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FRA “QUESTIONE NAZIONALE” E “IUS SCHOLAE”

Contrariamente a quanto ripetuto dal “mainstream” a partire dagli Anni ’70 del XX Secolo – da Solidarnosc, fino al Nagorno Karabagh, alla Cecenia, all’Irak, al conflitto israelo-palestinese, al dibattito sulla natura della Russia, ai separatismi micro-nazionali, alla Brexit-, in tutto il mondo l’importanza della “questione nazionale”, lungi dall’ essersi esaurita nel tempo, è andata vieppiù ingigantendosi. Il tutto nell’ambito del rinnovato interesse per le identità, individuali e collettive.  Soprattutto, la questione nazionale è divenuta scottante negli Stati Uniti, dove il conflitto fra “White Suprematism” e “Cultura Woke” fa rivivere la spaccatura radicale nell’identità del Paese preconizzata da Tocqueville, richiamando in vita anche le confliggenti culture degli “Hyphenated Americans” (Wasps e Ebrei, Latinos e Tedeschi…) e delle “macroregioni” degli USA (East Coast, West Coast, Nord, Sud, Midwest, Far West (cfr. Film “Civil War”). Le lotte interne per l’identità sono infatti le più feroci (confrontiamo i dubbi di Trump sulle “radici” della Harris con la sua faldsa affermazione di essere di origine svedese anziché tedesca). S’impone più che mai agli Americani la domanda di Huntington: “Who we are?”

Premesso che, dopo tanti dibattiti, non si è ancora chiarito pienamente neppure che cosa sia una “nazione”, si può almeno dire che certamente di essa fa parte la cultura, intesa nel senso più vasto del termine, a cominciare dal processo di formazione dei cittadini attraverso la scuola. A giusto titolo, quindi, Sergio Fabbrini, su “Il Sole 24 Ore”, aveva posto in relazione il discorso sulla nazione sullo “ius Italiae”, in funzione delle proposte sullo “ius scholae” (cioè di concedere la cittadinanza ai giovani immigrati che hanno studiato in Italia), discusse fra le forze politiche, italiane con quello sull’educazione “nazionale”. Tenteremo qui di partire da questo suggerimento per formulare una nostra risposta di ampio respiro, riprendendo quanto scritto a questo proposito da alcuni classici europei, e, in particolare, da Herder, Gioberti, Nietzsche, Jaeger e Sol’zhenicin.

1.Comprendere il nazionalismo

Purtroppo, a causa della tabuizzazione, dopo la IIa Guerra Mondiale, da parte delle culture apocalittiche della Modernità, del concetto di “Nazione” ma anche e soprattutto del più generale concetto di “autoaffermazione” (“Selbstbehauptung”) ci si è evitato a lungo lo sforzo di affrontare storicamente questi concetti, che, come anticipato, sono invece ridivenuti essenziali (dopo 80 anni)  per comprendere la dialettica storica del nuovo secolo (dall’eccezionalismo americano e israeliano al conflitto russo-ucraino e ai vari “sovranismi”).

Imedia, non potendo ormai più ignorare le “guerre culturali” in corso, fanno però ancora ricorso ,a causa di quella storica censura, a vecchi luoghi comuni, non sufficienti per descrivere in modo credibile le potenti forze che operano attualmente sugli scacchieri internazionali. Per esempio, come Fabbrini, rimandando alla frusta distinzione fra “nazionalismi civici” (quelli “occidentali”) e quelli “etnici” (quelli “orientali”), mentre in realtà sono stati quelli “occidentali” (inglese, americano e francese) ad avere costituito i modelli per quelli “orientali”. Addirittura, le antiche “nationes” non erano diventate “nazioni moderne” se non grazie a prese di posizione come il monologo di Riccardo III nella tragedia di Shakespeare, il “discorso alla nazione tedesca” di Herder e il Testamento politico di Giorgio Washington.  Pensiamo solo all’idea puritana americana della “casa sulla collina”, che emula quella ebraica di elezione, e sarà presto  trapiantata nella Francia rivoluzionaria della “Grande Nation” e nella Germania dell’ Idealismo, dove il Protestantesimo diventerà, per Hegel, la destinazione finale dell’ Umanità. Da lì saranno tratte le idee del “Primato Morale e Civile degli Italiani” (Gioberti)e delle “Speranze degl’Italiani”(Balbo), quella di “Dio e popolo” (Mazzini) , nonché la missione civilizzatrice degli Anglo-Sassoni (Berkeley, Blake, Emerson, Kipling, Friske, Mead),  presto clonata da quella democratica e pacifica degli Slavi (Safarik, Kollar) e da quella rivoluzionaria dell’Unione Sovietica (Blok, Gorkij).

