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O ДOНЧЕ! (O DONČE!/O DONETZ!)

E’ iniziata l’ennesima battaglia del Donbass.

I corpi dei caduti dopo la battaglia con i Polovesiani

“Уже бо выскочисте изъ дѣдней славѣ. Вы бо своими крамолами начясте наводити поганыя на землю Рускую”

(”Avete ripudiato l’antica della gloria. Con le vostre discordie avete aperto ai pagani  la strada verso le terre russe”).

(Il Canto della Schiera del Principe Igor)

La battaglia del Donbass si sta combattendo ormai presso i Laghi Salati (il “Kurort di Slaviansk”), dove, secondo il Canto della Schiera del Principe Igor,  c’era stato lo scontro fra i Kievani e i Polovesiani, e comunque presso Raygorodok, dove sarebbe stato posto l’accampamento dei Polovesiani, che avevano allestito le famose danze in onore del principe prigioniero.

E’ strano che, in una guerra che si sta giocando in gran parte intorno alla storia, tutte le parti in causa ignorino un fatto così importante dal punto di vista simbolico, così come altri due fatti fondamentali: il Donbass ,  coincide infatti anche, in gran parte, da un lato, con l’area della repubblica anarchica della Makhnovscina (il fronte passa anche per Huiapole), e, dall’altro, esso era stato teatro dell’ avanzata italiana nell’ ambito dell’ Operazione Barbarossa; infine,  esso è anche molto vicino a Nikolajevka, vale a dire a quella “Sacca del Don” dove, durante la ritirata, morirono molti soldati dell’ Asse, in primo luogo i nostri alpini. Il tutto, all’interno dell’ antica Sarmazia, a cui accenna l’ultramoderno missile russo “Sarmat”, lanciato l’altra settimana.

Forse perché, mentre i “Rus’” sono descritti, nel Canto, come una nazione unitaria, per quanto distinta fra diversi principati, il Donbass viene invece attribuito inequivocabilmente ai loro  antagonisti polovesiani. Infine, tutto il “Canto” è praticamente una perorazione, rivolta ai principi della Rus’, per una lotta contro i “pagani”, che per altro sono strettamente imparentati con i principi della “Rus’”. Dunque, questa narrazione non si presta a nessuna delle due opposte propagande di guerra. Semmai, avrebbe un maggiore senso per i Turchi (che, infatti, a Mariupol hanno la loro importante “moschea di Roxolana”, scenario di varie vicende belliche). Del pari, spiace in Italia associare il Donbass a Nikolajevka, perché il ricordo dell’ Operazione Barbarossa sembrerebbe confermare le accuse all’Occidente di voler “colonizzare” la Russia, nonché avvalorerebbe le accuse russe al “neonazismo” ucraino, accrescendo l’”appeal” dei “rosso-bruni” nostrani. Infine, nessuno ricorda più la Makhnovśćina, perché l’anarchismo non ha mai avuto buona stampa, né in Russia né in Ucraina, ed, oggi, anche  il suo ricordo rischierebbe di incoraggiare il “putinismo di sinistra”.Infine, non occorre dimenticare che il Sarmatismo, uno dei principali sforzi nella storia per affermare un’identità europea-orientale, esercita ancor oggi il suo fascino specie in ambienti atlantisti, attraverso l’eredità di Brzezinski.

Resta il fatto che questa guerra, e questa regione del mondo, dovrebbe sollecitare una seria riflessione, oltre ovviamente, che  sulla pace e sulla guerra,  sui popoli e la loro natura, confini e organizzazione.

Statua polovesiana nel Donbass

1. Il canto della Schiera del Principe Igor

Ha per argomento la sconfitta di un esercito  della Rus’, avvenuta nel 1185 ad opera dei Polovesiani o Cumani (in Russo, Polovcy), un popolo di origine turanica, stanziato a nord del Mar Nero, noto soprattutto per le Danze Polovesiane, inserite nell’ opera lirica “Il Principe Igor” di Borodin,riciclate poi dagli Americani sotto il titolo di “A Stranger in Paradise”

Scritto forse poco dopo gli eventi narrati, il poema si staglia quasi come un unicum nella letteratura antico-russa, in una prosa ritmica, straordinariamente ricca di allitterazioni, metafore, ambiguità testuali. Un’altissima poesia, coincisa, evocativa, fatta di immagini tumultuose, s’intreccia con dolenti riflessioni sulla situazione politica della Rus’ kievana, dominata dalle lotte intestine tra i principi, sulla conquista del potere e sui cinici meccanismi dell’arte del governo e della diplomazia. Sembra proprio di vedere l’attuale guerra russo-ucraina. E, in effetti, le guerre non sono mai cessate nel “Corridoio Pontico” fra l’ Europa e l’ Asia: il bellicoso popolo Yamnaya, i popoli dei Kurgan, gli Sciti, i Sarmati, gli Argonauti, i Persiani, i Goti, i Khazari, i Mongoli, i Tatari, i Polacchi, gli Ottomani, i Cosacchi, i Russi, gli Svedesi, Napoleone, gl’Inglesi, il Regno di Sardegna, gli Austro-tedeschi, i nazionalisti,  i Rossi, i Bianchi, i Nazisti, l’ARMIR, la Légiòn Azul, l’UPA, l’Armia Krajowa, l’Armata Rossa, il Pravy Sektor, le Repubbliche del Donbass, il Battaglione Azov, l’esercito ucraino, quello russo, i mercenari, la NATO, i Ceceni…

Nel Canto, spiccano indimenticabili sprazzi di umanità: per quanto ingigantiti dall’esagerazione epica, le emozioni dei personaggi fremono e vibrano su tutte le corde della natura umana, che, nonostante il diversissimo clima culturale, sembrano rivivere oggi nel contesto tragico di questa guerra, altrettanto difficile da comprendere. La sete di gloria, l’eroismo, la nostalgia, la disperazione, il cordoglio, emergono prepotenti sullo sfondo di un ambiente naturale che sembra accordarsi alle emozioni dei personaggi. Il testo risente moltissimo – anche se forse soltanto per aderenza a un tipo di poesia epica – dell’antico spirito pagano: le forze della natura sono vive e titaniche; il principe Igor’ può dialogare  direttamente con il fiume Donetz,  simbolo del mito fondatore panrusso, e la mesta Jaroslavna può effondere il suo lamento al sole e al vento dalle mura di Putivl’, sostanzialmente al centro della zona  di partenza russa per l’ “Operazione Speciale” in corso. L’ideologia pagana affiora sotto molti aspetti, dando l’idea di una stratificazione piuttosto complessa di idee e concezioni. Al livello più evidente, abbiamo varie citazioni di antiche divinità slave, quali Daz’bog, Stribog, Veles, Trojan. La poesia trasfigura eroi e cantori in lupi e in falchi, e quelle che sembrano similitudini poetiche sono forse l’eco di antiche concezioni venate di sciamanesimo, che riappaiono nelle metafore usate ancor oggi, come per esempio “l’orso russo”.  Questi riferimenti alle antiche divinità hanno allo Slovo di valore euristico inestimabile inestimabile per lo studioso cazaco Olžas Omarovič Sulejmenov (Olžas Omarulı Sülejmenov) il quale, nel suo libro Az i Ja, ha sostenuto che molti dei loci obscuri dello Slovo possono essere  compresi solo analizzando il poema da un punto di vista turcofono. Anche l’inserzione  di riferimenti scandinavi, e, in generale, di tutta l’ Europa, fa pensare a interpolazioni. Tutto ciò avvalora la tesi che, nei popoli russo ed ucraino, vi siano forti componenti (storiche, culturali ed etniche) uralo-altaiche. Basti pensare ai nomi di Chaaadajev, Diaghilev, Frunze, Kaganovich, Chapaiev, Achmatova, Chagal, Gumiliov, Gagarin,  Nureyev,  Shoigu….

