio e al potere. Quest’illusione è, al contempo, antichissima, nuova ed effimera. Antichissima perché risale ai movimenti ereticali medievali, come per esempio i cabalisti ebraici, i mussulmani karmati e gli Anabattisti, i quali ritenevano che, essendosi oramai compiuta l’opera, rispettivamente, della Shekhinà, del Corano e del Vangelo, non vigesse più nessuna legge, neppure la Torah, la Sharia o i Dieci Comandamenti. Nuova, perché mai come oggi quest’idea aveva assunto una posizione dominante, mentre essa è assurta, alla fine del XX secolo, al rango di “cultura mainstream”.  Effimera, perché essa ha prosperato solo per l’ “espace d’un matin”, nel breve intervallo che separa due opere di Fukuyama:  “La Fine della Storia e l’ Ultimo Uomo”(1989) e “Decay of America”(2008).

In una sola cosa hanno torto le “retoriche dell’ Idea di Europa”: quando affermano che questa cultura  autolesionistica è una reazione all’esasperazione dell’ “autoaffermazione” da parte dei regimi totalitari (il Discorso del Rettorato di Heidegger), colossali esplosioni di arrampicamento sociale e di narcisismo collettivo, e con la conseguente immane tragedia della IIa Guerra Mondiale. Come contraccolpo, la sconfitta dell’Asse si è conclusa con un’azione accelerata di “rieducazione” (e, ancor più, di camaleontismo) che ha finito per andare al di là di quanto inizialmente voluto dai suoi stessi promotori (l’eliminazione del “carattere autoritario” dii cui parlava Adorno): fino alla distruzione, non solo dell’ambizione, ma addirittura della voglia di vivere (l’”età delle passioni tristi”).

Ma, nonostante questi  effetti dell’occupazione militare dell’ Europa e della sua “rieducazione”,  L’Europa del 2° Dopoguerra  non si crogiolava ancora  nell’ illusione di fare a meno di autorità, arbitrio e potere,  nonostante che questa  vivesse già celata  nel cuore delle ideologie allora dominanti: progressismo, marxismo, democrazia cristiana, scientismo….In quell’ epoca, l’integrazione europea non veniva ancora motivata attraverso le recentissime retoriche dell’ Idea d’Europa, bensì per altre, più credibili, vie:  con l’esigenza di por fine alla lotta per l’eredità imperiale di Carlo Magno (cfr. “Vesta” di Fichte); come strumento per reintegrare nell’ Occidente la Germania sconfitta; come un’ utopia tecnocratica (funzionalismo)… Quella classe dirigente aveva ancora relativamente  chiare le esigenze della politica, quando dibatteva  sulla politica economica dell’ Europa o dell’Euro come di una scelta, non già di  un destino ineluttabile. Anche per gli Europei, come prima per i Sovietici e gli Americani, l’infatuazione per la Fine della Storia è stata un abbaglio temporaneo, anche se più tardivo e perciò più persistente che altrove.

Concordo con Orsina che l’origine di quell’ abbaglio è stata legata alla fine del blocco sovietico. La carica teologica di utopismo ch’ era implicita nel concetto marxiano di rivoluzione, per quanto repressa dalla burocrazia sovietica, ne costituiva, come diceva Benjamin, il motore occulto. Anche il marxismo occidentale viveva grazie a quel motore, che serviva anche perfettamente a giustificare, di fronte allo stesso Occidente, l’accettazione da parte degli Europei del comunismo sovietico nonostante il suo carattere totalitario. Esaurita ogni carica rivoluzionaria dell’Unione Sovietica, quella radice occulta ha trovato modo di trasferirsi qui da noi, e di perpetuarsi in questa interpretazione chiliastica dell’Europa:  l’Unione Europea quale estinzione dello Stato (o, come scriveva Bukovski, l’Europa come nuova Unione Sovietica). In tal modo, l’establishment hegeliano di sinistra, egemone nella cultura novecentesca, ha potuto sopravvivere indenne al proprio ennesimo “avatar”: dal “lungo viaggio attraverso il fascismo” allo stalinismo, di qui al sessantottismo e al gramscismo, e, da quest’ultimo, all’atlantismo, sempre mantenendo intatte le stesse inossidabili posizioni di potere che sono proprio quelle che, come osserva Mauro, oggi gli vengono finalmente contestate.

In effetti, la presunzione che oramai le regole del “mondo” siano superate è tipica dell’eresia perenne, che attraversa trasversalmente il Buddhismo, l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam,  ed era stata respinta nel Concilio di Pataliputra e con l’ Arthashastra, denunziata da San Paolo nella IIa Lettera ai Tessalonicesi, attaccata da Sant’Agostino come “manicheismo” e rifiutata da Maimonide parlando dell’Era Messianica.

Certo, vi è anche chi sostiene che il chiliasmo sia insito nell’ essenza del messaggio evangelico, e che il carattere violento, intrinseco nel Sacro, sia stato perciò cancellato dal messaggio sulla morte e resurrezione di Cristo (René Girard). Buona parte del dibattito culturale verte, da 2000 anni ,sul tentativo di chiarire questo punto, ma l’unica conclusione credibile mi sembra essere stata quella di Tertulliano: “credo quia absurdum”.

Comunque sia, che quell’eresia perenne costituisca l’anima dell’attuale cultura mainstream lo si percepisce quasi fisicamente nel pathos con cui quest’ultima esalta ogni forma di decostruzione, di amalgama, di indifferenziazione: l’arte astratta, l’ibridazione, le “villes tentaculaires”… Questo venire allo scoperto delle radici chiliastiche della Modernità costituisce l’estrema sortita ideologica dell’Occidente, parallela all’ azione politica ed economica di Trump, che vedendo l’ America  sopraffatta nella competizione mondiale, rifugge dalle manovre illusionistiche dei suoi predecessori,  ricondo alle parole e alle  azioni forti: “America First”, “muri”, “sanzioni”, “dazi”. Nello stesso modo, l’”establishment”cuulturale ha messo al bando tutti gl’infingimenti conciliatori volti a nascondere gli obiettivi finali della rivoluzione tecnocratica: basta con le differenze sociali, di genere come di status, di razza, di stipendio o anche solo di visione del mondo; basta con la “privacy”: le macchine debbono saper tutto di noi; non ci deve più essere alcuna distinzione fra Europa e non – Europa…In tal modo, si tenta di sterilizzare preventivamente le prevedibili sacche di ribellione, che, in questo vuoto, non saprebbero più su che cosa poggiare.

La statua di Imre Nàgy, primo ministro ungherese fucilato dai Sovietici, è stata rimossa dalla Piazza del Parlamento

3.Il ritorno all’ethos dell’Epoca Assiale

Certo, c’è stato un momento in cui sembrava che tutto il mondo credesse acriticamente in questo tipo di  chiliasmo, religioso o secolarizzato: dai tempi della Rivoluzione Culturale cinese a quelli della Teologia della Rivoluzione, della Fine della Storia, della politica di Internet, fino a quelli degli Hojjatiyyeh di Ahmadinejad. Sembrava che non vi fosse alcuna speranza per le forze della vita contro quelle dell’ autodistruzione.

Tuttavia, quello non è stato, fortunatamente,  che un breve momento: la Rivoluzione Culturale si è rivelata una sanguinosa lotta di potere, dimenticata dallo stesso establishment cinese; la Teologia della Rivoluzione si è infranta  contro la resilienza dell’ egemonia  Yanqui; la Storia non è finita, ma continua attraverso l’Islam politico, la Cooperazione di Shanghai, la Via della Seta; Internet si è rivelato essere quello che diceva Putin, un progetto speciale della CIA, e, infine, nel Levante non è arrivato il Mahdi, bensì l’Armata Russa.

Oggi, tutti nel mondo sono più convinti che mai, ciascuno a suo modo,  della necessità della propria assertività: gli Americani e i Cinesi, i Russi e gl’Indiani, i Turchi e gl’Israeliani, i teologi della liberazione e i teocon, gli sciiti e i sunniti, i teorici dell’ HIndutva e i sionisti…Tutti gli equilibri mondiali poggiano (instabilmente) su quest’ assertività universale: se gli Americani non fossero assertivi, la leadership mondiale passerebbe automaticamente ai Cinesi, ma anche se questi ultimi abbassassero per un momento la guardia, gli Americani deprimerebbero a tale punto l’economia cinese, da provocare rivolte che disgregherebbero lo Stato, facendolo tornare ai tempi dei Signori della Guerra. Se la Russia non fosse assertiva, le opposte fazioni tornerebbero ad affrontarsi armi in pugno al centro di Mosca e nel Caucaso come ai tempi di El’cin. Così, l’India deve battersi per non essere tagliata fuori dalla Via della Seta, la Turchia per non perdere il Kurdistan e gl’Israeliani la Cisgiordania; i teologi della Liberazione per non essere cancellati dal Vaticano, e così via…

Alla fine, scrive Orsina, tutti “ci chiediamo chi abbia mai il potere di difenderci dai pericoli globali e di riequilibrare quelle gerarchie surrettizie che l’ipocrita manto della neutralità rende ancora più insopportabili”. Peccato che nessuno dia, in Europa, la risposta giusta, vale a dire : il potere di difenderci e di abbattere le gerarchie immeritate e oppressive ce l’abbiamo soltanto noi. Non ci resta che prendercelo con le nostre stesse mani, come Ulisse quando appare armato di tutto punto sulla soglia del megaron occupato dai Proci.

Come ciò sia possibile lo ha mostrato una trasmissione messa in onda circa una settimana fa dalla rete greca RTE, in contemporanea da Pechino insieme alla televisione cinese CGTV e con le televisioni indiana ed egiziana: un dibattito fra gli ambasciatori dei quattro Paesi ed intellettuali degli stessi, sul “dialogo fra le civiltà”. Il senso della trasmissione era che i Paesi eredi delle grandi civiltà (europea, confuciana, indica e medio-orientale) dovrebbero coalizzarsi per risolvere i problemi mondiali, nello spirito di un mutuo riconoscimento e senza l’egemonia di nessuno, e sulla base di alcuni, pochi,  grandi principi comuni, e delle specificità dei diversi popoli. I valori comuni al mondo intero, o, almeno, agli eredi delle grandi civiltà del passato, quelli che Kueng chiama “spessi”, sono, a mio avviso, quelli che caratterizzavano l’Epoca Assiale di cui parlava Jaspers,  e di cui ha scritto recentemente Jan Assmann: senso della comunità; dimensione spirituale; differenza; riconoscimento reciproco, meritocrazia.

Non per nulla, dinanzi alla nuova stazione di Lanzhou, da cui partono per “Da Qin” i treni ad alta velocità della Via della Seta, sono stati costruiti una Sfinge, un Partenone e un Taj Mahal, come per chiarire, ai Cinesi che attraversano la Porta di Giada, che sono quelli gl’interlocutori che il Paese di Mezzo cerca nel Tian Xia (Ecumene).

La vittoria di Solidarnosc

4.Rovesciamento del senso dell’integrazione europea

Da quest’evoluzione culturale del clima politico mondiale emerge l’urgenza di un ennesimo capovolgimento del senso dell’integrazione europea. Nella loro prima fase, che va dalle Crociate agli “Stati Uniti d’ Europa” di Victor Hugo, i progetti d’integrazione europea (Dubois, Dante, Podiebrad, Sully, St Pierre, Rousseau, Alessandro I) miravano a scavalcare Papato e Impero per affermare la sovranità dei principali Stati nazionali (Francia, Boemia, Polonia, Italia, Inghilterra, Russia…), oramai capaci di organizzare autonomamente la loro “politica estera e di difesa comune”, vale a dire le Crociate, e, poi, il colonialismo (Riccardo Cuor di Leone, Luigi XI, Baldovino di Fiandra, Bonifacio del Monferrato, Napoleone…). In una seconda   fase, essi avevano costituito uno degli stratagemmi delle vecchie élites aristocratiche e finanziarie per aggirare le nuove egemonie russa e americana e sventare, nello stesso tempo, la “ribellione delle masse” (Coudenhove-Kalergi). Nella terza, l’integrazione europea fu, come scrive Toni Negri, il frutto di un imbroglio per “vendere” il protettorato americano di cui parlava Brzezinski come se fosse l’espressione di una spontanea conversione dal nazionalismo all’utopismo, all’ internazionalismo e alla rinuncia all’ assertività, come catarsi della Seconda Guerra Mondiale e della Shoah (Juenger, Spinelli, Monnet, Schuman). In tal modo  l’Europa poteva porsi come concorrente, quanto a progressismo, del comunismo sovietico, riuscendo perfino ad accaparrarsi l’eredità del trockismo e a presentarsi indirettamente come l’antemurale dell’ America.