Gli Stati Uniti sono stati caratterizzati da sempre da una profonda ambiguità a questo proposito, perché, pur avendo esordito come il nemico per eccellenza dell’Impero Britannico, si sono convertiti presto nel suo alleato e suo erede, dando adito a Lenin e a Mussolini di constatare la fine del nazionalismo e l’inizio di un’epoca di imperi, ben più idonei delle nazioni a gestire l’era della globalizzazione (la Grossraumwirtschaft) .Di qui anche l’idea della ricostituzione di un nuovo Reich come  applicazione all’ Europa della Dottrina Monroe (Carl Schmitt). Nonostante ciò, gli Stati Uniti hanno continuato a presentarsi come i nemici degl’imperi coloniali europei, del 2° e del 3° Reich, degl’imperi sovietico e cinese, e, oggi, di ogni ambizione degli Stati medio-orientali di trasformarsi in imperi. Il fatto è che gli Stati Uniti fanno di tutto perché gli altri Paesi non riescano ad imitare la loro essenza più vera, l’illimitata  volontà di potenza. Anche il “Patriottismo”, oggi tanto lodato, è null’altro che un nazionalismo all’ americana. Infatti, i “patriots” erano gl’insorti anti-britannici descritti nel film di Mel Gibson, e coloro che si autodefinirono “patrioti”, come i Mazziniani, avevano solidi legami sotterranei con gli Stati Uniti (vedi corrispondenza con Lincoln e partecipazione dei Garibaldini alla Guerra Civile Americana).

La condanna del nazionalismo da parte del federalismo europeo va ricondotta a quell’idea del superamento della nazione moderna da parte di soggetti più vasti, come l’Europa Unita (che la si chiami Paneuropa, Nazione Europea, Reich, “blocco socialista”,Comunità Europea,  Europa dall’ Atlantico agli Urali, Unione Europea o Eurasia). Correttamente, quindi, Fabbrini ritiene che, per affrontare la questione della cittadinanza e dello “ius scholae”, occorra andare oltre, tanto al nazionalismo etnico, quanto a quello civico, per assumere un’ottica europea. La domandaè :di quale tipo di cittadini ha bisogno l’Europa di domani? Una volta chiarito che si tratta di cittadini europei, la proposta dello “ius scholae, in sé validissima, parte però, a nostro avviso, da un presupposto errato: che  sia opportuno “duplicare” gli Europei così come essi sono attualmente, nonostante la palese crisi della società europea, dimostrata dal declino del nostro Continente, dal disinteresse per la politica, dalla denatalità, dalla disoccupazione intellettuale, dall’ americanizzazione.., e non occorra, invece “fare gli Europei” ex novo, così come D’Azeglio pretendeva di “fare gl’Italiani”.

Infatti, nel XXI Secolo, la questione centrale e irrisolta dell’ Umanità (e quindi dell’ Europa) è quella di come gestire le Macchine Intelligenti. Se vogliamo che l’Europa sappia dare un proprio contributo positivo alla sopravvivenza dell‘Umanità, occorre che i cittadini di domani posseggano  delle caratteristiche di poliedricità, personalità e resilienza molto superiori a quelle degli attuali “bamboccioni”  creati dalle culture presuntuose e servili fino ad ora dominanti. Quindi, un ”Kulturkampf” contro l’egemonia culturale progressista,  la quale , per le ragioni che andiamo qui esponendo, si è sforzata in ogni modo di distruggere quelle caratteristiche e di renderne impossibile la rinascita.