Sotto molti aspetti , il Canto si apparenta alla contemporanea epica europea e medio-orientale, e, in primis, al Nibelungenlied  e al Kudrunslied, al   Cantar de Mio Cid e alle Gesta Regum Britanniae (anch’essa al confine fra le  visioni del mondo pagane e cristiana), confermando il carattere europeo fin dal nascere delle culture russa e ucraina.

I Peceneghi ungheresi sono i Polovesiani

2.La Rus’ di Kiev e i Polovesiani

La Rus’ di Kiev era una federazione politica medievale situata nell’area delle odierne Bielorussia, Ucraina e la parte più occidentale della Russia. La denominazione “Rus’ di Kiev” (Kievskaja Rus’), del XIX secolo,  ha lo stesso significato di “Terra dei Rus’” (Ruskaja Zemlja), nome con il quale la regione era conosciuta nel Medioevo, e tuttora usata ora dal Patriarca Kirill a sostegno dell’ idea russa di unicità del popolo slavo-orientale.

I Rus’(Variaghi) , menzionati per la prima volta negli Annali di Saint-Bertin e nella Racconto degli anni passati, del XII secolo, una cronaca in lingua “drevno-ruskij”, provenivano dal Baltico, ma la loro etnia non è mai stata stabilita con sicurezza. Nella  la Cronaca, sono identificati come  Svedesi, Normanni, Inglesi  , Goti. In Norreno: Væringjar, da vár, pegno; in Greco :ΒάραγγοιVárangoi; in Slavo Ecclesiastico :варяже, varyazhe or варязи, varyazi; in Inglese Antico  wærgenga; in Francone:  wargengus  e, in  Langobardo, waregang. Dal 1°° secolo, moltiVariaghi”  furono mercenari nell’ esercito bizantino, e la “Guardia Variaga” costituì la guardia del corpo dell’ Imperatore.

La Cronaca  racconta come, a metà del IX secolo, la gente abitante nell’ area che sarà poi chiamata “Rus’” aveva invitato i “Rus’” a governare e mantenere l’ordine nel loro paese. Tre fratelli, uno dei quali si chiamava Riurik, accettarono l’invito e fondarono la dinastia dei Riurikovici, che sarebbe durata per oltre 700 anni. Intorno al 750,  si era stabilito un insediamento variago a Staraja Ladoga, vicino alla Finlandia. Igor, il figlio  di  Riurik aveva  spostato la capitale da Novgorod a Kiev (882 circa), da dove i “Riurikovici” governarono collettivamente le città della “Rus’”, ruotando fra i vari Principati.

Quando l’imperatore bizantino Basilio II ( che regnò dal 976 al 1025) chiese al Gran Principe Vladimir di Kiev un aiuto militare per difendere il suo trono, Vladimir chiese in matrimonio la sorella di Basilio, Anna. Il matrimonio fu approvato a condizione che Vladimir si convertisse al Cristianesimo (il “Battesimo della Rus’ di Kiev”).Quest’ultima  cadde poi in mano ai Mongoli tra il 1237 e il 1242, in seguito al che si svilupparono  le distinte “nazioni” bielorussa, russa e ucraina.

I Polovesiani (Kipchak, Cumani, Kun) erano un popolo turcico, che abitava il Desht-i-Kipchak (Steppa Polovesiana),  dall’ Irtysh (nella Siberia Orientale), al Danubio, passando per il centro dell’attuale Ucraina. La loro capitale era Sharukan, presumibilmente presso Raygorodok (“il villaggio del Paradiso”), presso Slaviansk, proprio dove si sta ora combattendo più animatamente.

Come testimoniato proprio dal Canto,  Kievani e Polovesiani intrattenevano rapporti strettissimi ed erano fra di loro imparentati.

Ancor oggi, in tutti i musei del Donbass ci sono molte statue polovesiane, simili a quelle dell’antico regno dei Turchi Azzurri, ritrovate sulla loro montagna sacra, in Mongolia.

I Polovesiani e altri popoli affini (Peceneghi, Cumani, Jassiani) furono travolti dai Mongoli e si trasferirono in gran parte in Ungheria, dove crearono la provincia della “Piccola Cumania” (Kiskunhalas). Nella visione del romanziere ungherese Ferenc Herceg, i Peceneghi costituirebbero il vero e proprio simbolo  degl’indomiti popoli pagani delle steppe, rimasti indenni dalla forzata cristianizzazione degli Ungheresi.

Fu pecenego anche il “Nobile Baibars”, lo schiavo  divenuto sultano d’Egitto, il cui nome, in lingua Qipchak, significa “Principe-Tigre”.

L’anarchico ucraino Makhno

2.La Makhnovśćina

Durante la Guerra Civile Russa, l’area fra Mariupol e Volnavakha aveva fatto parte della repubblica anarchica di Hulia-polie, sotto la guida di Nestor Makhno, mentre la parte orientale dell’ Ucraina faceva parte della Repubblica del Donetz e di Krivoj Rog, la Crimea era occupata dai generali  “Bianchi” Denikin e Vrangel’, a Kharkov c’era una Repubblica sovietica, e in Galizia una repubblica filotedesca creata con la Pace di Brest-Litovsk.

Durante un casuale incontro con Lenin,  espresse la differente visione della società tra anarchici e bolscevichi apparve con tutta la sua evidenza:

« Lenin mi rispose allora: il fatto è che i vostri contadini sono contaminati dall’anarchia. È un male? gli risposi. Lenin mi chiese poi dei distaccamenti rossi, della loro lotta eroica contro l’occupante, della mancanza di sostegno dei contadini. Temo, compagno Lenin, che siate male informato, risposi. I vostri gruppi restano lontani dalle strade e non combattono nelle campagne, come potete pensare che i villaggi vi sostengano? Non li vedono mai. Lui si mise a ridere: voi anarchici scrivete e pensate al futuro, siete incapaci di pensare al presente.» Ed ecco l’inno di Makhno: “Makhnovśćina, Makhnovśćina,Le tue bandiere sono nere nel vento, Nere come il nostro dolore, rosse del nostro dolore,
Sulle montagne e nelle pianure,
Alla neve e nel vento.

