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SONO FRA QUELLI CHE HANNO VENDUTO L’ASPERA DI RIVA DI CHIERI

La vendita dell’ Aspera (azienda fabbricante a suo tempo i compressori per i Frigoriferi FIAT), alla Whirlpool, il maggior fabbricante d’America di elettrodomestici (nel 1985, cioè trentatre anni fa), costituisce la premessa storica della tormentata vicenda dell’odierna Embraco di Riva di Chieri, l’unità produttiva che la multinazionale americano-brasiliana sta ora chiudendo nonostante le proteste del Ministro dello Sviluppo Economico, e perfino del Papa.
Avendo partecipato in prima persona alla cessione al gruppo Whirlpool, credo possano risultare interessanti alcune mie considerazioni, che possono valere in parte anche per altre operazioni di questi giorni, come la vendita di Italo, la scalata di Mercedes e la chiusura dell’ Iol di Torino.
1.Un po’ di storia

Era il 1985: la società di management Fiat Componenti Spa era incaricata della gestione di un’ ottantina di Società nel settore dell’ industria leggera, con l’obiettivo sostanziale di riaccorparle in modo diverso. Io ero il responsabile del Servizio Legale. In 6 anni, vendemmo una quarantina di società e ne comprammo altrettante, riorientandoci verso il settore dei componenti autoveicolistici (intorno ai gruppi Marelli e Gilardini). L’obiettivo dichiarato era quello di migliorare la situazione patrimoniale del Gruppo, permettendogli di concentrarsi sul “core business” autoveicolistico, magari in vista di un’alleanza del tipo di quella che sarà poi la FCA. In quell’epoca, sembrava avvio che i possibili acquirenti potessero essere solo multinazionali americane, come la Whirlpool o la PPG.
2.Abbiamo proceduto alla cieca
E’ tuttavia scioccante considerare, con il senno di poi, quanto il contesto attuale fosse già allora prevedibile, tanto per ciò che riguarda le tendenze della Whirlpool e dell’industria americana in generale, quanto per il futuro dell’Europa Orientale. La situazione sociale a Benton Harbor (fra Chicago e Detroit), sede del Gruppo Whirlpool, era, e ancora è, ben peggiore che a Torino o in Slovacchia. Se il vero problema fosse stato quello dei bassi salari, allora quale sede migliore di Benton Harbor, con un reddito medio pro-capite di 9000 Dollari (cioè 7000 Euro) l’anno? Un’ennesima prova della non affidabilità delle teorie economiche prevalenti. Infatti, il sito di Benton Harbor è stato da sempre boicottato da parte di Whirlpool, ma per motivi prettamente politici. La situazione era, ed è, colà, esplosiva, con il 93% della popolazione composta da afroamericani e il primato storico degli scontri razziali in USA (1960,1966, 1967, 1990 e 2003).
Nel frattempo erano accadute tante cose che mettevano a soqquadro le previsioni di allora: la caduta del Muro di Berlino, l’acquisizione della maggioranza delle azioni Embraco da parte di Whirlpool, e di Aspera da parte dell’ Embraco stessa, l’apertura di Embraco Slovakia, nonché la costituzione di una joint venture Embraco in Cina, il tutto sotto l’egida della Whirlpool.
Come noto, tutti i Paesi dell’ ex blocco dell’ Est sono stati in grande sviluppo a partire dagli anni ‘90, sicché sembrava logico che molte attività economiche europee, superata la crisi della transizione, si localizzassero di preferenza in quelle zone d’Europa. In quel processo, la questione dei bassi salari, che tanta demagogia scatena da noi, ha avuto un ruolo effettivo, ma non certo esclusivo, né permanente. Si noti che, grazie ai i recentissimi accordi collettivi, a Spišská Nová Ves, sede dell’ Embraco Slovakia, lo stipendio di un operaio è di quasi 7-800 Euro al mese per 14 mensilità (cioè circa il reddito medio di Benton Harbor), mentre le più recenti offerte di lavoro in Piemonte (per esempio, a Mondovì) sono anch’esse di 800 Euro al mese , ma per neolaureati! Semmai, il “dumping sociale” lo sta facendo la (ex-)Provincia di Cuneo. D’altro canto, visto che i gruppi Whirlpool e Embraco posseggono fabbriche in tutto il mondo è ben difficile accertare se, come si dice a Riva di Chieri, “i 500 posti di lavoro verranno trasferiti in Slovacchia”, o in qualche altro stabilimento, o non verranno trasferiti affatto. L’unica cosa certa è che, per effetto delle misure protezionistiche del Presidente Trump, sono state fatte in questi giorni, a Benton Harbor, 200 nuove assunzioni.