Proprio il presente Governo, che pretenderebbe di smantellare indebite egemonie culturali, dovrebbe darsi molto più da fare da fare per costruire un sistema scolastico ben diverso.

2.Un’identità europea “multi-livello”

Oggi, assistiamo nel mondo al dispiegamento della dialettica conflittuale fra imperi, Stati-Civiltà, nazioni e macroregioni (quello che Nietzsche chiamava “l’ultima grande battaglia”). Ciascuno di essi ha sue caratteristiche specifiche, non necessariamente migliori o peggiori di altri, e non necessariamente reciprocamente escludentisi. Anzi, tutto il mondo è sostanzialmente organizzato di fatto sotto queste quattro forme. Per esempio, il Nord-Est dell’Italia costituisce una macro-regione, con una sua propria identità (gallo-romana, industriale e mitteleuropea, cfr. Gramegna: Il popolo piemontese e la sua dinastia), che fa parte di una “nazione”, l’Italia (Gioberti, Balbo, Gramsci), a sua volta membra di un aspirante “Stato-Civiltà” (l’ Europa; cfr. Herder, Weil, Chabod), la quale, infine, fa parte dell’ “Impero Nascosto” americano, che si autodefinisce falsamente come “Alleanza Occidentale”(Ness, Immerwahr , Ikenberry). La lealtà dei cittadini verso l’uno o l’altro di questi livelli qualifica in modo diverso le varie culture politiche, che possono essere ideologiche, imperialistiche, continentali, nazionali o locali. Le scelte politiche dei singoli territori privilegiano, così, ora l’uno, ora l’altro, di tali livelli. I  politici più abili normalmente si destreggiano fra un livello e l’altro, privilegiando, nel loro discorso politico, per esempio, ora la Padania, ora l’Italia, ora l’Europa, ora l’Occidente, ma difficilmente una forza politica può prescindere oggi da una o più lealtà prevalenti: chi da una tradizione religiosa o imperiale, chi da una cultura nazionale o locale. E’ quello che Hazori ha definito “forza del nazionalismo”.

Nonostante che le “Nationes” fossero note fin dall’ antichità, è nella Modernità che la “questione nazionale” ha assunto un ruolo centrale, perché la nazione moderna è la forma ideale della rivoluzione industriale e borghese, in quanto ha spezzato le lealtà trasversali e universalistiche, come quelle religiosa e imperiale, come pure come quelle particolaristiche, cetuali o municipali, permettendo una seppur limitata omologazione dell’immaginario e della comunicazione, sulla strada verso la Società del Controllo Totale (come detto fra le righe da Herder, Fichte e Mazzini).

Per questo, il nazionalismo era nato in stretto collegamento con le rivoluzioni borghesi del Sette e Ottocento, e con esse ha cominciato ora ad esaurirsi.

Anche il socialismo non può prescindere dalla questione nazionale, poiché esso si rivolge al popolo lavoratore, i cui interessi si organizzano su base nazionale, se non altro perché i lavoratori manuali non possono, diversamente dai primi “tre stati”, permettersi il lusso di un’educazione multilinguistica, sicché per loro si è adattata una qualche forma di “lingua volgare”, facendola divenire la lingua ufficiale, quella dell’istruzione generale obbligatoria. Le lingue hanno così assunto, per dirla con Humboldt e Herder, una coloritura nazionale. Nell’ Ottocento, Marx considerava necessaria prima la rivoluzione nazionale, e solo dopo credeva possibile quella socialista. I Bolscevichi si accorsero immediatamente che, per realizzare la loro rivoluzione, era necessario fare, delle province dell’Impero Russo, altrettanti Stati nazionali, con le loro rispettive borghesie, all’ interno dei quali soltanto sarebbe stato possibile realizzare le “vie nazionali al socialismo”, in base alle condizioni, diversissime fra di loro, per esempio, della Russia e del Kazakhstan. Per questo “crearono” nazioni prima inesistenti, come l’Ucraina, l’Azerbaijan e i vari Stati dell’ Asia Centrale (“nation building”), le quali adesso si stanno rivelando inaspettatamente resilienti. Stalin era giunto ad imporre l’ammissione alle Nazioni Unite, come Stati indipendenti e sovrani, della Bielorussia e dell’ Ucraina, seppure fossero repubbliche federate dell’ URSS.