Attraverso l’Ucraina, insorgono i nostri partigiani
La primavera dei Trattati di Lenin ha consegnato l’Ucraina alla Germania;
In Autunno hanno disperso al vento la Makhnovśćina;

L’Armata Bianca di Denikin è entrata in Ucraina cantando,

Ma ben presto la Makhnovśćina l’ha dispersa nel vento.
Makhnovśćina, Makhnovśćina,

Che hai combattuto in Ucraina contro i Bianchi e i Rossi;
Makhnovśćina, Makhnovśćina,

Armata nera dei nostri partigiani, che voleva cacciare tutti i tiranni
Per sempre dall’ Ucraina. Makhnovśćina….”  
La ritrata dell’ ARMIR

3.La “Sacca del Don”

Qualche giorno fa, nel più completo silenzio, è stato approvato al Senato italiano il disegno di legge che istituisce la Giornata Nazionale della Memoria e del Sacrificio degli Alpini . Il provvedimento ha avuto 189 voti favorevoli, nessun contrario e un astenuto.  L’intento è di celebrare la Giornata il 26 gennaio di ogni anno in ricordo dell’eroismo dimostrato dal corpo d’armata nella battaglia di Nikolajevka del 26 gennaio del 1943, durante la seconda guerra mondiale. Gli bersaglieri, recandosi sul Don, erano avanzati attraverso Donetzk (Stalino/Staline) e, al contempo, calando da nord, la “Pasubio” si era aperta la strada verso la città combattendo contro agguerrite truppe motorizzate sovietiche. La battaglia di Nikolajevka, combattuta il 26 gennaio 1943, fu un feroce scontro tra le incalzanti truppe sovietiche e le forze residue dell’Asse in caotico ripiegamento dopo la sconfitta di Stalingrado e costituì la fase cruciale e risolutiva della ritirata, determinando l’annientamento delle truppe italiane dell’ ARMIR, decimate da morti, feriti e prigionieri, con una minima parte in grado di uscire dalla “sacca”.

Dopo la resa di Stalingrado, gli Italiani dell’ ARMIR  si ritirarono verso Occidente lungo una direttrice lievemente a nord del Donbass, passando per Nikolajevka: il 26 gennaio 1943 gli alpini e i rimanenti cannoni d’assalto tedeschi si scagliarono con le ultime energie contro le linee sovietiche e, alla fine della sanguinosa battaglia di Nikolajevka riuscirono finalmente a rompere l’accerchiamento. Come noto, un certo numero di reduci passò dalla parte dei partigiani, e un distaccamento aveva addirittura tentato di catturare Hitler e Mussolini.

Ovviamente, anche l’idea di celebrare Nikolajevka, il giorno prima della Giornata della Memoria, ha dato luogo a polemiche, dato che molti vi hanno visto un tentativo di banalizzare la Shoah, esaltando le truppe dell’Asse impegnate nell’Operazione Barbarossa. Tutto ciò sullo sfondo della rivalutazione del collaborazionismo ucraino, quale premessa alle attuali azioni della destra ucraina e del Battaglione Azov, che ricordano molto le modalità della resistenza a Stalingrado di von Paulus (che però, alla fine, non solo si arrese, ma addirittura passò ai Sovietici senza perdere il suo grado, e concluse la sua carriera in Germania Est).

Come si vede, i missili russi colpiscono un po’ dovunque all’ impazzata, anche nell’ immobile stagno delle politiche italiane della memoria.

Il “sarmatismo” della Confederazione polacco-lituana

4.Sarmat”, Sarmatismo

Ieri è stato effettuato il primo lancio ufficiale del missile balistico intercontinentale ipersonico russo “Sarmat”, dal nome del popolo che abitava anticamente l’Ucraina. E’ singolare la scelta di questo nome, legato all’Ucraina, alla Lituania, alla Polonia e alla Prussia.

Con un raggio d’azione di circa 18.000 km, il Sarmat è in grado di colpire qualsiasi punto del globo eludendo le difese  ABM statunitensi oggi in servizio, semplicemente ricorrendo ad una traiettoria che passi al di sopra del polo, zona non coperta da alcun apparato radar di “early warning” o sistema missilistico difensivo.

Lo sviluppo del nuovo ordigno era stato decretato nel 2010, In risposta allo schieramento dei missili antimissile statunitensi GMD, e dell’avvio da parte del Pentagono del programma Prompt Global Strike (PGS), nel 2009. Per garantire la sopravvivenza del sistema d’arma, il tempo di preparazione al lancio previsto è di 1 minuto, riducendo notevolmente la probabilità di essere colpito nel silo da un attacco preventivo nemico lanciato da sommergibili. A difesa dei siti di lancio è prevista l’installazione del sistema “Mozyr”, formato da un insieme di cannoni che sparano una “nuvola” di piccoli proiettili, costituiti da cilindretti di metallo che a una quota di 6 km d’altezza rilasciano 40.000 palline del diametro di 3 cm.

Lo sviluppo di sistemi d’arma sempre più sofisticati sta costringendo almeno qualcuno in Europa (compresi vari generali in congedo), a discutere sullo stato increscioso delle nostre difese antimissile, che contrasta in modo impressionante con l’inopinata presenza sui nostri aerei di testate nucleari comandate dall’ America, in palese spregio del Trattato anti-nucleare delle Nazioni Unite entrato in vigore l’anno scorso, ma non firmato dall’ Italia, che ci espone ad essere i primi destinatari dei missili russi. Laura Boldrini sta molto opportunamente preparando un progetto di legge a questo proposito, ma mi sembra molto improbabile che il Parlamento lo approvi.

I Sarmati, che come altri “barbari” a partire dal II-III secolo avevano ottenuto di stabilirsi nel territorio dell’Impero; in cambio dovevano fornire soldati per l’esercito romano. La Notitia Dignitatum attesta la presenza in Italia, nei primi anni del V secolo, di 15 colonie militari di Sarmati, soprattutto nella pianura del Po, sotto il comando di un Praefectus Sarmatarum Gentilium. Una di queste guarnigioni era stanziata nell’odierna provincia di Cuneo, a Pollentia (oggi Pollenzo), nota per essere stata teatro nel 402 della battaglia tra i Visigoti di Alarico e i Romani, fra le cui file erano presenti cavalieri Sarmato-Alani (e oggi sede dell’ Università del Gusto). In seguito si sarebbero spostati dove oggi sorge il piccolo paese di Salmour.

Nella Confederazione Polacco-lituana si credeva che molti nobili fossero in qualche misura discendenti dei Sarmati. In particolare, gli “Ucraini” di quel periodo affermavano di essere discendenti dei Roxolani e dei Khazari turchici. I loro antenati avrebbero asservito gli Slavi nativi e, come i Bulgari in Bulgaria o i Franchi germanici che conquistarono la Gallia (Francia), alla fine avrebbero adottato la lingua locale. La nobiltà giunse quindi a credere di appartenere a un popolo diverso  dagli Slavi che governavano: la “Nazione Aristocratica” (“Herrenvolk”). Gli studiosi moderni hanno scoperto  prove che mostrano che effettivamente gli Alani, un popolo tardo-sarmatico che parlava un idioma iranico (oggi, gli Osseti, divisi fra le Repubbliche dell’Alania russa e Ossetia “alleata”, centro di un altro conflitto post-sovietico), avevano effettivamente assoggettato prima del VI secolo le tribù slave nell’Europa orientale, e che questi “Sarmati” formavano effettivamente la classe dominante dell’area. Nella sua pubblicazione del 1970 “The Sarmatians” (nella serie “Ancient Peoples and Places”) Tadeusz Sulimirski (1898–1983), discuteva  queste prove dell’antica presenza sarmatica nell’Europa orientale, ad esempio, i ritrovamenti di vari oggetti funebri come ceramiche, armi e gioielli.