L’elemento fondamentale del successo dell’Europa Centrale è stato costituito, non già dai salari che si pretende siano particolarmente bassi, bensì dalle ottime prospettive di espansione dei mercati (dovute, se non altro, agli “effetti di trascinamento” della transizione), e dalle gloriose tradizioni tecniche (Spišská Nová Ves si trova al confine fra Slovacchia e Polonia, un’area che, oltre che per gl’impianti sciistici, è nota per le sue industrie militari e di precisione). Oggi, per questi motivi , la Slovacchia è divenuta la maggior produttore automobilistico d’ Europa.
Avevo condotto a suo tempo, nell’ area carpatica, trattative per l’acquisizione di due fabbriche di motori d’ aereo, una, nella capitale slovacca Bratislava, incaricata a suo tempo dal Comitato Centrale sovietico, della costruzione, su licenza URSS, di un motore per l’intero Patto di Varsavia, e, l’altra, non molto oltre la frontiera polacca, fatta costruire addirittura già negli Anni Trenta dal Maresciallo Pilsudski.
2.Adesso tutti si stupiscono

In questi 33 anni, tutto il processo d’ internazionalizzazione è stato intanto condotto congiuntamente da Americani e Brasiliani, e la fabbrica di Riva di Chieri è rimasta sempre più una semplice unità produttiva periferica, dove, ogni qualche anno, il Ministero dell’ Industria (oggi ribattezzato assurdamente “Ministero dello Sviluppo Economico”), pagava qualche decina di milioni per impedire una chiusura da tanto tempo attesa.
Dopo tutti questi anni, Il Ministro Calenda e i giornalisti italiani non capiscono ancora (o fingono di non capire) perché la Whirlpool rifiuti offerte obiettivamente vantaggiose del Governo Italiano, e hanno accusato, davanti la Commissione Europea, la Slovacchia di fare dumping sociale, ma, in realtà, dovrebbero prendersela piuttosto con il Presidente Trump, che forza le multinazionali con una sostanziale componente americana (comprese in primo luogo la FCA e l’Embraco), a rilocalizzare negli USA. Ad esempio, grazie ai recentissimi dazi imposti contro le importazioni coreane, la Whirlpool assumerà nel prossimo futuro i nuovi 200 dipendenti addirittura nell’odiata Benton Harbor. Tra l’altro, se vantaggi fiscali esistono oggi in Slovacchia, sono gli stessi previsti dai trattati di adesione e di cui hanno goduto le imprese italiane in Polonia.
Tutte queste cose messe insieme (sviluppo dei BRICS e dell’ Est Europa, spostamento delle produzioni e livellamento dei tenori di vita, protezionismo americano) si potevano prevedere fin dall’ inizio, e, soprattutto gestire a livello europeo. Lo posso testimoniare perché a partire dalla Perestrojka, facevo parte del gruppo di lavoro della FIAT sull’ Est Europa e l’Estremo Oriente. Invece, la cultura economica e politica iper-ideologizzata delle nostre classi dirigenti, il prevalere degl’interessi corporativi e la subordinazione ai gruppi americani, hanno fatto sì che l’ Europa non traesse, dall’espansine a Est, quei giovamenti ch’era logico attendersi, e che, anzi, ne risultasse addirittura danneggiata, creando, nei Paesi di Visegràd, quasi una “quinta colonna”.