Il caso dell’Ucraina è particolarmente istruttivo, dato che l’”Ucraina di Lenin” come l’ha definita Putin, nasce dalla vittoria dei Bolscevichi di Kharkov contro i nazionalisti di Kiev, i socialisti del Donbass, i germanofili di Leopoli, i “Bianchi” della Crimea e gli anarchici di Huliapolie, poi dall’ industrializzazione forzata contestuale all’Holodomor e dall’ ucrainizzazione imposta da Stalin (effetto finale: due Segretari Generali russo-ucraini del PCUS: Khrusciov e Brezhniev).

Di qui la nascita dell’idea di un “socialismo nazionale”, che si sostanzia in “fronti popolari” che incarnano la collaborazione di classe su base “nazional-popolare”(pensiamo a Tito,Ceausescu o Jaruzelski). Di qui, infine, l’idea dello stesso “fascismo”, e anche di tanti altri movimenti di unità nazionale, come quello polacco di Pilsudski, le Juntas Obreras Nacional-Sindacalistas, il B’ath arabo o il Peronismo.

Il conflitto fra la Russia e alcune ex repubbliche non deve trarre in inganno. Anch’esso è il portato del processo sovietico di “Nation Building”, dove la creazione delle “nazionalità titolari” (“korenizacija”) non era stato concepito come fine a se stesso, bensì come un compromesso  finalizzato alla preparazione del mitico “internazionalismo proletario”, mediante la “fusione” (“slijanije”) nel “popolo sovietico. Ed è proprio l’interruzione precoce della “slijanije”, dovuta al crollo dell’Unione Sovietica, ad aver lasciato orfani  decine di milioni di “cittadini sovietici”, che nelle varie Repubbliche parlano Russo e cercano la protezione della Russia.

3.Complementarietà fra imperialismo americano e nazionalismi.

Il senso centrale dell’ipocrisia puritana consiste nell’ affermare l’eguaglianza di dignità fra gli uomini nello stesso tempo in cui si realizza nei fatti la più totale eterodirezione e stratificazione delle popolazioni. Gli Stati fondatori dell’Unione avevano statuti concessi dal Re d’Inghilterra, che prevedevano una loro aristocrazia e una loro religione di Stato, con la persecuzione delle altre denominazioni; erano basate dichiaratamente, come scritto nella Dichiarazione di Indipendenza, sulla schiavitù, e avevano come obiettivo prioritario dichiarato quello di appropriarsi delle terre dei nativi americani e dei franco-canadesi “papisti”.

Quella finzione è poi continuata con la Dottrina Monroe (che aveva fatto delle due Americhe un protettorato degli USA), con la creazione di un impero d’oltremare mascherato in vario modo (l’”Impero Nascosto” di Immerwahr), con l’occupazione militare di buona parte del mondo installando all’ estero centinaia di basi militari, con un regime di scambi iniquo (il signoraggio del dollaro), e comportamenti sostanzialmente svincolati dal diritto internazionale (Hiroshima e Nagasaki, invasione dell’ Irak, sabotaggio del North Stream 2).                                                                                                                                                                                         

Oggi più che mai, la pretesa “eguaglianza di dignità” di tutti è smentita dall’inaudita concentrazione del benessere, della ricchezza, della conoscenza e del potere (culturale, sociale, politico,militare, poliziesco), in alcuni soggetti, come Zuckerberg, Musk e Schmidt, che di fatto controllano i vertici dello Stato americano, e, attraverso di essi, la “Società dell’ 1%”, gli eserciti, i mezzi di comunicazione di massa, l’economia, la cultura, le religioni, il costume, mentre i cittadini, le loro organizzazioni, le loro rappresentanze, sono di fatto espropriati di ogni potere sui temi che contano (guerra e pace, intelligenza artificiale, bioetica, geopolitica, politiche industriali…).