In Europa, Hürrem Sultan, l’unica imperatrice ottomana, è conosciuta come Roxelana, nome attribuitole dall’ambasciatore di Amburgo, il  quale sosteneva che fosse originaria dell’attuale Ucraina e si chiamasse in realtà Alexandra. Roxolana era il nome in Latino della sua terra di origine, la “ Roxolania” (Rutenia), dal nome di una tribù sarmata. Infatti, i poeti polacchi dell’ epoca scrivevano le poesie “Roxolanae” in onore delle damigelle ucraine.

Aleksandra era stata ceduta dai Tatari di Crimea ai mercanti di schiavi genovesi di Caffa, che  portarono la ragazza, allora probabilmente quattordicenne, al loro mercato degli schiavi di Costantinopoli nel distretto Genovese di Pera e Galata , dove fu “acquistata” dall’Harem del Solimano il Magnifico.

Nel XIX secolo la cultura sarmatista della Confederazione polacco-lituana fu ritratta e popolarizzata da Henryk Sienkiewicz nella sua trilogia: Col ferro e col fuoco (Ogniem i mieczem), Il diluvio (Potop) e Il signor Wołodyjowski (Pan Wołodyjowski). Perfino Nietzsche, teorico per eccellenza  dell’aristocrazia europea,  pretendeva di discendere dalla Szlachta e si atteggiava a “sarmata”, in particolare  con i suoi baffi “a manubrio”, tipici  della piccola aristocrazia polacca e dei Cosacchi. Sosteneva anche che il suo cognome originario fosse Nitzski.

Il Battaglione Azov, elemento fondante del nazionalimo ucraino

5.”Nation Building”

Come risulta dai fatti precedentemente citati, anticamente non c’era una distinzione fra Russi, Bielorussi ed Ucraini. Questo fatto può evidentemente portare alle due diverse conclusioni: (i)i tre Paesi sono uno solo, come sostengono Sol’zheitzin e Putin, oppure che (ii)sono distinti e contrapposti, come sostengono Shevchenko e Zelenskii.

I primi fanno leva soprattutto sul fatto culturale: la letteratura, la musica, la politica, russe ed ucraine sono praticamente identiche (La “Cronaca” e il “Canto”, la lingua “drevno-ruski”, i Cosacchi, Gogol’, Trockij, Khrusciov,Brezhniev). I secondi, sull’ etnos: i Moscoviti sarebbero una sintesi di Finnici e Mongoli, mentre gli Ucraini sarebbero una sintesi di Slavi e Germani. Questo avvicina paradossalmente la “metanarrazione” dell’Ucraina “post-Maidan” a quella del Mein Kampf, paradossalmente perché l’obiettivo storico centrale di Hitler era proprio la distruzione di tutti i Paesi slavi orientali (da trasformarsi nel terreno principale d’insediamento dei Tedeschi, il Lebensraum), anche se il vero e proprio “genocidio” avrebbe dovuto colpire soprattutto “la Russia del Nord”. La prima fase del Generalplan Ost comprendeva proprio l’Ucraina centrale (“Gothenland”) e la Crimea “Mark Thaurid”). Gli Ucraini avevano anche sviluppato, sulla base di quella nazista, tutta una loro teoria razziale ucraina, e si erano distinti per operazioni di pulizia etnica, tanto contro gli Ebrei, quanto contro i Polacchi. Questo  fa parte della controversa storia dell’ OUN, dell’ UPA, del Battaglione Azov e delle lotte interne alla Germania nazista a proposito del ruolo dell’ Ucraina nel Nuovo Ordine Europeo. Si sta vedendo quanto siano centrali queste memorie in tutte le guerre attualmente in corso, che sorprendentemente tutti tendono a dimenticare in questo caso, mentre ciò non succede certo in tutti gli altri casi di collaborazionismo.

Tutto quanto sopra dimostra quanto le dispute culturali o giuridiche sui “confini” delle “nazioni” siano sempre state (e continuino ad essere) pretestuose, perché i “confini” cambiano continuamente, e le “nazioni” non sono l’unica forma di organizzazione “politica”. Esistono anche le famiglie, le città, clan, le leghe, le tribù, le classi, i regni, i partiti, le allenze, gl’imperi,le Chiese,gli Stati-Civiltà …Chi invoca l’”essenza” di una “nazione” lo fa in genere in modo strumentale (l’”Anglo-saxon idea”; la “laicité à la Francaise; la “romanità” dell’ Italia). Basti pensare alle differenze fra America, Inghilterra, Irlanda, Scozia, Galles; fra lo spirito giacobino e quello vandeano…E poi, l’Alto Adige, l’Istria, la Dalmazia, sono “intrinsecamente” italiane, tedesche, austriache, slovene, croate? Infine, l’idea moderna di “nazione” non è europea, bensì americana: nasce con la Rivoluzione Americana, per essere poi trapiantata in Francia, Grecia, Germania, Italia, Finlandia, Polonia, Belgio, Ungheria, Sudamerica, e negl’Imperi russo e austro-ungarico, e imposta con un movimento violento di “Nation Building”(il deputato Barère, il Trail of Tears, la strage di Tripolitsa, la spedizione dei “Mille”,  la Guerra Civile americana, la Prima Guerra Mondiale, la strage armena, l’Olocausto, le Foibe, la cacciata dei Tedeschi Orientali, l’Operazione Vistola, le guerre dell’ ex Jugoslavia…

Invece, oggi, come chiarito, tra gli altri,  da Zhang Wei Wei e da Christopher Coker, ciò che conta sono gli “Stati Civiltà”:”Gli Stati europei non capiscono che gli Stati-civiltà sono distinti dagli Stati-nazione. Per uno Stato-civiltà, i cambiamenti politici significano poco. “

Gli “Stati-Civiltà”, metamorfosi postmoderna degli “Imperi”, sono chiamati a compiti  assolutamente differenti dagli Stati Nazionali: strategie culturali, politiche, economiche, militari, mondiali. Per essi, la conflittualità è permanente, perché essi sono impegnati contemporaneamente su tutti i fronti: Est-Ovest, Corea, equilibrio nucleare, Cuba, Vietnam, Afghanistan, Cecenia,  Irak, Bosnia, Kossovo, Georgia, Spazio, Artico, Ucraina…

Solo l’America, la Cina e l’India oggi di fatto lo sono (anche se spesso neppure essi in modo inequivoco), mentre la Russia, l’Europa e il mondo islamico non sono ancora riusciti a darsi un’identità sufficientemente forte de poter rappresentare sul piano mondiale la loro civiltà.