La causa di tutto ciò è stato, in particolare, iI micidiale mix di liberismo e di keynesismo a cui siamo stati educati, a partire dal Piano Marshall, da una propaganda martellante (politica, accademica, economica, aziendale e sindacale), che ci ha fatto dimenticare che ciò che guida, da sempre, l’economia (sia essa americana, brasiliana, cinese o slovacca), al di là delle retoriche ideologiche, è l’interesse nazionale. Invece, l’Unione Europea ha rifiutato, e ancora rifiuta, di vedere che vi è un obiettivo “Interesse Europeo”, ch’essa sarebbe chiamata a rappresentare e difendere. Difesa che non dovrebbe consistere in anacronistici dazi, bensì in quella “Advocacy”, come dicono gli Americani (“Cospirazione nell’ Interesse Pubblico”, come dicono i Francesi, o “zouchuqu”-“andar fuori”, come dicono i Cinesi) per cui, grazie alla regia dello Stato o delle organizzazioni imprenditoriali, le molte forze (politiche, economiche, tecnologiche, culturali, militari) di un Paese si muovono all’unisono per vincere nella competizione internazionale, come precisato puntigliosamente nella nuova dottrina americana di difesa. In Europa, questo non solo non esiste, bensì è, in pratica, vietato perfino parlarne, grazie a un muro di gomma che, da sempre, “gela” ogni discorso su questo argomento.
3.Che cosa dovremmo fare?
Se Obama ha potuto “montare” l’americanizzazione della FIAT e la contro-mossa all’acquisizione della General Motors tedesca; se Trump ha reagito alle nuove misure europee contro le multinazionali del Web con una sorta di “condono” per farle rientrare in America e ha costretto le grandi imprese industriali a rilocalizzarsi in America; se, in Cina, la creazione di Zone Economiche Speciali è una prerogativa del governo centrale, non già dei governi prpovinciali, ci sarà bene una ragione. Invece, da noi, tutti (multinazionali, imprese nazionali, Stati membri, Autorità locali) possono fare tutto ciò che vogliono, in pratica beccandosi fra di loro come i capponi di Renzo.
Adesso, ci si si scandalizza, improvvisamente, per il fatto che gli Stati membri si facciano una certa concorrenza fiscale, o che le multinazionali vadano là dove risulta loro più conveniente. Ma, con la cultura politico-economica apolide (“apatride”, come avrebbe detto il Generale De Gaulle), che caratterizza le nostre classi dirigenti, le cose sono andate sempre così e continueranno ad andare così. Come scriveva già nel 1968 Jean-Jacques Servan-Schreiber, abbiamo costruito il Mercato Unico per permettere alle multinazionali americane di operare più facilmente in Europa, mentre però le imprese europee non ne approfittano (e, stanno, difatti, progressivamente scomparendo): vedi Olivetti, British Leyland, Minitel, FIAT, Nokia, Volvo, Pirelli…).
Mi sono occupato da 46 anni (con “cappelli” estremamente differenti, ma, purtroppo, sempre senza nessun effettivo potere decisionale), dell’ internazionalizzazione delle imprese italiane. Se avessimo cominciato fin da subito a fare una politica economica e una programmazione territoriale paneuropea, con regole certe e un chiaro principio di “Europe First”, non ci troveremmo a contenderci delle periferiche unità produttive di proprietà di americani, brasiliani, giapponesi, indiani, arabi, nigeriani e cinesi, mentre le holding extraeuropee, che, con i loro profitti, i loro stipendi miliardari, i loro super-consulenti, sono veramente “il grasso” del mondo industriale, stanno sempre più fuori dei nostri confini.
Paradossalmente, gli unici che avevano parlato di una programmazione europea (già fin dagli Anni ’60) erano stati Giovanni Agnelli e Ugo La Malfa.

3.Sulle specializzazioni dell’ Italia.

Non solo List e Halecki, bensì perfino Adam Smith e Marx, avevano attribuito un ruolo centrale alla divisione internazionale del lavoro. In questa divisione, indipendentemente dalle ideologie professate, è comunque un vantaggio avere sul proprio territorio le attività più importanti, dal punto di vista politico, culturale, finanziario, economico, militare, ecc… In concreto, è meglio essere Papi che non parroci, “maîtres-à-penser” che non maestri di scuola, finanzieri che bancari, imprenditori che precari, Capi di Stato Maggiore piuttosto che caporali. Questo non è sciovinismo, è una realtà di fatto.