Uno degl’infiniti strumenti (per Ikenberry, una “ragnatela”) con cui l’America controlla il mondo è la politica del “divide et impera”, ereditata dall’ Impero Romano e da quello britannico. A questo scopo, la paradossale natura dei nazionalismi, che perseguono ciascuno la propria espansione ai danni degli altri (la “Grande Nation” ai danni del Benelux, della Germania, della Svizzera, e dell’ Italia; i popoli balcanici ai danni di Turchia e Albania; la Romania ai danni dell’ Ungheria; la Germania ai danni di tutta l’ Europa Orientale; l’Albania ai danni della Serbia) hanno favorito in ultima analisi, e continuano a favorire, l’espansione del potere americano, che ad ogni guerra altrui ha fatto un passo in avanti, acquisendo nuove basi e presentandosi come “gendarme del mondo”. Così come l’Impero Americano aizza i singoli Stati l’uno contro l’altro, esso agita anche, l’una contro l’altra, le diverse ideologie: il comunismo contro le monarchie; i fascismi contro il comunismo; il gauchismo contro i centristi; il neo-liberismo contro il “modello renano”; i dissidenti contro il PCUS; le sinistre contro i conservatori est-europei.

Nei programmi di Trump c’è un’ulteriore giravolta tattica: i sovranisti contro l’Unione Europea.Mentre fino ad ora l’America aveva favorito in Europa l’internazionalismo progressista, in quanto dissolutore delle identità diverse da quella americana, l’obiettivo è ora divenuto un inedito “patriottismo occidentale”(cfr. “Politico Europa”), da contrapporsi a un paventato “patriottismo europeo”. Il patto con i nazionalismi sarebbe quello di garantire un ruolo centrale ai sovranisti e di sdoganare i post-fascisti, a condizione  che abbandonino le loro seppur tenui velleità di costituire un movimento sovranista europeo, cosa teoricamente possibile sulla scia di Nietzsche (“Europa Una e signora del mondo”), di Coudenhove Kalergi (“Europa auf dem Weg zur Supermacht”), dei “collaborateurs intellectuels” (p.es. Drieu la Rochelle) del gaullismo e para-gaullismo (Servan Schreiber), nonché dei nostalgici dell’ Asse (Moseley, Thiriart,Synergies Européennes) e di riviste sessantottine come “Nuova Repubblica”e “l’Orologio”.  I cosiddetti “sovranisti”, che, dal punto di vista biografico, provengono da quegli ambienti, sono stati così “imbrigliati” per farli divenire paradossalmente degli “anti-europeisti”.

 La stessa politica l’America la sta perseguendo con l’India e il Giappone, dove “l’Asia che sa dire no” dovrebbe essere trasformata in un ”Quad” anticinese.

In definitiva, “nazionalismo buono” (definito “patriottismo” dai volontari della rivoluzione americana) è quello degli Americani e dei loro alleati, in primis gl’Israeliani e gli Ucraini, ma anche del Commonwealth e dell’ Intermarium. “Nazionalismi cattivi” sono gli altri, perché ostacolano la vittoriosa marcia dell’”Occidente”.

Purtroppo, dinanzi a queste evoluzioni, le reazioni dell’ establishment Europeo sono incredibilmente deboli, per ragioni che andremo ad espòlorare in altra sede

Basti confrontare i saltuari, allarmati, interventi verbali di Macron con l’inesistenza di una reale politica industriale francese:”Macron also warned against what he called the EU’s continued over-reliance on the US, saying that whatever the results of the presidential elections there in November, the country’s interests were moving elsewhere.”E. addirittura, “Europe should focus on developing its own brand of artificial intelligence (AI)