Oggi, l’integrazione europea, in seguito al mutamento del contesto storico, politico e tecnologico,  non può che assumere un ancor diverso significato (la “trasmutazione di tutti i valori” di cui parlava Nietzsche). In seguito all’ impossibilità per l’Occidente di unire il mondo con il confronto militare, al centro della competizione mondiale troneggia la competizione digitale. La convergenza intorno all’ idea di progresso si sta liquefacendo, e la narrazione dell’Europa quale avanguardia dell’ estinzione dello Stato non has più alcuna presa, mentre incombono il depauperamento dovuto al gap tecnologico e il timore delle macchine intelligenti.  Gli Europei sono stanchi di essere i perdenti della Storia. La mancanza di un pensiero, di un progetto; la corruzione generalizzata; la debolezza dell’economia, derivano tutte dall’aver accettato di non poterci difendere da soli. L’attuale voglia di sovranità si alimenta dunque anche, oltre che da un naturale succedersi fra le generazioni, dall’inconscio sentimento che, a partire dalla Dottrina Monroe e fino al “Destino Manifesto”, dai “rent- lease agreements” ai 14 Punti di Wilson, dalla Carta Atlantica alla Nato, dalla Dottrina Brezhnev alle sanzioni alla Russia e all’ Iran, si è oramai consumata la completa “capitis deminutio” dell’ Europa, che ora occorre  ribaltare.

Oggi sta dunque finalmente tornando di moda anche in Europa, dopo Israele e l’Islam, la Russia e la Cina, l’ India e la Turchia,  il contrario dell’auto-negazione, vale a dire l’assertività su tutti i fronti: culturale, politico, di costume, tecnologico, economico e militare, così come hanno già fatto gli altri grandi popoli, e, in particolare, quelli eredi delle altre grandi civiltà, che stanno riconquistando tutti il loro posto centrale nel mondo. Perciò, per realizzare questa risurrezione dell’Europa, dovremmo studiare e copiare i punti di forza degli altri popoli: l’informatica degli Americani; il coordinamento dei Cinesi; lo spirito marziale dei Russi; la saggezza degli Indiani; la spiritualità degl’Islamici…

Poco importa che, per ora, quest’assertività riguardi soprattutto paesi alla periferia dell’ Europa (Russia, Turchia, Inghilterra, Ungheria, Polonia) e si esprima in un ritorno di fiamma dei piccoli nazionalismi  (Scozia, Catalogna). Ciò che conta è che si rifiuta l’idea che l’omologazione mondiale abbia comportato dei vantaggi per gli abitanti del nostro Continente, o per certe sue parti.

Giustamente il manifesto di Romano Prodi per la bandiera europea afferma che “di fronte alla potenza americana e alla crescita cinese nessun paese da solo può conservare ciò che è stato conquistato”. Però, l’Europa dei dazi e delle sanzioni, della recessione provocata ad arte, non può più accontentarsi di conservare, deve riconquistare ciò che ci è stato tolto. Giustamente, quello proposto da Prodi con la giornata della bandiera europea, non vuol essere un compito rivoluzionario, ma il nostro, invece, sì. Di conseguenza, sì all’orgoglio per la bandiera europea, ma non già come passaggio intermedio verso uno Stato tecnocratico mondiale, bensì quale roccaforte delle nostre identità contro il governo delle Macchine Intelligenti. Dave Eggers, autore del romanzo “L’opera struggente di un formidabile genio” e direttore della rivista letteraria americana  McSweeny’s, sta mettendo in guardia contro l’eliminazione di tutte le libertà individuali per via del controllo a tappeto realizzato da Internet, e i sistemi di organizzazione sociale che da esso derivano. In particolare, afferma che ” l’ascesa dell’intelligenza artificiale distruggerà l’essenza stessa dell’ essere umano.

Soprattutto, se pretendiamo di riappropriarci -contro le identità gerarchiche dell’ Oriente e contro il “rischio esistenziale” delle Big Five occidentali- del nostro ruolo tradizionale di portatori per antonomasia dello spirito di libertà (come ci legittimano a farlo le nostre tradizioni federali, laiche e cavalleresche), dobbiamo dimostrarci propositivi circa un nuovo modo di essere liberi nel XXI Secolo, che tenga conto della Società delle Macchine Intelligenti. Per riprendersi l’“intellectual leadership” del mondo intero, l’Europa deve essere la prima a dimostrare concretamente che si può vivere in un mondo automatizzato solo conservando le proprie libertà individuali e l’essenza stessa dell’essere umano, o almeno di quell’ umanità che abbiamo in comune con gli altri grandi popoli della Terra grazie all’ eredità dell’ Epoca Assiale.

Anche se non risolve certo questa fondamentale problematica, la legislazione informatica europea è la più avanzata del mondo, ma la sua attuazione pratica (sociale, tecnica, culturale, militare e legale) è resa impossibile dall’ integrazione fattuale dell’ Europa nel complesso informatico-militare occidentale. Proprio per fare dell’Europa il vero modello della libertà nel XXI Secolo, per realizzare una nostra autonoma cultura delle macchine, ispirata a personalità e libertà, e per attualizzarla senza l’invadente presenza della NSA e delle Big Five, dobbiamo riprenderci la nostra sovranità.

Il tenente-colonnello sovietico Vjaceslav Petrov, che ha salvato l’Umanità dall’ autodistruzione bloccando la guerra nucleare scatenata dai computer

5.Il messaggio di Jan Palach, nel 50° anniversario del suo sacrificio.

La nostra vecchia generazione ha perduto un’occasione eccezionale per ridestare, quando aveva vent’anni, questo spirito di libertà dell’ Europa, quando il nostro coetaneo Jan Palach si era immolato con il fuoco per protestare contro l’invasione sovietica. Questa è la grande colpa del ’68. Palach non era, né uno sprovveduto, né un pacifista. Era uno studente di filosofia, rappresentante degli studenti nel Senato Accademico della Univerzita Karlova. Era arrivato a Praga da Vstaty armato di una pistola Browning, con cui voleva sparare sulle truppe d’invasione ed  aveva desistito solamente in seguito alle preghiere dei suoi compagni, che avrebbero deciso insieme di immolarsi uno per uno, estraendo a sorte l’ordine delle successive immolazioni. Forse, quella decisione era stata ispirata dai gesti analoghi di patrioti polacchi e ucraini, suicidi con il fuoco per protesta contro il ruolo avuto dalle truppe polacche e ucraine nell’ invasione della Cecoslovacchia, e forse, in ultima analisi, da quella dei bonzi vietnamiti. I Cechi si erano forse vergognati di vedere confermata la loro fama, fra i popoli slavi, di popolo imbelle e servile. Jan Palach sarà infatti l’opposto di Karel Čapek e del “buon soldato Švejk”. Dopo cinque mesi dall’ invasione, si sarebbe suicidato, però sempre incitando fino all’ultimo momento, dal suo capezzale, a indire uno sciopero generale illimitato in Cecoslovacchia contro l’invasione sovietica. Altri sette lo seguirono.

Non ci furono, né lo sciopero generale in Cecoslovacchia, né mobilitazioni generali in nessuno Stato europeo, né all’ Est, né all’ Ovest, e questo in un momento in cui intere città (come Parigi, Torino o Reggio Calabria) venivano sconvolte da volente manifestazioni di piazza per motivi ben più futili. Le scarne reazioni contro l’invasione furono ovunque timide e partigiane. Nessuno si accorse che l’Europa stava perdendo qualunque dignità, come qualunque popolo che si lascia occupare da popoli stranieri senza reagire. Quei pochi che, come noi, se ne accorsero, tentando di raccogliere nelle nostre città il guanto lanciato da Palach, ebbero modo di vedere come questo messaggio cadesse nel vuoto, in una società autoreferenziale e fanatica, incapace, non solo di padroneggiare gli eventi, bensì perfino di comprenderli. Allora, chistava con Jan Palach era considerato un nemico.Ricordo solo che a Torino fummo inseguiti da una folla inferocita (compresi dei pubblici ufficiali) per avere esposto una bandiera cecoslovacca.

Di fronte a quest’ Europa decadente, il gesto di Palach e dei suoi, apparentemente nichilista, si era rivelato in realtà il massimo dell’autoaffermazione, elevando questo sacrificio a forma suprema di azione, come quelle di Leonida e soprattutto di Socrate, modello insuperato di filosofo secondo il maestro di Palach, Jan Patočka, il “Socrate praghese”, morto anch’egli in circostanze drammatiche come conseguenza degli interrogatori seguiti alla fondazione di Charta 77.

Uomini come Petrov, Palach e Patočka, degni eredi degli eroi dell’ antichità,  e non uomini politici opportunisti e da tavolino, dovrebbero essere commemorati degnamente dalle Istituzioni.

Se l’Europa Centrale e Orientale è oggi in fiamme non più contro l’Unione Sovietica, bensì contro quella europea, ciò è dovuto all’ “arroganza romano-germanica”, che, nonostante quegli anni, continua a disconoscere il ruolo centrale che i popoli dell’ Est, con la loro indomita tempra,  hanno avuto nella costruzione spirituale e politica dell’ Europa, per il quale essi meritano una posizione  centrale, non già periferica, nella direzione del nostro Continente..

2019 : “LA PICCOLA EUROPA E’ DIVENTATA UNA PREDA”

Mi piace utilizzare qui l’espressione usata da Carlos de Martin su “Affari e Finanza” per descrivere la situazione dell’economia e della società europee dinanzi alla guerra tecnologico-commerciale  e culturale in corso fra l’America e il resto del mondo. Essa è infatti particolarmente calzante per descrivere la situazione odierna dell’ Europa: spirituale, culturale, ideologica, sociale, tecnologica, politica, militare, economica…L’Europa, troppo piccola per fare alcunché, è sempre più vittima delle ambizioni altrui.

Questo è vero in tutti campi, ma soprattutto nella “politica della conoscenza” (cultura, informatica, ideologia, comunicazioni, religione, educazione, costume), che, nell’ attuale società, riveste un ruolo centrale.

E’ difficile nasconderlo quando le nostre elezioni (per esempio il referendum sulla Brexit), sono manipolate da Cambridge Analytica, quando non si riesce a tassare seriamente le big Five, quando praticamente tutte le grandi imprese europee hanno una maggioranza azionaria (o almeno una grande minoranza) di capitali extraeuropei (in Italia, più del 50% delle società quotate), quando invece non mi risulta che vi siano molte imprese americane, cinesi, russe o indiane controllate dall’ Europa.

1.La Certosa di Trisulti

In effetti, noi siamo dipendenti dall’ esterno perfino dal punto di vista culturale e religioso. Che la cultura costituisca un formidabile strumento di controllo politico è costituito dal plateale abbandono, da parte degli Stati Uniti, dell’UNESCO, abbandono motivato dalle scelte di politica culturale di quest’organizzazione, che rappresenta tutti i Paesi del mondo, e non può evidentemente riflettere solo i punti di vista degli stati Uniti, che rappresentano il 5% della popolazione mondiale.

Lo siamo, certamente, da moltissimo tempo, ma, fino a poco fa, ciò avveniva in modo impercettibile, con l’industria cinematografica le università americane la cultura pop, Internet. Oggi, invece, sono divenute praticamente la regola le invasioni di campo dirette, con la creazione in Europa di vere e proprie istituzioni culturali deliberatamente finanziate dall’ America per formare classi dirigenti europee americanizzate e quindi in conflitto con l’ambiente europeo circostante. Basti pensare alle precedenti iniziative in Est Europa di Soros, portatore di un liberalismo di sinistra d’impronta americana, e di Gülen, promotore in Turchia di un islamismo filo-occidentale partendo dalla sua casa-fortezza nel New Jersey.