I Russi di oggi sono persuasi che, riunendo in un qualche modo “i cocci” dell’impero sovietico, essi potranno raggiungere la necessaria massa critica per essere uno “Stato-Civiltà”, evitando così, tanto la dissoluzione attraverso delle “rivoluzioni colorate” pilotate dalla NATO, quanto un lento assorbimento da parte della Cina. Gli Europei sembrano invece accontentarsi di essere un sub-assieme disorganico subordinato dell’Impero americano, che, secondo il “mainstream”, darebbe loro la tranquillità e il relativo benessere necessari per condurre un’ectoplasmatica vita “post-istorica”, senza capacità d’influire sulle sorti del mondo, ch’essi vogliono perciò considerare già decise a priori, “a prescindere, senza se e senza ma”. Noi siamo quindi parte dello “Stato-Civiltà” americano così come il Tibet, il Xinjiang, la Mongolia Interna, il Ningxia e lo Yunnan sono parte dello “Stato-Civiltà” cinese.

L’ascesa della Cina e la riottosità della Russia stanno dimostrando che “la Storia non è finita”, e che, pertanto, non è possibile, neanche per gli Europei, disinteressarsi delle sorti del mondo. Ché, anzi, oramai ogni frammento della nostra vita, dalla religione alla cultura, dall’ideologia alla politica, dall’ economia al lavoro, dalla casa al tempo libero, sono condizionati al 100% dallo “Scontro fra gli Stati-Civiltà”, attraverso le sanzioni, i profughi, l’escalation propagandistica.

Certo, le narrative geopolitiche di Russia ed Europa sono oggi fra loro molto distanti. Ma soprattutto, nessuna delle due è convincente, perché ambedue inconcludenti, e non adeguate all’ attuale stato del mondo. Infatti, esse non stanno portando, né l’una né l’altra, ad essere uno “Stato Civiltà”, come sarebbe oggi indispensabile per sopravvivere e come esse vorrebbero. La critica delle attuali narrative europee, russa e neo-ottomana deve costituire l’urgente strumento per la riscoperta dell’Identità Europea. Solo questa ci permetterà di ipotizzare una classe dirigente animata dalla difesa, con spirito unitario, delle particolarità dell’Europa, per opporci al Complesso Informatico-Militare.

Il simbolo del Battaglione Azov: Wolfsangel più Sole Nero

6. La “multi-level governance” al tempo delle macchine intelligenti

Il conflitto in corso è, fondamentalmente , parte di un conflitto fra i due unici Stati-Civiltà realmente esistenti: Gli USA e la Cina, combattuto, “per procura” da Russia e Ucraina. In situazioni di questo tipo, gli “Stati nazionali” tradizionali di stampo europeo (Inghilterra, Svezia, Finlandia, Germania, Polonia, Bielorussia, Ucraina, Francia, Italia, Ungheria, Serbia, Giappone, Australia),e la stessa Russia,  sembrerebbero  avere ancora un loro ruolo storico, come alleate o come avversarie degli Stati-Civiltà. Ma, in un mondo dominato dalle alte tecnologie, dove si collocano essi veramente?

Nel caso della Cina, essa segue la collaudata logica del “Tian Xia” quale codificato fin dai tempi della Dinastia Shang, o dei “cerchi concentrici”, che risale a Qin Shi Huang Di, vale a dire: Zhong Guo (Regno di Mezzo), province, ”concessioni”,  Stati tributari, Tian Xia (Ecumene): per esempio, Città  Metropolitana di Pechino, Province Ordinarie, Nazionalità, Province autonome, ”Una Nazione-due sistemi” (Hong Kong, Taiwan), CSO…

Nel caso dell’ America, c’ è qualcosa di simile (Stati federati, territori come Guam e Porto Rico, “alleati” NATO e AUKUS, Paesi sotto occupazione, come l’Irak e Okinawa)…(cfr. Immerwahr, l’Impero Nascosto).Almeno metà del globo fa parte di questo impero, come illustrato da Antonio Valladao (l’”America Mondo”). E’ proprio questo ciò che è oggi in discussione. Cina e Russia contestano che possa esistere un’”America-Mondo” che ingloba tutti i Continenti, come illustrato plasticamente dalla mappa del mondo dell’Esercito Americano, nella quale ogni parte del mondo fa parte di un comando americano, e come testimoniato dalle mosse americane negli ultimi anni (Prism, sanzioni a mezzo mondo, Patriot Act, Cloud Act, boicottaggio delle Nuove Vie della Seta, Endless Frontier Act…). La Cina e la Russia affermano ormai da gran tempo di non accettare un ulteriore rafforzamento dell’”America Mondo”, che si sta traducendo in un assedio “ibrido” nei confronti di più di metà del mondo e in un tentativo di loro strangolamento economico (come ben evidenziato nel recente conflitto). Questo rifiuto si è tradotto, nella recente dichiarazione congiunta di Pechino, nel lancio di un piano per sostituire l’attuale sistema internazionale, basato sulle alleanze dell’ America (l’”America-Mondo di Antonio Valladao), con un nuovo sistema multipolare. L’accettazione, da parte della FED, della continuazione delle forniture di gas russo all’ Europa, e, da parte della UE, del sistema di pagamenti in rubli, dimostra che questo progetto sta procedendo speditamente.

Ciò detto, dove si collocano oggi, in particolare, Russia, Ucraina ed Europa?

Il problema nasce dal fatto che l’Europa non è riuscita a realizzare la transizione fra gli Stati Nazionali ad una forma statuale continentale, foss’anche federale o confederale, come denunziato inutilmente da 70 anni dal federalismo europeo. In ciò sta il suo tipo specifico di particolarismo. Anche in Cina, in India e negli Stati Uniti, vi sono forti particolarismi, ma quelli europei sono così forti da rendere impossibile un’azione comune. Ai tempi della Battaglia di Teutoburgo, Roma sperava conquistare la Magna Germania, ma, dopo di essa, aveva rinunziato al Barbaricum. Jiri z Podebrad, re di Boemia, aveva poi addirittura inviato, nel XV Secolo,  come proposta, ai sovrani d’ Europa, il testo con tanto di timbri di un trattato per costituire un’organizzazione federale europea. Napoleone e Hitler avevano tentato di unire l’ Europa con la forza, a Alessandro I si era autoproclamato “Imperatore degli Europei”.

Tuttavia, (forse con la sola esclusione del periodo 1942-43) non vi è mai stato un momento in cui la maggioranza dei territori europei sia stata sotto il controllo di un unico potere, come invece successo nella Cina dei Qin, degli Han, dei Tang, degli Yuan e dei Ming, dei Ching, e sotto la Repubblica Popolare, o nell’ India dei Gupta, dei Maurya, dei Mughal e dell’ Impero Anglo-Indiano, oppure oggi, sotto il Bharat.

Le Comunità Europee, e, oggi, l’Unione Europea, sono stati due tentativi  di conciliare il tradizionale particolarismo europeo con l’esigenza di una gestione unitaria. Se tali tentativi erano stati assolutamente realistici negli anni ‘60 e ‘70 del ‘900, essi erano oramai insufficienti negli anni ‘80 e ’90, sotto la pressione della Perestrojka, e sono divenuti addirittura grotteschi nel XXI secolo, di fronte alla Società del Controllo Totale. Non per nulla, molti osservatori ritengono che l’Unione Europea abbia fallito il suo compito, in particolare nella crisi ucraina, dimostrando di essere solo un satellite degli USA.