4.La confusione dell’Europa Orientale

I Paesi dell’Europa Orientale, nati dallo smembramento di grandi imperi (tedesco, austriaco, russo e ottomano) sono stati paradossalmente ancor più esposti a queste politiche (la “New Europe” contrapposta alla “Old Europe”). La situazione in Bosnia fu lasciata deliberatamente degenerare, per potere presentare gli USA come i pacificatori (Accordi di Dayton). La rivolta del Kosovo fu  volutamente istigata attraverso degli ex marxisti-leninisti, già agenti di Enver Hoxha (l’UCK), per distruggere la Serbia, e il Kosovo indipendente fu riconosciuto dalla maggior parte degli Occidentali solo per crearvi una delle maggiori basi americane all’ estero, nonostante che la sua secessione imposta da eserciti invasori fosse l’esatto opposto di quanto l’Occidente ha predicato e praticato in tutto l’Est (l’intangibilità delle vecchie frontiere amministrative dei tempi del “socialismo reale”, cioè quella delle Repubbliche Federate, in quanto opposte alle “province autonome”, come il Nagorno Karabagh, il  Kosovo, l’Abkhazia, l’Ossetia, la Crimea e Sebastopoli, che, secondo le costituzioni staliniana e titoista, non avevano il diritto di secessione).

Lungo tutto il fianco Sud dell’ ex Unione Sovietica era stato addirittura costituito da decenni il nuovo raggruppamento G.U.A.A.M. (Georgia, Ucraina, Azerbaijan, Armenia, Moldova), il cui obiettivo  dichiarato era quello di omogeneizzare gli eserciti secondo gli standard della NATO, con il fine  per nulla nascosto di preparare la loro adesione alla NATO. Contemporaneamente, nascevano (o rinascevano) conflitti “nazionali” fra questi Stati e le loro minoranze etniche, russofone o filorusse (Nagorno-Karabagh,Transnistria, Gagauzia, Crimea, Abkhasia, Ossetia), creando un clima di scontro permanente fra gli Stati del G.U.A.A.M. e la Russia, fino all’Euromaidan, sostenuto in gran parte da uomini e movimenti eredi dell’Ucraina “banderita”, parzialmente alleata della Germania nazista (nasti pensare a Victoria Nuland che distribuiva panini ai militanti di Pravy Sektor che sparavano balle incendiarie contro il parlamento di Kiev).

Così, si assiste al paradosso che, quando, nelle Repubbliche, i “veri” dissidenti (per esempio Solzhenitsin e Dziuba, senza dimenticare il progettista aeronautico Antonov) si erano battuti (finendo in prigione) contro l’URSS, nessuno in Occidente li aveva aiutati, mentre invece oggi, quando si tratta solo di conflitti artificiali orchestrati dall’ esterno fra popoli europei (spesso assolutamente simili fra di loro), tutti si agitano per sostenerli, in pratica combattendo, con i loro soldi, le loro armi e i loro mezzi di comunicazione, al posto loro e contro l’ Europa.

4.”Antiquatezza” delle nazioni borghesi o socialiste

Se le nazioni borghesi e socialiste avevano una loro ragion d’essere nella fase di transizione fra la società agricola e quella industriale, non l’hanno più nell’ era delle Macchine Intelligenti, quando l’unica realtà politica rilevante è una guerra generalizzata fra la Società del Controllo Totale e l’insieme delle identità del mondo, la quale si articola in una serie di guerre parziali: quella culturale, quella tecnologica, quella economica, quella in Europa Orientale, quella nel Sahel, quella in Medio Oriente, quella nel Mar della Cina…

Oggi, gli unici soggetti politici effettualmente possibili sono quegli Stati-Civiltà che, come gli USA, Israele e la Cina, hanno un loro progetto universale, una cultura autonoma e un proprio complesso informatico-militare. I vari nazionalismi delle altre potenze (russo, giapponese, arabo o persiano) possono essere solo ancillari agli Stati-civiltà di cui condividono il progetto. In questo contesto, gli Europei potrebbero contare, nel dibattito sul futuro del mondo, solo inglobando, nell’ Identità Europea, quelle macroregionali, nazionali e locali (ed Europee orientali). In ciò, essi sarebbero enormemente favoriti dal fatto che le loro lingue si articolano, ancor più di quelle dell’India e del Medio Oriente, secondo una ramificazione che ricalca quella di un impero, con tante regioni, province e città gerarchicamente ordinate, sì che, per il “carattere nazionale delle lingue” (cfr. Humboldt e Herder, vedi supra), esse si presterebbero benissimo a un’ articolazione amministrativa interna di un’ Europa unita. Per esempio:

-“Romania” latina (Iberia; Gallia; Italia; Dacia);

-“Grande Nord” (Scandinavia;Germania;Benelux; Inghilterra);

-“Slavia”, a Oriente (Russia;Intermarium; Jugoslavia);

-“Keltia”, a Occidente (Scozia;Irlanda;Galles;Cornovaglia;Bretagna);

-“Impero d’ Oriente” (Turchia; Tatarstan; Azerbaijan; Armenia;Georgia;Baskortostan);

-“Mediterraneo”,a Sud (Euzkadi;Malta;Grecia;Albania;Cipro);

-“Finlandia/Ungheria” (“Grande Finlandia”; “Grande Ungheria”; Mordostan).

Una costruzione siffatta, al di là della sua definizione costituzionale (impero, confederazione, federazione, unione), avrebbe comunque una sua ragion d’essere storico-filosofica: quella di rappresentare la resistenza culturale più pura alla Singularity tecnologica, e a qualunque potenza che pretenda di instaurare un sistema di controllo totale. Nel fare ciò, si realizzerebbe nella sua vera dimensione l’idea di Heidegger che la fine della Modernità (“Oltre la Linea”) si debba compiere  là dove essa è incominciata. Il contrario del “Piano Kalergi” come interpretato dalla propaganda sovranista. Kalergi, seguace di Nietzsche,  era, oltre che un grande aristocratico internazionale, un sovranista europeo, che riteneva che l’Europa coloniale dei suoi tempi (di cui egli non voleva assolutamente la fine) si sarebbe evoluta naturalmente nel senso di una fusione fra i popoli imperiali e quelli delle rispettive colonie. Perciò, essendo sostenitore di un’idea elitaria di politica, pensava alla costituzione, per guidare questo complesso, di un’ élite “pan-europea” (come conseguenza coerente del nome del suo movimento: Paneuropa). Orbene, quest’ élite, ch’egli vedeva, sempre sulle orme di Nietzsche, come una fusione fra aristocrazia mitteleuropea e “Hofjuden” (a cui egli aggiungeva gli oligarchi dell’ economia sovietica), avrebbe sostituito, nella guida dell’ Europa, l’antica aristocrazia ereditaria.

All’ interno di quella nuova “missione” dell’ Europa nel Secolo XXI, si collocherebbero le “missioni parziali”: dei popoli slavi, quella di rappresentare un’area ancora non occupata dall’ impero mondiale; quella dei popoli latini, di perpetuare il patrimonio delle culture classica e cristiana; quello dei popoli germanici, che è quello di “rappresentare” l’ Europa in Occidente; quello dell’ “Impero di Oriente”, che ci “rappresenta” verso l’Islam, e così via. E, all’ interno di queste missioni “macro-regionali”, si collocano quelle delle singole nazioni. Quella dell’ Italia può benissimo essere, proprio  come scriveva Gioberti nel suo “Primato”, quella di una “nazione sacerdotale”, che si prenda cura di orientare le Chiese in un senso coerente con gli obiettivi storici sopra delineati, grazie all’influenza trasversale  di quella di Roma sul movimento ecumenico (cristiano e no). Ove ciascuna di queste “macroregioni” ha i suoi classici e i suoi profeti, da inserire in quel “Pantheon ideale” di cui parlava Coudenhove Kalergi: Cirillo e Metodio, Nestore di Kiev, Komensky, Mickiewicz, Dostojevskij, Omero, i Lirici Greci e Romani, i Tragici, Virgilio, Dante, De las Casas, Vieira, Ricci, Hume, Byron, Carlyle, Eliot, Pound, Huxley, Burgess,Firdowsi, Nizam-i Ganjavi,Jalal ed-Din Rumi,  Solimano il Magnifico, Herczeg, Kadaré…

Solo così, e non in base a preconcetti propagandistici etero-diretti, si possono definire oggi le missioni delle nazioni, e, di conseguenza, i loro rispettivi progetti pedagogici.