Oggi, abbiamo la creazione vicino a Roma dell’istituto cattolico “Humanae Dignitatis”, creato con fondi americani per trasfondere alle giovani generazioni italiane “il pensiero di Steve Bannon”, contrastando così Soros, e, anche se non si dice, il Papa sudamericano.

Tutti costoro, per quanto fra di loro ostili, hanno in comune il fatto di rappresentare dei punti di vista ideologici particolari sul mondo partendo sempre dalla centralità dell’America. Ciò che è paradossale è che ciascuna di queste iniziative ha incontrato una resistenza da parte del territorio dove si sono istallate, anche se di segno molto diverso. Se Soros e Gülen sono nel mirino, rispettivamente, di Orban e di Erdogan, Bannon è nel mirino della sinistra italiana.

In effetti, nessuno può obiettare al fatto che in Europa si formino dei movimenti culturali, anche con legami all’ esterno, che interpretino in modo specifico e particolaristico certe tradizioni culturali: un cattolicesimo con caratteristiche europee, una socialdemocrazia con caratteristiche europee, un Islam con caratteristiche europee. Tuttavia, le tre iniziative di cui stiamo parlando si potrebbero definire, l’una, come un “cattolicesimo maccartista”, la seconda come un messianesimo secolarizzato, e, la terza un Islam politicizzato come il protestantismo americano. Quindi, l’imposizione, con la forza dei soldi, di punti di vista estranei alla nostra cultura, e il portare in Europa le lotte politiche americane.

Io capisco per altro tutti costoro, perché in Europa si è creato un vuoto culturale, e tutti i vuoti tendono ad essere riempiti.  In Europa, non esiste infatti un’Accademia dell’Identità Europea, volta a formare i futuri quadri dell’Europa secondo condizioni specifiche al nostro Continente (storia, lingue, filosofia, geografia, strategie, diritto, economia…), sulle orme di Erodoto, di Socrate, di Dante, di Matteo Ricci, di Grozio, di Clausewitz, di Kalecki…

Coloro che protestano contro le iniziative di Soros, di Gülen o di Bannon dovrebbero invece organizzare loro stessi una diversa Accademia Europea. Quest’ultima non  è oggi rappresentata, né dall’ Istituto Universitario di Studi Europei di Firenze, né dal Collegio di Bruges, nati a suo tempo con questa missione, ma che sono assolutamente muti e inattivi dinanzi alle grandi battaglie del nostro tempo per il futuro dell’Europa: pluralismo culturale; identità; missione storica; riforma delle istituzioni, crisi economica…, sulla falsariga dei “cantieri” che Alpina e l’Associazione Culturale Diàlexis stanno organizzando (“Baustellen Europas”).

Le nostre battaglie mirano anche a creare i presupposti per la nascita di una siffatta Accademia, premessa necessaria per la rinascita di una cultura europea e, di conseguenza, di un movimento politico veramente europeo. Una cultura dove le diverse tradizioni culturali dell’Europa possano essere rappresentate re confrontarsi

liberamente, senza pre-imposizioni ideologiche o teologiche.

2.Più del 50% delle azioni quotate in borsa in mani straniere

L’establishment continua a dire che non conta la proprietà delle imprese, bensì che queste investano nel Paese. Però, bisogna vedere che cosa tengono nel Paese: la cassaforte, la residenza degli azionisti, la sede fiscale, la holding finanziaria, i server, la residenza del management, i centri di ricerca, la direzione generale, gli uffici, le fabbriche o delle sedi commerciali. E’ ben difficile che la Microsoft, la Apple, Google o Facebook, invece di tenere i quartieri generali e i centri di ricerca nella Silicon Valley, li posizionino a Dublino o a Sophia Antipolis, come pure che la Huawei, la ZTE o Alibaba decidano di stabilire le loro centrali a Belfast, a Milano o a Monaco. Al contrario, la Fiat, dopo la fusione con la Chrysler, ha trasferito la sua direzione generale a Auburn Hill. E, tutto ciò, nonostante le varie agevolazioni fiscali che molti Paesi europei danno agl’investimenti esteri. Infatti, le cosa più importante è essere vicini al potere, sotto le cui ali si possono risolvere anche le vicende più disperate.

Questo ancor più nel caso delle imprese informatiche, che hanno in America (o in Cina) i loro uffici ideativi e i server dove sono immagazzinati i nostri dati, e in Europa hanno solo i commercialisti e i “call center”. Tant’è vero che America e Cina stanno penalizzando molto, ciascuna, le multinazionali con sede nell’ altro Paese, sostenendo (e giustamente), che queste svolgono un’opera di spionaggio a favore del proprio Paese d’origine. Invece, in Europa tutti fanno ciò che vogliono.

In queste condizioni, la ricerca spasmodica, da parte delle Autorità europee, di “investimenti esteri” si può leggere addirittura come una forma di tradimento verso l’Europa, poiché la maggior parte degli investimenti  rivela un carattere quasi coloniale: nella maggior parte dei casi, imprese che erano a loro volta delle multinazionali vengono declassate al ruolo di filiali locali e destinate a un progressivo svuotamento.

I problemi spesso evocati: la perdita di posti di lavoro, le delocalizzazioni, il furto di tecnologia, non sono che dei sintomi, delle conseguenze, dello spostamento del potere in corso a partire dalla 1° Guerra Mondiale.

Vediamo la situazione nei diversi settori dell’economia della conoscenza, dell’informatica e della difesa.

3.La lotta per il controllo digitale mondiale

Il tanto vituperato Trump si rende, in realtà, conto della realtà dell’economia mondiale realtà molto più dei politici europei e dei generali americani che si preoccupano tanto di qualche migliaio di soldati in Medio Oriente, mentre invece la vera posta in gioco in tutto il mondo è, oramai,  il controllo del sistema tecnologico e, in particolare, digitale, mondiale. Come ha dichiarato in una  a “Formiche” Ermano Dottori, docente di Studi strategici alla Luiss Guido Carli e consigliere scientifico di Limes, Trump“Sta solo passando ad una modalità di controllo ’ in remoto’ degli affari mondiali. Creare un comando indipendente per le forze ‘spaziali’ questo significa. Inoltre, visto che la condivisione consensuale dei costi e dei ruoli nel mantenimento della sicurezza internazionale non funziona – il famoso livello delle spese militari al 2 per cento del Pil in area Nato è più lontano che mai – Trump la impone per default. E in questo opera esattamente come il suo predecessore Barack Obama. In effetti, si tratta di due presidenze strettamente connesse. Quella di Trump è il secondo tempo di un cambio di paradigma che è iniziato sotto il predecessore. “

Ci stiamo finalmente rendendo conto di questi cambiamenti di paradigma solo grazie all’ antipatia viscerale che l’establishment nutre per Trump, antipatia che sta perfino realizzando (fortunatamente) il miracolo di far cadere, a uno a uno, i miti che fino a ora avevano occultato il reale stato della cultura e della politica dell’ Europa. Se l’esito catastrofico delle politiche “umanitarie” occidentali ha riportato a Roma gli ufficiali libici (che il premier Conte addirittura bacia e abbraccia come faceva Brezhnev con i suoi vassalli), dopo il breve intervallo in cui si era inneggiato al linciaggio del, già alleato, colonnello Gheddhafi; se, dopo parecchi decenni di immotivate ed autolesionistiche privatizzazioni, si ricomincia a pretendere che i servizi strategici facciano nuovamente capo allo Stato; se  ci si accorge perfino che Trump  non fa che ripresentare in modo plateale quell’egemonia che il “Deep State” persegue da sempre, non avremmo però sperato, almeno per ora, che, anche se per vie traverse,  Macron arrivasse addirittura a rivalutare  la teoria gollista della “force de frappe à tous les azimuts” (la difesa in tutte le direzioni), né a tassare le Big Five anche in assenza di un accordo a livello europeo (venendo subito imitato dal “Governo gialloverde” italiano).

Abbiamo invece sentito il presidente francese invocare addirittura un esercito europeo “anche contro gli Stati Uniti” (ma guarda caso, dopo pochi giorni si sono scatenati i “giubbotti gialli”). Quanto alla “web tax”, essa è rispuntata fuori, dopo la vergognosa marcia indietro della UE, grazie alla necessità, per Italia e Francia, di fare quadrare i conti dello Stato per mantenerli all’ interno dei “Parametri di Maastricht”. Con il che abbiamo avuto, “a contrario”, la prova che l’ininterrotta crisi economica dell’Europa deriva soltanto dal trasferimento occulto di risorse negli Stati Uniti, tramite i costi della NATO, le royalties, l’erosione fiscale e il trasferimento di dati. Basterebbe una politica più assertiva dell’Europa, che puntasse, non soltanto a riequilibrare parzialmente queste partite, bensì anche a recuperare le enormi risorse già trasferite negli ultimi 70 anni, e i famosi deficit di bilancio scomparirebbero come per incanto.

4.Macron come De Gaulle?

Insospettisce certamente, a questo proposito, il fatto che, non appena Macron ha lanciato questa sua nuova tendenza neo-gollista, siano spuntati i “gilets jaunes”. Come pure che, non appena l’Unione Europea ha approntato il suo “Special purpose vehicle” per aggirare le sanzioni all’ Iran, sia spuntato l’arresto di Meng Wanzhou, la figlia dell’azionista di riferimento della Huawei, accusata di aver fatto esattamente la stessa cosa. Come per ricordare a Heiko Maas, a Federica Mogherini, e perfino a Xi Jinping,  che ancor oggi, in tutto il mondo, comandano  sempre gli Stati Uniti, che hanno ancora le leve per rovinare la vita a qualunque loro oppositore, sia egli un blogger o un manager, un Australiano o una Cinese.

La stampa russa è fermamente convinta che la rivolta dei “gilets jaunes” altro non sia che l’ennesima “rivoluzione colorata” finanziata da Washington per destabilizzare un politico straniero non abbastanza succube. Questo giustificherebbe la voce, sparsa dai servizi segreti francesi, che la rivolta altro non sia che un tentativo di colpo di stato, così come il Maggio Francese era stato un tentativo, in parte riuscito, di abbattere De Gaulle, colpevole di aver creato la “force de Frappe” (1966, viaggio in Russia; agosto 1968: test nucleare programmato all’atollo di Muroroa).

Le voci su un intervento americano dietro i “gilets jaunes” sono avvalorate dai tweet di alcuni fedelissimi di Trump, che hanno asserito che, tanto nelle manifestazioni dei “gilets Jaunes”, quanto in quelle di Londra per la “Hard Brexit”, ci fosse gente che gridava “Vogliamo Trump”. D’altronde, Trump, Bannon e i loro simpatizzanti in Russia sostengono apertamente i “gilets jaunes”.

Comunque, oggi, l’Europa è più distante che mai dalla possibilità di dotarsi di una sua credibile forza nucleare, la quale presuppone la capacità di tenere sotto controllo in modo integrato l’intero “Sistema Paese”, così come fecero, durante la corsa alla bomba atomica, i Paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale, e come pretendono le più recenti dottrine militari degli USA e della Cina. La guerra nucleare essendo basata sulla sorpresa, uno Stato nucleare è per forza di cose uno Stato altamente militarizzato, in cui ogni attività viene controllata in modo ferreo, in un permanente “Stato di Eccezione”, per contrastare ogni minaccia. E’ per questo che, negli USA, ci sono ben 16 diverse agenzie d’intelligence in concorrenza fra di loro, e una parte non indifferente della popolazione americana è, direttamente o indirettamente, a libro paga del Department of Defence. E’ per questo che, fin dalla 1° Guerra Mondiale, è in vigore una legislazione postale che autorizza un’ampia violazione della corrispondenza da parte dei servizi segreti-una legislazione che svuota completamente di importanza la tanto lodata legislazione europea sulla privacy- .