In considerazione di quest’insufficienza, e della conferma del particolarismo europeo data dall’ emergere di ben precise soggettività della Russia, dell’Inghilterra e della Turchia, risulta più che mai indispensabile quella costruzione confederale ch’era stata proposta, alle Assise di Praga,  da Mitterrand e Gorbačev sotto l’egida di Giovanni Paolo II.

Questa sarebbe stata l’unica proposta sensata a conclusione della Conferenza sul Futuro dell’ Europa che si sta concludendo “grigiamente” (Mattarella). Come noto, oggi i più votati politici italiani (Letta, Meloni) stanno tentando per fortuna di appropriarsi di questa proposta, ma, intanto, la stanno deformando ideologicamente per farla diventare qualcosa di molto diverso.

Infatti, quella proposta aveva un senso solo se essa permetteva all’Europa, come diceva Giovanni Paolo II, di “respirare con i suoi due polmoni”, l’Europa Occidentale (con la sua cultura modernistica), e quella orientale (con la”pasionarnost”-per dirla con Gumilev- da una parte, del Ruskij Mir, e, dall’ altra, dell’ Euroislam).Crediamo che ci sarà molto da combattere su questo

“IL CUORE SANGUINA ANCORA”.

Al pettine tutti i nodi della crisi europea

Senza il “Tea Party”, non ci sarebbero state le “Rivoluzioni Atlantiche”

Voi – milioni. Noi – nugoli agguerriti.
Fateci guerra, o ardimentosi!
Sì, noi – gli asiatici! Sì, noi – gli Sciti,
Con gli occhi a mandorla e bramosi!

Noi – solo un’ora, voi secoli aveste.
Noi, servi docili e ubbidienti,
Fummo lo scudo tra le razze avverse
Dell’Europa e delle barbare genti!

Il vostro martello i secoli forgiava,
Coprendo il rimbombo della lavina,
E per voi una fiaba diventava
La distruzione di Lisbona e Messina!

Voi per centenni guardavate a Oriente,
Ammassando e fondendo i nostri ori,
E aspettavate il momento conveniente
Per puntarci contro i vostri cannoni!

E’ ora. Batte le ali la sventura,
E ogni giorno aumenta l’offesa,
E il momento verrà in cui nessuna
Traccia di Paestum resterà illesa!

O vecchio mondo! Finché non perirai,
Finché proverai un tormento amaro,
Rifletti, sii saggio, come Edipo vai
Davanti alla Sfinge col mistero arcano!

La Russia è la Sfinge. Esultante e afflitta,
Pur piangendo nero sangue con furore,
Essa ti guarda, ti guarda, ti fissa,
Con tutto il suo odio e tutto il suo amore!…

(Aleksandr’ Blok, “Gli Sciti”)

I Cosacchi scrivono al Sultano

Ancora una volta, oportet ut scandala eveniant. Proprio dagli eccessi della propaganda di guerra, di ambo le parti, potrebbe, e dovrebbe, nascere finalmente un dialogo senza pregiudizi e di alto profilo sull’autentica Identità Europea. Che non è affatto lineare, come vorrebbe il “mainstream” occidentale,  e come in fondo non vuole riconoscere nessuno (cfr. il nostro libro “10.000 anni d’identità europea”). Essa non comprende solo la “coscienza europea” occidentale, bensì anche, necessariamente, le culture dell’ Europa Centrale e Orientale.

Essa costituisce, a mio avviso, quella chiave per una “Nuova Architettura di Sicurezza”,  che  resterà introvabile  finché nessuno , né a Est, né ad Ovest, vorrà cercarla, mentre noi la stiamo indicando da ben 15 anni.

Ne posso parlare con coscienza di causa perché, contrariamente all’ attuale “establishment”, dell’Europa Centrale e Orientale, me ne sono sempre interessato, da molti decenni, impegnandomi per tante cause secolari che praticamente tutti  stanno scoprendo solo ora. Al tempo dei disordini studenteschi (‘68 e successivi), ero stato veramente uno dei pochi, o, meglio, l’unico, ad avere organizzato in Italia grandi manifestazioni di giovani contro ciascuna delle massime prevaricazioni del regime sovietico:

nel  1968, contro l’invasione di Praga;

-nel 1971, contro l’arresto a Danzica, dei sindacalisti del  Komitet Obrony Robotników  e, nel 1972, a Kiev, di Ivan Dziuba, (divenuto anni dopo  Ministro della Cultura), per il suo samizdat (in Ucraino)“Internacijonalizm czy Rusifikacija. In particolare, avevo affisso al portone dell’ Università di Torino un “Dazebao” in cui chiedevo (in tempi non sospetti) la liberazione  di Dziuba, arrestato per essersi occupato proprio del tema di oggi: “russità” e/o “ucrainità” dell’ Ucraina. Ne era seguita una rissa.

Quando noi facevamo quelle manifestazioni, nessuno si sognava neppure lontanamente di applaudirci, ché, anzi, eravamo stati ostacolati e minacciati, tanto dai partiti, quanto dalle istituzioni, quanto dai sedicenti “movimenti studenteschi”. Ricordo perfino che, avendo affisso uno striscione sul Palazzetto dello Sport chiedendo la liberazione della Cecoslovacchia durante una rappresentazione del Circo di Mosca, eravamo stati inseguiti con intenzioni minacciose dalla stessa polizia locale, oggi ovviamente impegnata nell’ assistenza agli Ucraini.

La verità è che l’attuale “establishment” non si è mai interessato dell’ Europa, bensì solo delle  sue obsolete ideologie, e, al massimo, dei rapporti fra le grandi potenze, in base ai quali i suoi membri  hanno orientato le loro carriere. E ciò ancor più ora, quando, con il suo appiattimento sulle posizioni americane, ha perso ogni residua legittimità ad esprimersi sul futuro del nostro Continente, o a pretendersi “europeista”.

Improvvisamente, quell’”establishment” e quelle persone (politici, giornalisti, intellettuali), che non volevano si protestasse contro eventi ben più inequivoci, adesso esigono un unanimismo “bulgaro”   circa le loro inutili lamentazioni sulle sorti di un’Ucraina che, allora, non sapevano neanche che cosa fosse.

Cito alcune frasi in Ucraino della sentenza contro Dziuba, praticamente simili, mutatis mutandis,  a quanto oggi l’ “establishment” divce di chi non si allinea con il “Pensiero Unico”: “L’”opera” di Dziuba ‘Internazionalismo o russificazione” è stata scritta  con un approccio non scientifico. Essa utilizza i classici del marxismo-leninismo, i documenti del Partito ed altre fonti, falsificandole e deformandole per sostenere la ‘concezione’ dell’ autore cherieccheggia le idee del nazionalismo borghese ucraino.’

Comunque, sempre con lo stesso risultato di allora: nessun miglioramento dell’insoddisfacente corso  degli avvenimenti, e solo l’avanzamento nella carriera  di quegl’interessati agitprop (sempre gli stessi sotto diverse bandiere)

Svolgiamo qui intanto alcune considerazioni, partendo da Dostojevskij, tirato in ballo inopinatamente dalla polemica fra l’Università “Bicocca” di Milano e lo scrittore Nori(autore del libro su Dostojevskij “Il cuore sanguina ancora”), per poi tornare a riproporre quella che era stata sempre la nostra posizione: l’Europa da Brest a Vladivostok, unica soluzione che eliminerebbe alla radice tutti i problemi, culturali, militari, economici e militari, che oggi ci tormentano, a Ovest come a Est.