 5.Amare l’Europa, ma anche l’ Italia e il mondo

Il richiamo, da parte di Fabbrini, alla cittadinanza italiana e a uno sguardo europeo sullo ius scholae, ci ricorda che concedere la cittadinanza italiana significa automaticamente concedere anche quella europea. Tuttavia, se, come noi sosteniamo, l’idea di Europa che è andata prevalendo nella cultura ufficiale è radicalmente lontana, tanto dalla realtà effettuale del XXI secolo, quanto dalle radici storiche del Continente, è ovvio che educare i figli degl’immigrati come stiamo educando i nostri sortirebbe effetti catastrofici, quanto e più di quelli riscontrati sui giovani europei, di cui tanto si deprecano, e giustamente, l’inconcludenza, l’incultura, il qualunquismo e la violenza gratuita.

Si è descritta (e si continua a descrivere) falsamente l’Europa attuale come un paese di Bengodi, in cui non sono più necessari la lotta, la competizione, lo sforzo, la definizione di ruoli, mentre, invece, l’economia europea si ritrae in modo palpabile davanti alla nostra ignavia (pensiamo alle vicende della FIAT, della Volkswagen, dell’ ILVA, del surriscaldamento atmosferico), le macchine intelligenti avanzano inesorabilmente (le guerre sono  combattute dai droni assassini, i nostri dati sono spiati dai GAFAM e dalla NSA, sono già stati automatizzati la banca, il fisco e l’editoria), la natalità crolla, l’immigrazione è drammatica e incontrollata e provoca reazioni inconsulte, l’Europa viene sacrificata a scelte geopolitiche altrui (vedi dazi e sanzioni, spesa militare, alta tecnologia, guerre per procura), la finanza ci punisce irrimediabilmente (evasione fiscale, signoraggio del dollaro, criteri di Maastricht), l’etica pubblica si deteriora continuamente (perdita di credibilità di Chiese e ideologie, scandali continui, “amichettismo”, prevalere di personaggi ridicoli e “fantozziani”). E’ ovvio che anche i giovani immigrati, specie quelli “di seconda generazione”, si sentano traditi dalle promesse dell’Europa.

L’educazione degli Europei di domani non può non tenere conto di questa decadenza, e quindi dev’essere un’educazione combattente, per resistere alla barbarie che avanza, con la competenza, l’educazione del carattere e la riscoperta delle tradizioni. Innanzitutto quelle europee (la cultura classica, le “Religioni del Libro”, la cultura alta, la religione civile, l’epistocrazia), poi anche quelle extraeuropee, che non possiamo ignorare, né pretendere addirittura che anche gl’immigrati le dimentichino. Almeno per ciò che riguarda le classi dirigenti, s’impone di conoscere le culture orientali, l’Islam, e di tutti i popoli d’Europa (compresi ebrei, islamici, balcanici, baltici, slavi e popoli delle steppe), e il contributo ch’essi hanno dato all’ Europa.

Non parliamo poi dell’informatica e della linguistica generale e comparata, che, senza inficiare, ma, anzi, sostenendo, la cultura alta, debbono alimentare gli studi di ogni ordine e grado, ivi compresa la formazione permanente e “on the job”. Cina e India hanno superato di gran lunga gli stessi Stati Uniti quanto alla diffusione della cultura scientifica.

A quel punto, ben venga lo “ius scholae” come condizione per la cittadinanza, perché così ogni giovane che studierà in Europa sarà adatto a partecipare alla nostra lotta contro la società del controllo totale. E, forse, molti giovani immigrati impiegheranno, in questa lotta, quella “pasionarnost’” che a noi manca. Pensiamo ad’”immigrati” come Sant’Agostino, Jalal ad-Din Rumi, Pushkin, Ivanov, Kojève, Gumiliev,Eliot, Pound….Sarebbero  piuttosto molti dei nostri connazionali, a cominciare da molti in posizioni apicali, a non meritare la cittadinanza europea.