L’Europa di oggi manca di tutto ciò che serve per poter gestire efficacemente in sicurezza un conflitto totale. Di un’ideologia olistica, come quelle americana, incentrata sulla missione salvifica della “casa sulla collina”, capace di mobilitare il popolo intorno verso obiettivi di vittoria; di una cultura nazionale ben radicata come quella iraniana; di un’oligarchia  nazionale coesa come quella russa; d’ industrie nazionali di alta tecnologia come quelle indiane; di un’intelligence operante sul piano globale come quella israeliana; di un’industria informatica indipendente come quella cinese…

E, infine, oggi è dubbio proprio se la Francia sarebbe disponibile a mettere la sua “force de frappe” al servizio dell’Europa, come si era discusso negli Anni 50, prima della creazione della stessa.

Paradossalmente, l’Italia non sarebbe poi neppure mal piazzata in questa corsa, perché Leonardo (ex Alenia) produce navicelle spaziali riusabili che sono agilmente convertibili in missili ipersonici.

5.La Web tax in Francia (e in Italia)?

Se la bomba atomica europea continua a latitare, qualcosa sembra muoversi (ma a livello nazionale, italiano e francese) sul fronte della tassazione dell’e-commerce.

Quanto all’ Italia, la Web tax è oramai già compresa nella Legge Finanziaria appena approvata.

Quanto alla Francia, Emmanuel Macron ha dichiarato: “Le grandi società che producono profitti [in Francia] devono pagare le tasse in Francia. Semplicemente è giusto così. Di fatto

, le grandi aziende digitali “pagano in media il 9% di tasse in Europa, mentre le società tradizionali pagano il 23%”, come denuncia regolarmente Pierre Moscovici, il commissario europeo che sta gestendo la questione a Bruxelles.

Prendiamo ad esempio il  meccanismo di Google, basato su una sede in Irlanda.I redditi che affluiscono a “Ireland Limited” sono assoggettati alla Corporate Income Tax

irlandese del 12,5%, ma la base imponibile viene abbattuta grazie alla notevole deduzione

della royalty che la società corrisponde a Google BV (olandese) per l’utilizzo della tecnologia.

Google BV, a sua volta, paga una royalty di quasi uguale importo a Ireland Holdings, che

per il sistema irlandese è residente alle Bermuda, dove non esiste imposta sul reddito delle società.

Se il pagamento della royalty avvenisse in maniera diretta da Ireland Limited a Ireland Holdings, sarebbe assoggettato a ritenuta alla fonte in Irlanda, ma i Paesi Bassi non applicano alcuna imposta sulle royalties in uscita, ed effettuano soltanto un piccolo prelievo sulla differenza tra la royalty che Google BV riceve e quella che paga a Ireland Holdings.

6.Una nuova cultura economica europea

Nel totale abbrutimento culturale che caratterizza la nostra società, è ovvio che anche la cultura economica sia oramai atrofizzata. I nostri professori, educati alla scuola liberista o a quella marxista, alla scuola neoliberale o a quella keynesiana, sono oramai totalmente avulsi dalla realtà.

Negli anni ’60, teorizzavano il salario come variabile indipendente; negli anni ’70, le “nuove classi emergenti”; negli anni ’80, le liberalizzazioni; negli anni 90, le privatizzazioni; nel primo decennio del XXI° secolo, l’equilibrio di bilancio, e, ora, il “deficit spending”. Ma, nonostante tutte le loro peregrinazioni ideologiche, non sono riusciti a prevedere, né lo choc petrolifero, né la crescita della Cina, né la crisi permanente dell’ Europa, né il ruolo dell’ informatica… E si capisce anche perché. Il loro ruolo è stato quello d’impedire agli Europei di rendersi conto del progetto occulto per ridimensionare eternamente l’ Europa, a favore dell’ America, dell’ URSS, dei Paesi afro-asiatici, e, ora, anche della Cina. Così, si trovava sempre un capro espiatorio diverso dal colpevole effettivo: le assurdità del consumismo venivano attribuite alle colpe dei capitalisti; la perdita di competitività, alla Guerra del Kippur; il decadimento culturale a vizi reconditi del carattere italiano; la crisi finanziaria a delle anomalie del mercato finanziario… Ovviamente, nessuno ha mai parlato del contingentamento dell’Europa da parte dell’ America, di cui discorreva già Trockij; della dipendenza delle nostre aziende…

Comunque, la verità si sta vendicando. Questa società neo-coloniale e amorfa non è capace di difendere gli Europei, di produrre un progetto di avvenire, di stimolare la nascita di nostre multinazionali (i cosiddetti fantomatici “campioni europei”, in particolare nel settore informatico…).

Sta ora a noi costruire una cultura economica europea di carattere olistico, che tenga conto non solo dei fatti materiali, ma anche di quelli cognitivi ed etici e consideri realisticamente il peso delle questioni di potere e militari, ecc..

 

 

 

 

LA LIBERTA’ DEI POSTMODERNI NELL’ERA DELLE MACCHINE INTELLIGENTI

 

Hannibal ad portas

Nonostante che buona parte delle questioni di attualità (dalla geopolitica a Internet, dalla sessualità ai monopoli) venga “venduta” dai media come un problema di libertà, in realtà il tema della libertà è uno dei tanti che oggi non viene affrontato in modo adeguato perché, a dispetto dell’impostazione storicistica della cultura contemporanea, ci si rifiuta poi di applicare quello stesso storicismo alle realtà di oggi. Anche perché, se lo si facesse, emergerebbero tante scomode verità.

Non è stato sempre così, perché, per esempio, nell’ Ottocento si era avuto un dibattito accanito circa la differenza fra la libertà degli antichi e quella dei moderni (Benjamin Constant).

E così, mentre non ci si stanca mai di ribadire che, dopo la rivoluzione digitale, nulla è più uguale nel mondo, poi, in realtà, si continua ad affrontare ciascun problema (in questo caso, quello della libertà), sotto l’angolo visuale del 20° secolo, dimenticandosi che, oramai, tutto è cambiato.

E’ pur vero che la libertà è uno di quei temi che sono attuali sempre, e, tuttavia, nessuno potrà dire che la libertà di un ominide sia la stessa cosa di quella di un cittadino greco, oppure di un cavaliere medievale, di un borghese ottocentesco o di un lavoratore del ‘900. Né che la libertà dei Texani sia la stessa cosa della libertà nel Sahara o in India.

Nello stesso modo, dopo la rivoluzione digitale, non valgono più, nel parlare di libertà, i criteri che valevano ancora vent’anni fa.

Se è vero, dunque, che, in astratto, la libertà resta sempre la stessa, essa è sempre stata, in realtà, non già un’essenza metafisica (come la vedeva, ad esempio, Croce), bensì “un fascio di concrete e storiche libertà”. La libertà ontologica (il “libero arbitrio) consiste nell’ idea che, all’agire umano, sia aperta una (seppur minima) libertà di scelta. La libertà morale consiste nell’ adeguarsi all’etica a dispetto di tutti i condizionamenti sociali: libertà vo cercando chè sì cara come sa chi per lei vita rifiuta. Le libertà civili sono a loro volta tante: si concretano nella possibilità d’ influenzare effettivamente la cosa pubblica (uno“jus activae civitatis”), che comprende anche l’autodeterminazione nazionale (sovranità);in quella di vivere anche in modo non conforme alla morale dominante (anticonformismo); in quella di esprimere le proprie convinzioni su temi sensibili (visibilità), in quella di trovare reali occasioni di utilizzare proficuamente i propri talenti (libertà economica)…

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Cincinnato

1.Levoluzione delle libertà, dal Dopoguerra a oggi

Tutte queste libertà incontrano, oggi, condizioni di sviluppo radicalmente diverse dal passato, e già soltanto da quelle del Secondo Dopoguerra.

In quel periodo, si temevano soprattutto i limiti alle libertà che si erano affermati in connessione con la Guerra Civile Europea: la coercizione , poliziesca e militare, dello Stato di Eccezione, che imponeva spesso comportamenti contrari alla morale comune, come la guerra stessa e la violenza sui  civili innocenti; la censura; le persecuzioni politiche e razziali…Perciò si esaltava soprattutto la Libertà dei Moderni, fondata su un diritto mite, che permettesse a tutti di occuparsi del “doux commerce, allontanando le sirene violente delle ideologie totalitarie. Si tendeva già allora a negare il “libero arbitrio” in nome di concezioni meccanicistiche dell’uomo e come reazione occulta alla divisione del mondo in blocchi (il condannati a essere liberidi Sartre).

Oggi, invece, la libertà viene coartata in modi assai diversi, proprio attraverso leccessiva cura per la stabilità del sistema sociale, tipica dell’economicismo e del “diritto mite”: con l’imposizione di un conformismo quasi assoluto (il Pensiero Unico), degno dei più estremi fondamentalismi (manicheismo, anabattismo, mahdismo, Taiping); con  il controllo elettronico capillare di qualunque seppur minimo aspetto della nostra vita (i Big Data); con lo svuotamento di tutti i ruoli sociali (la web democracy), e la trasformazione progressiva di tutti i cittadini in disoccupati tecnologici che dipendono dall’ assistenza pubblica, poco importa se nella forma di incentivi alle imprese (assistenzialismo), di sussidi di disoccupazione, di cassa integrazione e/o reddito di cittadinanza (populismo), ecc…

Fareed Zakaria e le democrazie  illiberali

2.Convergenza dei sistemi politici

Dal punto di vista dello svuotamento della libertà sostanziale, si nota una convergenza sempre più marcata fra le liberaldemocrazie occidentali e gli Stati gerarchici dell’Asia, dell’ Africa e dell’ America Latina.

Questa convergenza si pone  su vari livelli:

a)concentrazione del potere in un unico centro direzionale (il complesso informatico-militare”), che fissa alla società, attraverso le nuove tecnologie, obiettivi di medio-lungo, che mirano al dominio mondiale;

b)la polarizzazione fra unarea del consenso, potenzialmente universale, che non mette in discussione il complesso informatico-militare, e unarea del dissenso, respinta sempre più verso la marginalità, lesclusione e il terrorismo;

c)la censura, da parte dei gatekeepers, di qualunque discorso politico concreto mirante messa sotto controllo della tecnica;

d)la semplificazione del dibattito politico-culturale attraverso schemi, quali quelli populismo-democrazia, che non hanno alcun nesso con le scelte concrete da adottarsi, e, quindi, non  permettono di formulare alcuna reale alternativa all’ipertrofia fuori controllo delle Macchine Intelligenti;

e)la riduzione  di qualunque dialettica storica al conflitto fra i complessi informatico-militare di quelle pochissime potenze che sono in grado di gestire un sistema digitale completo (USA e Cina; in prospettiva, forse, Russia, India e Israele).

In questa situazione, le libertà del cittadino europeo sono state praticamente annullate. Il Servo Arbitrio di Lutero ha trovato il proprio inveramento nella capacità di autoapprendimento dei “Big Data” (come diceva Asimov, “oramai lunica cosa inevitabile sono i robot”). Il diritto all autodeterminazione non esiste più, come dimostra il fatto che , ogniqualvolta si è compiuto un qualche tentativo di  cambiare il ruolo dell’ Europa nel mondo (per esempio con la Force de Frappe di De Gaulle, e. oggi, con l’esercito europeo di Macron), si è sempre scatenata in modo opaco una fulminea rivolta di piazza. La libertà di pensiero è distrutta dall autocensura, che impedisce che si tocchino i tabù del “progresso” della “pace” e della “differenza”. La libertà di comportamento è distrutta daglimperativi del politicamente corretto, delle politiche di genere, delle contrapposte emotività legate alle migrazioni. La privacy è completamente distrutta dal libero accesso, da parte del sistema informatico-militare, ai nostri più riposti segreti. La libertà economica è distrutta dal contingentamento dell Europa con pretese “questioni di sicurezza”, sanzioni e dazi, che, nel loro insieme, generano una crisi permanente dell’ economia europea, con i suoi corollari della debolezza delle imprese e della disoccupazione strutturale.