Primavera di Praga

1.La battaglia intorno a  Dostojevskij

Ci associamo intanto all’articolo della coraggiosa Donatella di Cesare, che attaccava su “La Stampa” il conformismo russofobico imperante, citando giustamente Anna Netrebko, che, opponendosi al boicottaggio di Gergijev, ha scritto:«’Non è giusto costringere gli artisti ad esprimere pubblicamente le proprie opinioni politiche e a denunciare la propria terra d’origine’. Così chi ha la colpa di essere russo viene ovunque estromesso a priori da eventi artistici, organizzazioni sportive, tornei di calcio. Fifa e Uefa decretano l’espulsione della Russia, mentre il Comitato Olimpico esclude a priori cittadini russi e bielorussi, a meno che non si svestano dei loro panni di russi e bielorussi gareggiando come apolidi o neutrali. Ma la discriminazione si diffonde perfino nelle università e nelle accademie. Ricercatori che avevano scritto mesi fa articoli scientifici si vedono adesso rifiutare i propri contributi dalle riviste non con ragioni di merito, bensì per il semplice motivo di essere russi. Coinvolgere l’arte, lo sport, la scienza e la ricerca nella guerra non è una scelta saggia. Dovrebbe semmai essere l’esatto contrario: lasciare aperti proprio questi spazi al dialogo e alle prove di pace”. “Che chi è russo debba essere qui improvvisamente additato a nemico appare non solo inconcepibile, ma anche indegno di un Paese civile. È vero che i venti di guerra soffiano forti ormai anche per le nostre strade e nelle nostre piazze, e che c’è chi fa di tutto per accendere gli animi, ma forse occorrerebbe fermarsi prima di compiere gesti di cui pentirsi e vergognarsi”…. “Ha compiuto in tal senso un gesto più che discutibile Beppe Sala, primo cittadino di Milano, capitale dell’ospitalità, che ha portato Valerij Gergiev, sospetto di essere putiniano, a lasciare la direzione del Teatro alla Scala. Ma dirigere un’orchestra non è comandare una truppa militare. Questo significherebbe accettare solo gli artisti che, sotto intimidazione, abiurino pubblicamente”.

Il culmine di questa frenesia è la pretesa dell’autocritica. Bisogna dichiarare, non solo di essere contrari a questa guerra, bensì anche di essere contrari alla Russia (o almeno al suo Governo). Metodi cari al socialismo reale, di cui tutti accusano (poco logicamente) Putin, e alla cui realtà il “mainstream” europeo è in effetti molto più vicino. In generale, il “mainstream” occidentale è più l’erede dell’egemonia culturale marxista di quanto non lo siano i Paesi “sovranisti” dell’est (i quali sono semmai culturalmente gli eredi dei vecchi “dissidenti” come Florenskij, Gumilëv, Bahro, Amal’rik o Sol’zhenitsin). Era infatti il “socialismo reale” quello che credeva, come l’attuale “mainstream”, in una marcia trionfale del Progresso verso la Fine della Storia, pretendendo  che ogni evento fosse giudicato secondo questo metro, e deformando fatti e giudizi per farli coincidere con la “linea del partito”. Ora, quell’atteggiamento è stato “girato” semplicemente  nel senso che la “Fine della Storia” sarà costituita dalla Singularity Tecnologica, e che tutto ciò che serve a quello scopo (e in primis l’”Occidente”) va sottolineato ed esaltato, e tutto il resto va ostracizzato “senza se e senza ma”. Senza neppure documentarsi sui fatti, come fa il nostro “establishment”, che risponde oramai soltanto a riflessi pavloviani indotti da alcune lobby.L’iter provvidenziale verso la Singularity passa dunque, per gli attuali zhdanovisti, attraverso la “Missione dell’ Occidente”, la rivoluzione tecnologica, il mondo unipolare, i GAFAM, “lotta delle democrazie contro le autocrazie” e, soprattutto, l’ossequio allo Stato-guida americano.

I vecchi “dissidenti” e i “riformisti” dei Paesi comunisti, pur essendo diversissimi fra di loro, erano accomunati, nella loro diversità,  proprio dal rifiuto sostanziale di quella Modernità che accomunava sovietici e americani. Kadaré era un “nazionalcomunista” cultore dei miti ancestrali albanesi del Kanun e della Bessa; Sol’zhenitsin un nostalgico dell’ Impero Russo che teorizzava l’unità degli Slavi Orientali; Wałesa portava “la Madonna sul bavero della giacca”, ecc…E’ ovvio che i loro eredi intellettuali di oggi continuino a non apprezzare l’omologazione tecnocratica occidentale.

Di converso, le attuali paranoie piccolo-nazionaliste della Russia (e dell’ Ucraina) nascono proprio dalla pluridecennale repressione delle autentiche culture.

Sarebbe ora che si lasciasse “respirare con  i due polmoni dell’ Europa” un pensiero indipendente ed autentico, radicato nella nostra eredità culturale.

Ivan Dziuba, professore, patriota ucraino e ministro della cultura

2.”Filosofija Obśćego Diela”( “La Filosofia del Compito Comune”)

E’ paradossale che l’ideologia segreta dell’ attuale “mainstream” occidentale (il postumanesimo) prenda le mosse proprio da un ascetico e geniale bibliotecario di Mosca, Fëdorov, che, con la sua enorme personalità, era riuscito a trasformare, alla fine dell’ Ottocento, il suo modesto ufficietto in un cenacolo da cui passarono i massimi intellettuali russi del’ epoca: Dostojevskij, Tol’stoj, Berdiajev, Tsiolkovskij, Vernadskij…(i quali per altro sin gran parte si rivoltarono contro il suo insegnamento, ponendo le basi di quel “Pensiero Russo” che oggi sembrerebbe il nemico per eccellenza dell’ “Occidente”).

Secondo Fëdorov, l’Uomo doveva  innalzarsi dal suo stato di entità alle mercé di cieche forze naturali, e vittima di un’entropia dissolutrice, a quello di una realtà capace di controllare razionalmente i processi evolutivi e cosmici, al fine di risolvere definitivamente il problema della morte, che è alla radice di ogni male.

Nella concezione fedoroviana, la Natura è la nostra “nemica temporanea”, data la sua tendenza disgregatrice ed entropica; solamente una volta che avremo invertito il corso naturale che va dalla vita alla morte e reindirizzato tutto verso la “vita eterna”, essa diventerà la nostra “amica permanente”.

Se la Disintegrazione è infatti la regola universale, se la morte è il male più grande che affligge universalmente tutti gli uomini — un vero e proprio “crimine” che ha accompagnato l’uomo fin dalla sua comparsa — allora la Reintegrazione, la resurrezione dei morti, è il bene più alto e oggetto del compito umano. Ciò implica non solo raggiungere un’immortalità per coloro che nasceranno, ma ripristinare alla vita eterna tutte le persone che ci hanno preceduto, affinché possano condividere quel mondo perfezionato dalla ragione umana dove noi tutti vivremmo nella fraternità per sempre. La Resurrezione è la trasformazione dell’universo — dal caos verso il quale si sta muovendo — nel cosmo, in una grandezza di incorruttibilità e indistruttibilità.