Attirare le attività chiave è comunque da sempre una delle prime cose che i cittadini chiedono alla politica, a cominciare dai monasteri medievali, dalle accademie culturali, dai bachi da seta, dalle manifatture di porcellana, e per finire con l’Arte Astratta.
E’, di converso, semplicemente ovvio che l’ Unione Europea non è in grado di raggiungere questi obiettivi. Basti vedere che Kurzweil, Musk, Zuckerberg e Bostrom decidono dall’ America il futuro dell’ Universo; Papa Francesco sta a Roma ma è argentino; i grandi capitali appartengono allo Stato cinese, a Soros, agli emiri arabi e ai finanzieri nigeriani; le holding dei grandi gruppi stanno in America e in Cina, le decisioni sostanziali, nella NATO, le prende il Presidente degli Stati Uniti, ecc…
Rovesciare questa realtà è, oggi, impossibile. D’altronde, un mondo multipolare richiede che le attività cruciali siano ripartite equamente nel mondo, in base alle rispettive “specializzazioni”. Sotto questo punto di vista, può anche essere logico che l’Europa, e, soprattutto, l’ Italia, non sia specializzata nelle moderne attività industriali e finanziarie, perché è già il centro dell’unica Chiesa con una presenza universale, dispone di una tradizione culturale unica (Greci, Romani, Rinascimento, Paestum, Pompei, Roma, Firenze, Venezia…), ha un patrimonio paesaggistico (Alpi, isole, campagne) amato in tutto il mondo…
Purtroppo, sotto l’influenza dei miti della modernità (anticlassicismo, tecnocrazia, industria), anche queste potenzialità sono state messe progressivamente da parte (abbandono del Greco e del Latino, tagli alla cultura, scempi ambientali come l’Ilva, Bagnoli, Gela…), prima, sotto l’influenza dell’ ideologia autarchica dello Stato nazionale (industrie militari, cultura “nazionale” e priorità alle industrie di base), e, poi, sotto quella di un confuso mondialismo.
Oggi, quando si è oramai realizzato lo scenario globalizzato e multipolare, quelle politiche risultano sconfitte dai fatti. La Chiesa è ormai maggioritariamente extraeuropea; abbiamo ancora, dopo 75 anni, in Europa, 500.000 soldati americani, in gran parte nelle più di 100 basi in Italia; solo più l’Eni, Leonardo e Generali possono ancora chiamarsi “campioni nazionali”italiani, e solo Arianespace ed Airbus “campioni Europei”), ma tutto il resto: holding metalmeccaniche e chimiche, linee aeree e ferrovie, case di moda e poli industriali, appartengono a proprietà straniere. Del resto, qualcosa di analogo sta succedendo in tutta Europa (pensiamo alla Nokia, alla Mercedes, alla Volvo…)
E’ quindi ora di vedere come valorizzare meglio quel che ci resta: la nostra natura e le nostre lingue, le nostre città antiche e le nostre cattedrali, le nostre Università e i nostri musei.
Un 21° secolo dedicato più alla cultura che alla tecnica sarebbe certamente nell’ interesse innanzitutto dei un’ Italia europea. Non v’è dubbio che l’ Europa abbia bisogno anche di finanzieri e industriali, manager e tecnici, commercianti e militari. Tuttavia, non è detto che ciascun Paese debba essere presente nello stesso modo in tutti i settori. Gl’Italiani potrebbero, e dovrebbero, specializzarsi nella “cultura alta” (per esempio creando una vera “Accademia Europea”), nella valorizzazione della storia (attraverso una capillarizzazione delle politiche culturali del proprio territorio, orientandole però a un pubblico mondiale), nelle industrie culturali e dei media, e, infine, nella ricerca sul controllo e l’umanizzazione delle nuove tecnologie.