A loro volta, i  sistemi gerarchici dell’ Asia, dell’ Africa e dell’ America Latina (e, in primo luogo, quello cinese) si sono formati sulla base di quella che, con René Girard,  potremmo chiamare rivalità mimetica.  Per dirla alla giapponese: “tecnica occidentale, cultura asiatica”. Basti pensare ai Taiping, miscuglio di San Jiao, messianesimo puritano e socialismo; all’ esercito del Kuomingtang addestrato dall’ Armata Rossa, al PCC clonato sulla falsariga del PCUS; ai grattacieli cinesi progettati dalle archistar occidentali, perfino alla Nuova Via della Seta, inventata da Hilary Clinton…

Oggi, se, e nella misura in cui, nel mondo contano solo le potenze che dispongano di un autonomo “complesso informatico militare”, il problema numero uno degli Orientali  è quello d’impedire al complesso informatico militare americano di penetrare nelle loro società, il che implica la necessità di creare un  loro proprio sistema informatico-militare, che riempia gl interstizi lasciati vuoti fra Oriente e Occidente.

Il “Firewall”

3.La Società del Controllo Totale

La “Nuova Muraglia Cinese” (the Great Chinese Firewall) nasce anch’essa da un’idea americana, tipica del sistema informatico-militare USA. A partire dagli ultimi decenni del 20° Secolo, veniva chiamato Chinese Walls un sistema contrattuale, giuridico, organizzativo e informatico che doveva permettere di mantenere un regime di assoluta segretezza perfino fra i dipendenti di uno stesso ufficio. Ipotizziamo che un fornitore strategico abbia rapporti con due clienti fra loro concorrenti. Ebbene, i due clienti vincolano il fornitore a instaurare, al proprio interno, un sistema di “Chinese Walls”, grazie a cui i dipendenti dello stesso ufficio che trattano i componenti destinati ai due clienti non possano parlare fra di loro di questo argomento. Addirittura, le rappresentanze tecniche dei due clienti presenti nello stesso stabilimento non possono incontrarsi neppure alla macchinetta del caffè. Orbene, questo è, in piccolo, ciò che ha incominciato a verificarsi in grande  nei rapporti virtuali fra USA e Cina, dove la stessa Google è stata costretta a inventare e manutenere un Firewall che permettesse di isolare la propria rete  cinese da quella internazionale.

Anche il sistema di profilazione totale e di “credito sociale” oggi sviluppato in Cina, tanto dal settore pubblico quanto quello privato, non è che una clonazione di quelli in uso da molto tempo in Occidente, e documentati ad abundantiam da Assange,  da Snowden e da Schrems.

Di converso, i principi americani assomigliano sempre più , anche nel senso del controllo politico, a quelli cinesi. Secondo quanto dichiarato da Obama per giustificare il rifiuto di firmare un No-Spy Agreement con l’ Unione Europea, “i servizi segreti sono stati fondamentali per gli Stati Uniti fin dalla loro fondazione(basti pensare ai ruoli di Franklin e  di Jefferson in Europa). La Sentenza Schrems della Corte di Giustizia della UE ha dimostrato che il diritto di accesso delle 16 agenzie di spionaggio americane alla corrispondenza elettronica di cittadini e stranieri  si riallaccia ad una  base giuridica, nella legislazione postale americana, che risale fino alla 1a Guerra Mondiale. Del resto, le Big Five avevano messo a disposizione di Obama (chiamato  anche“il Presidente 2.0”), un intero grattacielo pieno di informatici per la sua prima campagna elettorale. Per la seconda, egli aveva utilizzato i dati sensibili di 10.000.000 di cittadini americani trattenuti fin dalla prima, senza lasciarli “in eredità”, né alla Casa Bianca, né al Partito Democratico. E’noto che Bush è stato eletto anche grazie ai dati ceduti da Facebook a Cambridge Analytica, e la Merkel a quelli di Deutsche Post.

Nel futuro, questa convergenza si accrescerà progressivamente grazie all’ Intelligenza Artificiale. Temo che l’assetto prossimo del mondo sarà la nascita di sistemi in cui il sistema informatico dominerà la vita intellettuale, politica, militare ed economica, e l’Umanità fungerà solo più da miniera da cui prelevare dati per la costruzione dell’Uomo Artificiale.

Il caso Huawei

4. Il conflitto fra i Complessi Informatico-Militari

L’unico aspetto positivo in questo scenario è l’esistenza di più sistemi informatico-militari in conflitto fra di loro, cosa che può permette anche a soggetti marginali (Russia, India, Israele, domani, l’ Europa) di affermare un barlume d’indipendenza. L’irrilevanza dell’Europa e la crisi delle nostre economie nasce proprio dall’attuale indisponibilità e incapacità dei nostri sistemi a generare, nonostante l’esistenza di questi conflitti, un sistema informatico-militare europeo autonomo.

Molti si chiederanno se valga comunque la pena che l’Europa si tuffi anch’essa in questo immane conflitto, visto che farlo è così difficile, e che comunque le Macchine Intelligenti sono condannate a dominare il mondo, eliminando la privacy, il libero arbitrio e perfino l’ Umanità.

A mio avviso, proprio perché credo nel Libero Arbitrio, non è detta l’ultima parola. La competizione per il controllo dell’ Intelligenza Artificiale costituisce proprio quell’ “Ultima Grande Battaglia” di cui parlava Nietzsche, riecheggiando più che mai gli antichi testi apocalittici, una battaglia intorno al significato della libertà e anche della storia. Il futuro informatizzato potrà    anche essere un futuro umano e un futuro di libertà, purchè l’Umanità lo approcci con un adeguato orientamento culturale,  mantenendo vivi i valori dell’ Epoca Assiale (cfr. Jan Assmann, “Achsenzeit”).Che, contrariamente a quelli odierni, erano valori “polemici”.Proprio gl’ Israeliti, i Greci e  i Romani, a cui tutte le vulgate europee fanno riferimento, erano popoli guerrieri, per cui libertà significava lotta continua per la propria autodifesa e autoaffermazione: Giosuè, Sansone, Davide, Achille, Ulisse, Leonida, Alessandro, Cesare, Costantino… Oggi, la lotta non è tanto contro altri popoli, e non è neppure una guerra fisica, bensì è la lotta contro il sistema informatico militare, una guerra d’ intelligenze (Laurent Alexandre). Tuttavia, essa richiede quelle stesse caratteristiche di lucidità, di fermezza, di coraggio e di abnegazione che furono di  Ulisse, di Leonida, di Cesare, di Costantino.

Leonida

5.L’Europa della libertà digitale

E’ in questo senso che l’Europa potrà, e, secondo me, dovrebbe,  rivendicare un ruolo nel futuro mondo delle Macchine Intelligenti: affiancandosi alle altre Potenze Continentali con un proprio, diverso, Sistema Informatico Militare, che non pretenda di comandare all’Umanità nel nome del Servo Arbitrio  e dell’ ineluttabilità del progresso tecnologico, bensì prenda invece  ordini dall’ Umanità.

Questo nuovo modello di interazione fra la società e il sistema informatico-militare potrebbe, e, a mio avviso, dovrebbe, emergere da una lotta per la sovranità digitale europea, che qualche politico (per esempio, Macron e Marine Le Pen) ha per ora solo timidamente accennato, ma che, in sostanza, resta soltanto una nebulosa idea astratta.

Come sempre, non mancano i documenti cartacei, anzi, ce ne sono fin troppi. Cito soltanto.

-la Direttiva 95/46/CE , sulla Protezione dei dati e la Direttiva 2006/24/CE , sulla Conservazione dei dati;

-la Comunicazione della Commissione al  Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale  e il Comitato delle Regioni: A Digital Agenda For Europe, Brussels 9.05.2010 COM (2010), 245
– Europe´s Digital Competitiveness Report 2010, https://ec.europa.eu/digital-agenda/sites/digital-agenda/files/european_competitiveness_report_2010.pdf, del 12 Agosto 2015;
-la Comunicazione  dalla Commissione al Parlamento Europeo,al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale e al Comitato delle Regioni: A Digital Single Market Strategy for Europe, http://ec.europa.eu/priorities/digital-single-market/docs/dsm-communication_en.pdf

Tuttavia, il problema è che l’intero sistema di Internet, con la sola eccezione del web cinese e dei suoi operatori, sono localizzati fisicamente o virtualmente negli Stati Uniti, sicché la normativa europea, fondata sui principi OCSE, non viene di fatto adempiuta, perché in contrasto con la legislazione postale americana, che è sostanzialmente una legislazione per il tempo di guerra, e quindi prevede un diritto illimitato delle autorità della sicurezza nazionale (americana), di violare sistematicamente la corrispondenza. Orbene, l’intero web è “corrispondenza”. Ne consegue che, quale che sia il contenuto della normativa UE applicabile, essa si rivelerà sempre una sfrontata finzione finché il controllo effettivo sul web europeo e sui dati degli Europei non sarà sottratto alle autorità e alle imprese americane.

Attualmente, sono in corso di attuazione normative sulla nazionalizzazione dei dati in Russia e in India, grazie alle quali i dati dei Russi e, rispettivamente, degl’Indiani, saranno custoditi nei rispettivi Paesi. Nulla di tutto questo in Europa.

Ovviamente, le conseguenze pratiche della nazionalizzazione dei dati dipendono da quale sia la legislazione informatica di un Paese. L’Unione Europea si vanta di essere il Paese più avanzato nella tutela dei suoi cittadini sul web, in particolare per ciò che riguarda la protezione della privacy, l’antitrust e la legislazione fiscale. Peccato che, come dicevo, queste splendide normative siano solo carta straccia, perché l’Unione Europea non ha la forza di farle applicare.

Volendo, invece, il giorno in cui i dati degli Europei fossero nazionalizzati, i server in cui fossero immagazzinati i dati degli Europei potrebbero essere posti sotto il controllo diretto dell’ Autorità Europea per la Privacy, gestiti dall’Europol sotto il controllo della Corte di Giustizia e difesi dall’ Esercito Europeo e dall’ intelligence europea. Nel sistema operativo di quei server, dovrebbero essere inseriti algoritmi che garantiscano il rispetto delle varie normative europee sull’accessibilità, conservazione e utilizzo dei dati,sulla lotta ai monopoli, sulla fiscalità internazionale e sulla difesa della sicurezza dell’ Europa.

La Repubblica Romana

6. Libertà politiche e rappresentanza

Il rapporto fra libertà e rappresentanza si regge da sempre su un equilibrio instabile. Nei periodi di lotta internazionale, come quello che stiamo vivendo, la gestione della cosa pubblica tende ad essere accentrata. Non per nulla, già le antiche forme repubblicane, come quelle romana e germanica, si trasformavano in monarchiche (Dictatura, Heereskoenigstum), per garantire l’unità della catena di comando. Questo spiega il fenomeno, altrimenti non comprensibile, delle cosiddette “democrazie illiberali”, che sono sistemi di comando unipersonale sovrapposti a costituzioni di democrazia rappresentativa: esse servono ad esigenze di difesa verso l’esterno. Basti pensare alla nomina di Putin per fronteggiare la guerra cecena, o all’accentramento del potere di Erdogan dopo il fallito colpo di Stato….

L’Europa Occidentale difficilmente potrà sottrarsi a questa tendenza. Per fare fronte all’ attacco delle macchine intelligenti, ma anche solo alle sanzioni e ai dazi di Trump, non bastano certo le deboli leadership nazionali, né tanto meno le inesistenti autorità europee; ci vuole un “Commander -in-Chief” capace di reagire senza indugio a manovre sotterranee e a colpi di mano.

Questo non significa affatto che non debbano esistere istituzioni più forti di rappresentanza, anche con forme di rappresentanza  speciale e di democrazia diretta. Ma tutto ciò dev’essere subordinato all’ obiettivo di difesa della libertà europea contro gli attacchi esterni, come ai tempi delle Guerre Persiane o di Hannibal ad portas.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ATTUALITA’ DI NIETZSCHE. COMMENTO A GIAMMETTA

ATTUALITA’ DI NIETZSCHE. COMMENTO A SOSSIO GIAMMETTA

Nell’articolo di Sabato 10 novembre su “La Repubblica”, Sossio Giammetta, cultore appassionato e competente  di Nietzsche, riapre (a mio avviso molto opportunamente), la questione circa l’attualità o inattualità di quel filosofo, che, oggi, equivale sostanzialmente  a quella della sua utilizzabilità per il nostro presente e per il nostro futuro. In breve, secondo Giammetta, Nietzsche si sarebbe sbagliato nel ritenersi “inattuale”, cioè troppo avanti rispetto alla sua epoca, in quanto egli, al contrario, esprimeva benissimo proprio quella cultura della crisi che avrebbe voluto contestare.

Con tutto il rispetto per Giammetta, non condivido questa valutazione, in quanto, invece, il mondo contemporaneo mi appare dominato, proprio come previsto da Nietzsche, da un immane contesa   circa l’ eredità nietzscheana, considerata da tutti più preziosa che mai, quale punto di partenza per interpretare  i conflitti circa l’avvenire dell’ Umanità. Il misconoscimento di questo aspetto della post-modernità è uno dei sintomi dell’ incapacità dell’establishment di comprendere il nostro tempo.

  1. Le interpetazioni del Superuomo

Infatti, le grandi forze culturali e politiche che aspirano a configurare il nostro futuro, vale a dire  la lobby post-umanista che gravita intorno alle Big Five dell’ informatica, una parte delle Chiese, e, infine, perfino la Cina di Xi Jinping,  si muovono, in ultima analisi, intorno all’ interpretazione  di quell’eredità, filtrata, a seconda dei casi, dal messianesimo progressista o dai Classici Confuciani. Cosa che non può stupire perché la “Nietzsche-Manie” è arrivata un po’ dovunque, attraverso Toennies, Spengler, Buber, Mann, Wilde, Trotskij, Lu Xun, Heidegger, Gehlen,  e ancora, attraverso la Nietzsche-Renaissance…

Più precisamente, quelle forze operano oggi, anche inconsapevolmente, sulla scia di una determinata interpretazione del mito del Superuomo, quella che potremmo chiamare genericamente “democratica”, fatta propria in particolare da Gianni Vattimo, quando aveva reso “Uebermensch” con “Oltreuomo”, e da Umberto Eco, quando aveva parlato del “Superuomo di massa”. Questo ”Oltreuomo” è una sorta di nuova specie, che succederà all’ umanità quale noi la conosciamo, presentandosi come un qualcosa di unitario. La sua superiorità deriverà proprio dall’essere unitaria: l’Umanità come un grande individuo, idea affermata espressamente dall’inventore della missilistica,  Tsiolkowskij, e dal Commissario del Popolo Lev Trockij. La più plastica incarnazione di questa visione del Superuomo è rappresentata proprio da Jurij Gagarin, un mito moderno alimentato anche dalla sua morte prematura e misteriosa.

Secondo quest’interpretazione, oggi dominante, il Superuomo realizzerà le aspirazioni recondite dell’ Umanità: secondo Ray Kurzweil, perché, attraverso la tecnica, invererà l’aspirazione buddhistica al nulla; secondo Teilhard de Chardin e secondo gli Hojjatiyyeh sci’iti, perché, attraverso l’unità fra uomo e natura, scienza  tecnica, ricostituirà l’originaria unità dell’ Essere in un “Punto Omega” che rappresenterà la seconda, conclusiva, venuta di Gesù Cristo (e, nella variante islamica, anche del Mahdi); secondo Kang You Wei, l’ultimo ministro imperiale cinese, perché, attraverso una sorta di “socialismo con caratteristiche cinesi”, si sarebbe restaurato il  DaTong, la mitica Grande Armonia dell’ Impero Zhou.

Giammetta ha parzialmente ragione nel vedere in Nietzsche anche il punto di partenza della genesi filosofica delle culture dell’ Asse. Esse condividevano   infatti un secondo gruppo d’interpretazioni del nietzscheanesimo: quelle imperialistiche. Anche per queste, il Superuomo era un’entità collettiva, lo “Herrenvolk”, che, riportato all’ antica purezza dallo Stato Etico, potrà ricostituire la naturale gerarchia umana, ponendo così fine all’era della “décadence”.

A mio avviso, vi è ancora una quarta altra interpretazione, per ora minoritaria, del Superuomo, che chiameremo “eroica”: quella che lo vede proprio come un uomo in carne ed ossa, ma, tuttavia, come si dice oggi, “aumentato”. A oggi, quest’”aumento” (“Enhancement”) non è stato ancora inquadrato adeguatamente perché già soltanto il definirlo richiederebbe una buona dose di antropologia nietzscheana. Non si può dominare il mondo delle macchine aggiungendo, ai loro algoritmi, altri algoritmi, che esprimano il “governo delle regole” e la “Robo-ethics”, ma solo opponendo, alla ripetitività delle macchine, la libera creatività dell’ “uomo superiore”: “ein auf sich rollender Rad”. Quest’ultima interpretazione esigerebbe una sintesi fra le nuove tecnologie cibernetiche e le culture dell’epoca assiale, di cui quella classica e cristana europea non è che una parte. E’, in sostanza l’interpretazione data dal superomismo ebraico di Berdichewsky e Ahad ha-‘Am (lo Tsadiq come Superuomo) e, un secolo dopo, da Stanley Kubrick in “2001 Odissea nello spazio”, la quale , non per nulla, si apre al suono dello Zarathustra di Strauss. Il protagonista di quel film completa il proprio cammino interiore quando, disattivato il  computer di bordo, sprofonda negli strati sconosciuti della propria coscienza, per “morire a se stesso” nella “camera di riflessione”, e, infine, grazie al mitile (la Ka’aba?) che presiede  alla sua morte iniziatica e alla sua resurrezione, per ritornare sulla terra, vero Messia tecnologico, nella veste di un bimbo – “das Kind”-,  protagonista della “terza metamorfosi” dello Zarathustra.

Del resto, questa scena si è già verificata nella realtà, quando il tenente colonnello Petrov ha disinnescato il grande computer “OKO”dell’ Armata Rossa (oh, quanto simile allo HAL di Kubrik!), arrestando, con un atto di suprema decisione e ribellione, la terza guerra mondiale.

2.Fine dell’ Occidente, fine dell’ Europa, o semplice eclisse?

Concordiamo con GIammetta sul fatto che l’opera e la vita di Nietzsche sono coincise con l’apogeo e la decadenza dell’ Occidente. Questo però solo nella misura in cui concepiamo l’Occidente come una realtà unitaria. In effetti, fino al 1885, (data della pubblicazione del Manifest Destiny di John Fiske), o fino al  1889 (data dell’ impazzimento di Nietzsche a Torino), poteva avere un senso considerare gli Stati Uniti, nonostante il loro ribellismo, come una parte di un’unica entità insieme all’ Europa. Tuttavia, a partire da “Manifest Destiny”, l’America si concepirà come un antagonista, che ha superato e sconfitto l’ Europa, e che si accinge ora a raccoglierne l’ eredità. Con  Kipling che, ne “il Fardello dell’ uomo bianco”, trasferisce letteralmente le consegne all’ America.

Questo trasferimento diverrà plasticamente evidente con la 1° Guerra Mondiale, i “rent-lease agreements” fra USA e Inghilterra, che sancirono il trasferimento del centro finanziario mondiale da Londra a New York, con i 14 Punti di Wilson, in cui si impegnavano gli Stati europei a cedere le colonie, e, infine, con l’impiantarsi in Europa di imprese americane e dell’industria culturale americana. Oggi, l’Occidente è nettamente diviso fra l’ America tecnocratica e neo-colonialista del Complesso -informatico-militare, e un’ Europa passiva, che conserva in sé le vestigia di molte antiche civiltà ma non è capace di attualizzarle.

Certamente, l’eredità culturale di Nietzsche, con la sua idea di unificare l’Europa per difenderla dal resto del mondo, ha continuato a ispirare vari aspetti della vita culturale e politica, a cominciare dall’ interpretazione aristocratica dell’ unificazione europea espressa da Coudenhove Kalergi, per continuare con la stessa concezione di una grande guerra per l’egemonia  sull’ Europa fra i “popoli di signori”, che Nietzsche identificava con i Tedeschi, i Russi e gli Ebrei, e  soprattutto l’ambizione di Spinelli di essere, per l’Europa, ciò che Machiavelli era stato per l’Italia.

Come noto, nessuna di queste ipotesi portò in realtà all’ unificazione dell’Europa, anzi, al contrario, tutte  portarono alla divisione di Yalta e alla perdita della sovranità europea. Soprattutto, il progetto spinelliano non ha retto all’assalto funzionalista sostenuto neanche troppo copertamente dalla globalizzazione tecnocratica del  complesso informatico-militare americano.

Giustamente, già Heidegger accusava implicitamente di non aver compreso che la Super-umanità che stava avanzando, più che la sublimazione dell’ individuo, avrebbe rappresentato la sublimazione dell’ Apparato e lo schiacciamento dell’ individualità.

E, nonostante tutto ciò, da un lato tutti continuano a muoversi nello spazio circoscritto da quelle ipotesi, e, dall’ altra, non è ancora stata abbandonata l’idea che l’Europa possa unificarsi e rivendicare un proprio ruolo nel mondo. L’Europa che potrebbe morire è l’”Europe Décadente” di Morin, non già l’”Europa Vivente” che si agita ancora confusamente oltre l’Elba e il Mare Adriatico.

3.Nietzsche oggi

Certamente, le due guerre mondiali costituirono il momento culminante della caduta dell’Europa, e la fine del suo dominio coloniale. L’ideologia della supremazia europea era però così radicata ovunque, nel bene e nel male, che la piena coscienza della realtà ha tardato quasi 100 anni a manifestarsi, fino ad oggi, quando è diventato veramente difficile nasconderla. D’altronde, Nietzsche già aveva profetizzato il grande conflitto interpretandolo come una crisi di crescita, e anticipando, così, la “Kriegsideologie”.

Uno dei motivi per cui quest’autocoscienza non nasce è che, nonostante che, fino dai tempi della guerra con la Spagna del 1898, l’America fosse diventata la nuova potenza coloniale, ed, oggi, essa sia oramai  il più grande impero della storia, essa ha continuato a presentarsi come la potenza anti-coloniale per eccellenza. Di converso,  gli Europei continuano ancor ora a credere di avere dei grandi privilegi verso il resto del mondo, mentre invece non contano più nulla. Perciò, essi, credendo di fare parte della metropoli imperiale, hanno parteggiato ancora sempre, sostanzialmente, per gli Stati Uniti contro il resto del mondo, senza rendersi conto che la loro situazione è oramai per molti versi simile a quella dell’America Latina o del Medio Oriente, ed è deteriore perfino rispetto a quella dell’India, della Russia e della Cina.

Nel frattempo, il post-umanesimo è divenuto la versione egemone del mito del Superuomo. Sa un lato, alcuni, rari, autori, come Alexandre e Benasayag, si stanno  sforzando di costruire una teoria della “paideia” postmoderna capace di coniugare l’”Enhancement” (l’incremento delle capacità umane), con le nuove tecnologie, che a sua volta  non potrà avere nessuno  sbocco  concreto se non attraverso una lettura attenta dell’antropologia nietzscheana. Dall’ altro, il tema del giorno è costituito dal potenziale di crisi bellica implicito nella crescita della Cina e nella resistenza degli USA (Graham Allison, “Destinati alla guerra”). Anche quest’idea di una guerra totale per il dominio della Terra (“l’Ultima Grande Battaglia”) era ben presente in Nietzsche, come dimostra il paragrafo zarathustriano intitolato “Profonda Mezzanotte”: “Chi saranno i signori della Terra?”.

4.Fuori  dal nichilismo

Certamente, la tentazione di attribuire a Nietzsche (per il suo preteso relativismo) la colpa della crisi dell’Europa è forte in tanti. E, anche su questo, ha ragione Giammetta, nell’ affermare che la crisi dell’Europa era in un certo senso inevitabile, in quanto crisi metastorica (Nietzsche quale “destino”). Questa concezione tipicamente nietzscheana  si riallaccia all’ idea della decadenza della civiltà occidentale per un effetto ritardato dell’ascetismo orientale (i “sannyasin”, Buddha), veicolato in Occidente dalla Bibbia e dal Platonismo, una tesi che ha un suo profondo fondo di verità, tant’è vero che è stata ripresa dal “pensiero unico” quale narrazione fondante della contrapposizione Progresso-Reazione, dove il Progresso nasce proprio dai Rinuncianti, dal messianesimo e dal razionalismo, e la Reazione s’identifica con lo spirito dionisiaco, la “bestia bionda” e le grandi personalità amate da Nietzsche, come il Duca Valentino o Napoleone.

Il compito che Nietzsche si era dato era appunto quello di ostacolare quella decadenza, interpretando la Storia (cioè gli ultimi 2500 anni) come un semplice istante di una storia più  ampia (l’Eterno Ritorno), in cui sarebbe stato possibile incastonare un momento di rinascita, sfruttando la stessa direzione di movimento della decadenza universale(il “Grande Meriggio”).

E’ l’idea, oggi attualissima,  di un “reincanto del mondo”, che sarebbe stato avviato proprio dagli eccessi della decadenza. Il “nichilismo” si sarebbe allora tramutato in “prospettivismo”, nell’ “amor fati”, nell’accettazione stoica dell’imperfezione del mondo, che è proprio quel pessimismo assertivo, che Nietzsche contrapponeva all’infondato ottimismo dei progressisti, ed oggi è condiviso da una parte importante della cultura mondiale.

Su questo tema, si sono cimentati molti autori nutriti di un denso background nietzscheano: da Heim a Mann, a Juenger, a Coudenhove-Kalergi, che non è il caso qui di approfondire, anche perché, personalmente, credo che nessuno sia stato capace di esprimere quest’idea fino in fondo, anche perché non c’è stato, fino ad ora, nessun esperimento integrale di “enhancement”.

Certamente, la cultura europea in particolare, e quella occidentale in generale, non sono in grado di rispondere da sole a questa domanda. L’entropia della scienza e della tecnica, che tende a svuotare l’umano per sostituirlo con il macchinico, è strettamente connaturato alla deriva distruttiva del messianesimo materialistico sempre latente nelle “Religioni del Libro” (manicheismo, carmatismo, anabattismo, puritanesimo, teologia della liberazione). Vedo il coraggio di contrapporsi frontalmente, e anche esistenziamente, alla deriva nirvanica  solamente in autori che, pur provenendo da una sofisticata formazione europea, sono stati sovraesposti anche alle culture e religioni orientali. Mi sembra esemplare, a questo proposito, il cosiddetto “Catechismo di Matteo Ricci” (il “Tianzhu Shiji”), opera in Cinese di carattere discorsivo e divulgativo, in cui per altro il dottissimo gesuita, nel prendere posizione a favore del Confucianesimo e contro il Buddhismo, riconosceva  chiaramente che la sua era una scelta affatto soggettiva. Ciò che, in sostanza, era anche la posizione di Nietzsche, il quale tra l’altro, un po’ come Kipling, pur essendo in fondo un imperialista europeo, aspirava a “pensare sovra-europeo”, ed ammirava, come in “East and West”, la forza creatrice dei giovani popoli dell’Oriente.

Soprattutto, Nietzsche si autodefiniva polacco, e non per nulla usava portare baffoni come quelli di Lech Walesa, che, come testimonia il Pan Tadeusz di Mickiewicz (appena tradotto in Italiano), erano caratteristici proprio della Szlachta polacca, da cui Nietzsche  si vantava di discendere. Anche in questo Nietzsche anticipava i tempi. I popoli dell’ Europa Centrale e Orientale, che ai suoi tempi non avevano voce nella competizione politica, ideologica e culturale, dell’ Europa, stanno rivendicando un loro posto in Europa, facendo leva proprio su quell’ eredità storica da cui Nietzsche era istintivamente attirato.

 

 

 

 

CONFLITTO, ESERCITO, EUROPA

                           Trump e Macron l’11 novembre

I problemi dell’Europa si accrescono a ritmo esponenziale, senza che nessuno vi ponga mano. Intanto, la letteratura specialistica affronta temi sempre più scottanti, che incrinano i pregiudizi consolidati, mentre finalmente, seppur controvoglia, neanche i leader istituzionali possono più esimersi, se non altro agli albori della campagna elettorale per  le Europee del 2019, dal tirar fuori dal cassetto questioni che per molti decenni si sono volute  “nascondere sotto il tappeto”.

 

“Europe en marche” non è un’invenzione

di Macron: è uno slogan di Vichy

1.L’esercito europeo

Intanto, finalmente, i vertici di grandi Stati, come Francia, Germania e Stati Uniti,  hanno preso pubblicamente posizione, nel corso dell’ ultima settimana, circa l’antico e sempre nascosto tema dell’ Esercito Europeo.

Se ne parla nientemeno che da 700 anni, vale a dire da quando, per primo, il consigliere del Re di Francia, Pierre Dubois, aveva scritto il “De Recuperatione Terrae Sanctae”, in cui aveva espresso il punto di vista che, per rimediare alle croniche sconfitte dei Crociati, si darebbe dovuto costituire una federazione fra i sovrani europei, co la missione di  dirigere un esercito comune. La struttura di questa federazione era poi rimasta sempre la stessa nei vari progetti elaborati dalle monarchie europee dl Medioevo e al Cinquecento, da  Podiebrad e da Sully, mentre, invece, nel Settecento in St. Pierre, Rousseau e Kant, la finalità bellica della federazione europea era stata temporaneamente silenziata, a favore della “Pace Perpetua”. Nell’ Ottocento, Fichte, St. Simon, Mazzini e Nietzsche erano sostanzialmente concordi nel dire: pace sì, ma solo fra gli Europei, per condurre più facilmente le guerre coloniali verso il resto del mondo.

La tanto decantata vicenda della Comunità Economica di Difesa va un poco demitizzata. Si trattava di poche divisioni, che, nel 1953, avrebbero dovuto essere messe a disposizione dell’ Europa, ma prive di  marina, aviazione, servizi segreti, e subordinate alla NATO (eravamo ai tempi di Stalin e del maccartismo). Che alla fine il parlamento francese l’avesse bocciata non stupisce. Essa avrebbe sancito il ruolo dei soldati europei come semplici “truppe ausiliarie” dell’ esercito americano, in posizione non dissimile da quello che le  “SS  straniere” erano state per l’esercito tedesco appena otto anni prima. Nello stesso modo, si sarebbe voluta cementare attraverso un esercito comune la compattezza ideologica degli Europei intorno alla nuova potenza egemone.

Da allora,  ogni qualche anno si è ripresentato il discorso sull’esercito europeo, ma, quasi inspiegabilmente, ogni volta, esso è stato subito affossato, nonostante che i promotori si fossero affrettati ogni volta a precisare che esso non sarebbe stato alternativo alla NATO.

Ora Macron, per rendere credibile  la sua idea del “sovranismo europeo”, ha dovuto parlare, proprio alla vigilia della visita di Trump, di  un esercito europeo “per difendere l’ Europa contro la Russia, la Cina e gli Stati Uniti”. La scarsa padronanza della materia  da parte di persone, come Macron, Trump e la Merkel, che non hanno mai fatto neppure il servizio militare, contribuisce a rendere sempre un po’ ridicole siffatte prese di posizione su questo tema.

Nel caso di Macron, però, bisogna ammettere che molti dei suoi obiettivi sono stati centrati, innanzitutto là dove ha posto teatralmente   in evidenza che non può esservi esercito europeo  che non sia autonomo e in competizione con quello americano. In particolare, è stata ben giocata la provocazione nei confronti di  Trump, , in quanto la reazione è stata sostanzialmente quella di affermare che la Francia deve obbedienza agli USA perché è stata liberata dagli Americani, e che gli Europei debbono continuare a pagare l’America affinché questa li difenda. In tal modo, Trump ha smentito 70 anni di ipocrisia puritana, chiarendo finalmente in modo inequivocabile che considera l’Europa come un protettorato dell’ America (tesi già esposta a suo tempo da Brzezinski, ma., ovviamente, di tutt’altro peso se affermata dal Presidente).

E che di ipocrisia si sia trattato lo dimostra che, già nel “testamento politico” dettato da Mitterrand prima di morire, era scritto che, fra Europa America, vi è una guerra occulta, ma non per questo meno mortale.

Giusto anche sollevare il problema dell’esercito europeo in connessione con la questione della cyberguerra, perché è proprio nel campo della cyberguerra che la subordinazione e l’arretratezza degli Europei risulta più schiacciante, come dimostra in modo impressionante il numero 10/2018 di Limes, “La rete a stelle e strisce”. Giusto infine precisare, in un’intervista, che la spesa militare europea non deve finanziare l’industria militare americana, bensì risollevare quella europea. Giusto infine rispolverare, con ciò, tutta la dottrina militare del Generale De Gaulle.

L’unica sbavatura è consistita nell’ approcciare la questione dell’esercito europeo come se fosse mirato contro qualcuno. Non tanto perché ciò è in stridente contrasto con il conclamato pacifismo dei vertici europei e con lo stesso “Forum della pace” inaugurato pochi giorni dopo da Macron. Né perché ha urtato inutilmente la Cina (che non ha neppure partecipato alle celebrazioni di Parigi) e la Russia (che vi ha tenuto giustamente un atteggiamento sprezzante). Ma soprattutto perché gli eserciti di oggi non servono tanto per essere concretamente usati contro qualcuno, bensì innanzitutto per accrescere il peso specifico del Paese che li possiede, certo, come deterrente propriamente militare, ma anche e soprattutto come fulcro di una rete d’influenza, veicolo di educazione popolare, fucina di tecnologie, supporto all’economia, strumento di spionaggio, ecc…

L’esercito americano non  è, propriamente, diretto contro la Russia, la Cina, l’ Iran,e neppure contro l’Europa: semplicemente sorveglia e influenza il mondo intero con la sua stessa esistenza.  VCosì fanno, in piccolo, anche  i suoi omologhi delle altre potenze.

E questo varrebbe soprattutto per un ipotetico esercito europeo che nascesse nelle particolari nuove condizioni  di oggi. A mio avviso,tale esercito dovrebbe, e potrebbe, essere molto meno guerrafondaio di tutti gli attuali eserciti occidentali che, come l’Italia, a parole “ripudiano la guerra”, ma in realtà la conducono ininterrottamente contro i Paesi non-occidentali, occupando indebitamente i loro territori insieme agli Stati Uniti, come in Afghanistan, Irak, Niger, ecc…

L’Esercito Europeo dovrebbe invece restarsene in Europa, e, semmai, di lì, influenzare silrenziosamente il mondo, con le sue scuole militari e la sua intelligence, i suoi riservisti e i suoi missili, i suoi satelliti, il suo web, le sue industrie militari, ecc…, per fare valere i suoi punti di vista sul pluricentrismo, sul governo delle tecnologie, sul controllo degli armamenti, sulle migrazioni, sul clima….Secondo il principio taoista della “non azione” (“wu wei”).

Se la politica è un parallelogramma delle forze, e la pace è la prosecuzione della guerra con altri mezzi, allora  un esercito culturalmente motivato, tecnicamente all’ avanguardia e integrato nella politica estera di uno Stato serve innanzitutto a contribuire ad allargare il parallelogramma di quello Stato, senza bisogno di uccidere nessuno, come ci ha insegnato SunZu.

Forse, questa è la volta buona in cui questo tema verrà esplorato un po’ più seriamente del solito. Ciò richiederebbe però che:

a)si avesse veramente il coraggio di dispiacere fortemente agli Stati Uniti;

b)si sgombrasse il campo dalle solite menzogne sul ripudio della guerra e sul carattere pacifico dell’ Occidente (quando proprio a Parigi Trump ha ribadito che gli USA hanno speso, l’anno scorso, e spenderanno anche quest’anno, per la difesa,  700 milioni di dollari, e gli Europei 300, contro i 200 della Cina e i 60 della Russia). Si noti: questi campioni occidentali della pace e della democrazia spendono in armamenti circa tre volte dei loro avversari, di cui dichiarano di avere tanto timore. Si sono mai chiesti quanto i Cinesi e i Russi debbano avere anch’essi paura dei mirabolanti eserciti occidentali, e quanto dei loro atteggiamenti apparentemente così ostili derivino in realtà da un’urgente necessità di difendersi?Un team di esperti del Governo americano ha appena licenziato alle stampe lo “Assessment and Recommendations of the National Defense Strategy Commission”, in cui, criticando lo stesso Dipartimento della Difesa, si afferma che le Forze Armate Americane stanno minando il presupposto stesso della politica degli Stati Uniti, fondata sulla superiorità militare assoluta sul resto del mondo, in modo da poter dominare gli sviluppi di quest’ultimo, orientandoli in un senso conforme agl’interessi degli Stati Uniti. Invece, dice il rapporto, se gli Stati Uniti combattessero oggi una guerra contemporaneamente con la Russia e la Cina, per esempio per il Baltico e per il Mar della Cina, potrebbero anche perderla. Anch’io lo credo, ma non vedo perché gli Europei dovrebbero sostenere queste guerre, sostenendone probabilmente i maggiori danni senza ricavarne alcun beneficio.

c)si possedesse una propria, autonoma, ideologia, che giustificasse e orientasse l’Esercito Europeo, rendendo così accettabile a tutti la cessione di sovranità in questo settore così delicato.

A mio avviso, tale dottrina militare dell’Europa deve partire dall’idea che, nella cultura europea, vige ancora, contrariamente che in quella americana, la priorità della persona sulla tecnica, una priorità in nome della quale l’Europa dovrà combattere le sue prossime battaglie- le “Guerre delle Intelligenze”, come le ha chiamate Laurent Alexandre-. Del resto, già nell’ Orlando Furioso era contenuta una violenta requisitoria contro le armi da fuoco, responsabili dell’imbarbarimento della guerra, da nobile tenzone quale essa era dall’Iliade ai tornei rinascimentali, ad anonimo e proditorio macello, Si pensi alla colubrina che uccise Giovanni dalle Bande Nere.

Per esempio, Daniel Kahneman, premio Nobel americano, crede che sia giusto che le grandi decisioni vengano prese dai robot, non dagli uomini, perché essi sono più saggi di noi (le nostre convinzioni sono radicate “nella nostra comunità, la nostra storia, i nostri affetti e le persone di cui ci siamo sempre fidati”) .

Quindi, la vera “minaccia” contro cui deve prepararsi l’esercito europeo, non sono, né la Russia, né la Cina, né gli USA, e neppure il terrorismo internazionale, bensì le macchine intelligenti che rischiano di sostituirsi all’ uomo, con tutti i loro alleati: le agenzie spionistiche che ci controllano; le multinazionali che ci condizionano; le imprese informatiche che ci colonizzano; l’accademia che le mitizza;  gli eserciti che le proteggono. E’ una guerra quotidiana e occulta, fatta di corsa alle nuove tecnologie, di spionaggio, di “covert operations”, di battaglie culturali ed economiche..

Sulla stessa lunghezza d’onda, l’insostituibile funzione culturale dell’esercito, quale centrale di pensiero strategico (pensiamo a Giulio Cesare, a MoZi, a Clausewitz), quale cinghia di trasmissione dell’ethos delle classi dirigenti, quale educatore del popolo, dovrà esercitarsi sui tema del rapporto uomo-macchina, della difesa contro lo cyberguerra , dell’  intelligence tecnologica…varrebbe anche e soprattutto per l’ Esercito Europeo, che deve riformare una nuova élite militare, un ambiente informatico autonomo,  un nuovo tipo di soldato digitale…

Un esercito siffatto non sarebbe in concorrenza, né con la NATO, né con gli eserciti nazionali, giacché farebbe tutte cose che quelli non fanno.

 

 

Per Eraclito, “polemos” è all’ origine di tutte le cose

2.Elogio del conflitto

Torna oggi quindi utilissimo poter fare ricorso a quella parte, certo minoritaria, del mondo intellettuale, che non ha mai cessato di deprecare la sconsideratezza dell’espungere, dallo scenario ideale dell’Umanità, la consapevolezza del conflitto Come scrive Benasayag, “Si tratta di imparare a convivere con tutto ciò che abbiamo rimosso e abbandonato  come un’anomalia inammissibile. Si tratta di capire in che modo l’essere umano con il suo fondo di costitutiva oscurità , possa costruire le condizioni di un vivere comune malgrado il conflitto e anzi attraverso il conflitto, mettendo fine al sogno, o all’ incubo, di chi vorrebbe governare tutto ciò che vi è, in lui, d’ingovernabile”.

La repressione del conflitto comporta infatti innanzitutto la repressione della libertà: “Nonostante questi diffusi fantasmi di libertà, mai una società è stata più disciplinata della nostra. Non è più nemmeno necessaria la presenza di commissari politici, a garanzia della nostra obbedienza al diktat della norma dominante. Gl’individui ’liberi di scegliere’ lo sono soltanto nel loro immaginario.”

Non è un caso che tutti gli autori che avevano parlato dell’identità dell’ Europa, l’avessero sempre collegata con l’idea di conflitto: i classici, per i quali gli “Europaioi” erano dei guerrieri “autonomoi” che combattevano contro l’ Impero Persiano; gli autori cristiani, per cui gli “Europenses” erano i Germani che combatterono a Poitiers contro Carlo Martello; quelli medievali e romantici, che vedevano la federazione europea come l’ organo supremo dell’ esercito crociato; Federico Chabod, che sosteneva che non poteva esservi Europa senza “spirito polemico”…Oggi, questo “spirito polemico” deve esercitarsi innanzitutto nei confronti dell’ America e di questo “establishment” che, come ha scritto “Le Monde Diplomatique”, è stato “bibéronné dans les campus américains

 

 Visegrad

3.Il rapporto con i conflitti del passato

Non per nulla un altro aspetto che è venuto alla ribalta durante questo lungo e significativo week-end è stato il rapporto di memoria dell’ Europa con la 1° Guerra Mondiale, che, più ancora che non la seconda, riveste un carattere divisivo per gli Europei, soprattutto in questo anniversario secolare.

Intanto, è significativo della discordia sulla “memoria condivisa” il fatto che ciascuno abbia commemorato questo 11 Settembre a modo suo.

Così, ad esempio, mentre, per la Francia e per il Commonwealth, la data da ricordare è l’11 Novembre, l’Armistizio di Rethondes, per l’Italia è il 4 novembre, giorno della vittoria sull’ Austria-Ungheria.

Macron ha tentato, poi, di monopolizzare l’attenzione con il “suo” 11 novembre a Parigi, coronato dal “Forum della pace”.

Ma, mentre per la Francia, l’11 Novembre dovrebbe significare la riconciliazione con la Germania, per il  l’Inghilterra della Brexit esso  ha rappresentato una commemorazione del Commonwealth, e, per la Polonia, è stato il centenario dell’ Indipendenza Nazionale. Qui, questo 11 novembre 2018  ha dato la stura a un delirio di patriottismo, con tutte le città piene di una folla in estasi, con milioni di bandiere bianco-rosse e con l’ Aquila Bianca dei Piasti, con giovani e vecchi con divise d’epoca e su mezzi militari di tutti i tipi.

Il Presidente Duda ha arringato come El’cin la folla in piedi su un veicolo militare. E, in effetti, la Marsz Niepodloglosci, benché indirizzata sostanzialmente contro la Russia, ha paradossalmente uno stile sempre più russo, con la militarizzazione della folla che canta canzoni patriottiche  e una confusione totale fra Stato e  popolo, esercito e milizie: un caso esemplare di quella che René Girard ha chiamato “rivalità mimetica”.

In Polonia, la distinzione canonica fra “nazionalismo” e “patriottismo”, richiamata da Macron nel suo “Foro della pace”, sfuma e si rivela non calzante, in quanto pregiudizio occidentale. Per Macron, “patriottismo” sarebbe quello che non sfocia, come il nazionalismo, nell’ ostilità verso gli altri popoli. Ma, nel caso della Polonia, l’idea “estremista” di una “Grande Polonia” (“Wielka Polska”nelle frontiere del 1920) è più “cosmopolita” del “patriottismo” etno-nazionale di Dmowski, sottointendendo  essa, come voleva già il maresciallo Pilsudski, una federazione fra Polonia, Lituania, Bielorussia e Ucraina, se non addirittura l’”Intermarium”, una specie di anticipazione dei “4 di Visegrad”. Peccato che, nel contempo, anche in Ucraina si sia parlato dell’”Intermarium”, ma con capitale a Kiev.  D’altra parte, in Polacco, non si parla di “Patrioty” (termine troppo russo), né di “nazionalisti” (termine troppo occidentale), bensì di  “narodowie” (“popolari/nazional-popolari/populisti).

Certo, il rinascere di questo rigoglioso sentimento “narodowy” è in tutta l’ Europa Centrale e Orientale (Russia e Polonia, Ungheria e Turchia…), uno degli aspetti più innovativi, e quello che maggiormente turba l’”establishment”, non già per una  questione di “democrazia” (vale a dire perché minacci il sistema formale delle regole) -ché, anzi, i “narodowie” si richiamano, come i nostri populisti, alla volontà della maggioranza-, bensì per le implicite scelte antropologiche ch’esso sottende: pathos comunitario, autoaffermazione, mito, contro utilitarismo, omologazione e banalità quotidiana. Istintivamente, l’“establishment” europeo occidentale non può sopportare quei giovani esagitati che agitano bandiere cantando antiche canzoni: perciò, li delegittima per escluderli dalla scena pubblica e, così, per sfiancarli. L’”arroganza romano-germanica” denunziata da Trubeckoj, contro il romanticismo slavo.

E, in effetti, come scriveono Havlik e Pinkova nel loro “Populist Political Parties in East-Central Europe”, la maggior parte dei partiti dell’ Europa centro-orientale è, almeno parzialmente, populista. Buona parte di questi partiti si ispirano a movimenti  locali del secolo scorsosolo parziamente populisti, e, per il resto, nazionalisti, religiosi e sociali(“linke Leute von Rechts”), come quelli di Pilsudski, di Horthy, e, più tardi, i Soldati Maledetti, i Fratelli della Foresta, Pax, Solidarnosc, i Partiti Contadini e la stessa Solidarnosc, fino alle correnti nazionalistiche all’ interno dei fronti popolari e dei partiti comunisti.

L’”establishment” potrà peròincolpare solo se stesso se i giovani dell’ Europa Centro-Orientale si allontanano dall’ Unione Europea, e se quest’ultima non riesce più ad avere nessuno “slancio vitale”. La loro Unione Europea è astratta, esangue, nemica della vita: chiaramente, l’avvio e la prefigurazione di una società governata da macchine onnipotenti che si situano altrove e che non lasciano alcuno spazio all’umanità e all’ autenticità.

Come nel caso dell’esercito europeo, costituisce, a mio avviso, comunque  un passo in avanti il fatto che si sia rimesso all’ ordine del giorno il variegato pathos civile che sottostà alle varie identità europee, che hanno contribuito, tra l’altro, in modo decisivo (Polonia, Karabagh, Baltici, Jugoslavia, Russia, Romania, Ungheria, Germania Orientale)   al crollo del Muro di Berlino e alla riunificazione dell’ Europa. Tuttavia, occorre che il pensiero identitario, anch’esso anchilosato dall’ egemonia culturale progressista, riconquisti la sua ricchezza e pluralità: le infinite identità religiose, post-imperiali, quasi-continentali, nazionali, regionali, locali, cittadine, di cui, come volevano i “federalisti Integrali”, è composta la poliedrica identità dell’Europa. Non per nulla, nell’ ennesimo progetto di rilancio dell’integrazione, la “Repubblica Europea” di Menasse e Guérot, rivaluta le “piccole patrie” contrapponendole agli Stati membri quali essi esistono attualmente, e che, nella “Repubblica Europea” praticamente scomparirebbero.