Il Cristianesimo, secondo il filosofo russo, rimane l’unica religione “vivente ed attiva” che ha saputo trasformare fino in fondo il problema della vita e della morte in problema religioso, ma sarebbe sbagliato intendere la fede cristiana come una mera “commemorazione della vita” in quanto essa è anche, e soprattutto, “un compito di redenzione” che comprende  salvezza di tutto il cosmo.

Come nel “Primo Programma Sistemico dell’ idealismo tedesco”, la soluzione fedoroviana al problema della vita e della morte richiede l’unione delle due forme di ragione, teorica e pratica, e delle due classi, dotti e ignoranti.

Il “Compito Comune”, indicato dalla filosofia ‘supramoralista’ di Fiodorov, non farebbe altro che attuare ciò che Dio vuole da noi, ossia un progresso incessante delle conoscenze e un’applicazione continua delle stesse, in modo che l’uomo si avvicini in misura sempre maggiore alla perfezione divina.Fëdorov anticipava, tanto Teilhard de Chardin, quanto Ray Kurzweil.

Le Vie della Seta passano da Kiev

3. La “scienza della rianimazione”

L’uomo, grazie ai mezzi scientifico-tecnici, deve imparare non solo a migliorare se stesso, creando organi artificiali (protesi) adatti a nuovi ambienti ed estendendo ad infinitum la sua durata vitale, ma deve anche imparare a rianimare i suoi Antenati dalla polvere e dalle tracce che hanno lasciato. Tutta quanta l’attivitá scientifica dev’ essere dunque subordinata allo scopo finale di rintracciare gli atomi e molecole degli Antenati sparsi per il mondo, dato che “tutta la materia è la polvere degli Antenati”, per la loro ricostruzione in un nuovo glorioso corpo (come quelli degli estinti dinosauri che abbiamo visto rinascere miracolosamente in “Jurassic Park”.

E’ l’obiettivo perseguito implicitamente con le analisi dei reperti biologici in corso “a tappeto” da parte della scienza paleontologica, ed esplicitamente, dagli scienziati bolscevichi, con la mummificazione dei leader sovietici, con le ricerche sulla “quasi immortalità”, sulla criogenetica e sulla clonazione umana.

Fiodorov giunge a immaginare che, quando i discendenti dell’umanitá odierna, i ‘figli dell’uomo’, colonizzeranno tutto l’universo, trionferà la bellezza, tutto l’ordine cosmico diventerà così capolavoro artistico, prodotto adamantino e imperituro della creatività umana: l’estetica dell’astronautoica sovietica

La capacità di vivere in tutto l’Universo, consentendo alla razza umana di colonizzare tutti i mondi, ci darà il potere di unire  questi mondi  in un tutto artistico, in un’opera d’arte, della quale gli innumerevoli artisti, come nell’immagine del Creatore Uno e Trino, sarà l’intera razza umana, la totalità delle generazioni risorte e ricreate ispirate da Dio, dallo Spirito Santo, che non parleranno più attraverso certi individui, i profeti, ma agirà attraverso tutti i figli dell’uomo nella loro (supramorale) totalità etica o fraterna, attraverso i figli dell’uomo raggiungerà la perfezione (per Teilhard de Chardin, il “Punto Omega”; per Kurzweil, la “Singularity”).

I guerrieri “Yamnaya”
fra Russia e Ucraina

4.La leggenda del grande Inquisitore e il Racconto dell’ Anticristo

L’escatologia di Dostojevskij costituisce l’esatto opposto di quella del suo mentore, ed è questa la ragione per cui quest’autore può essere assunto come il lontano ispiratore della “Russia Sovrana”, e il nemico dell’ attuale “mainstream” occidentale. Il senso della Leggenda del Santo Inquisitore de “I Fratelli Karamazov” era stato  colto già da Rozanov, quando descriveva il viaggio dello scrittore  a Londra, in visita dell’esposizione universale del 1863. Nella folla raccolta a visitare i prodigi della scienza e dell’industrializzazione, egli riconosce …un quadro biblico, qualcosa della Babilonia, non so che profezia dell’Apocalisse che si va compiendo definitivamente” .

Secondo Dostojevskij, il socialismo ateo aveva trasformato il cristianesimo nei tre grandi miti di massa della società moderna: la moltiplicazione dell’avere, il valore eminente del fare e la sottomissione universale alla forza organizzativa del potere. Cristo aveva rifiutato l’invito di Satana a cambiare le pietre in pane rispondendogli che l’uomo non vive di solo pane. Ma le moltitudini affamate di beni da consumare non vorranno invece vivere soltanto per ciò che hanno o esigono di avere? L’uomo diventa così schiavo di ciò che possiede o di ciò che vuol possedere. Il secondo rifiuto di Cristo a Satana, che l’invita a gettarsi dal pinnacolo del Tempio per provare con un miracolo la propria divinità, significa la negazione che l’esorbitante potenza del fare sia la prova della grandezza dell’uomo. L’ultimo dono che il Tentatore offriva a Gesù nel deserto, tutti i regni della terra, viene sdegnosamente rifiutato.

L’interpretazione dell’omologazione modernistica come l’avvento dell’Anticristo sarà ripresa da Soloviov  nel Racconto dell’ Anticristo, una parabola ancor più esplicita del carattere ingannatore del mito del progresso universale, e della necessità dell’alleanza, contro di esso, di tutte le Chiese e religioni, ripreso dal “Ludus de Antichristo” di Ottone di Frisinga..

E’appunto a queste tendenze  di lungo periodo che si è riallacciato il Patriarca Kirill nelle sue recenti, contestatissime,  omelie, in cui ha ripreso il tema, classico nella cultura russa, della salvezza dell’ Europa per opera della Russia. Questo background è utile anche  per comprendere le passioni in gioco nella guerra di informazione in corso sulla guerra in Ucraina, che si sovrappone a due conflitti ben più globali e radicali, con cui non deve però essere confuso:

-quello fra la pressione globalizzatrice dell’ Occidente (“ogromnoje davlenije Zapada”), e la visione della Russia come Katèchon, ereditata dal Patriarca Filofej, autore dell’”Epistola sulla Terza Roma”, e ribadita, nei secoli,  da von Bader, da Dostojevskij, dai Neo-Eurasiatisti, e, da ultimo, dal Patriarca Kirill;

-quello fra gli antichi Imperi Eurasiatici (Cina, Russia, India, Iran, Pakistan), fautori di un Nuovo Ordine Mondiale multipolare, e la difesa a oltranza, da parte della NATO, di una sua pretesa superiorità -etica, esistenziale, economica, politica e militare-, contraddetta, però, tanto dai fatti, quanto dai numeri.

Ambo i conflitti debbono essere tenuti ben presenti nello studiare, valurtare e risolvere la guerra in corso. Invece, purtroppo,  a noi pare che le infinite forze che, in tutti i Continenti, si muovono contro il Post-umanesimo non riescano mai ad assurgere a un punto di vista più alto, in cui si comprendano veramente le cause di quanto accade, permettendo così l’elaborazione e la gestione di una strategia unitaria. Solo così questa battaglia potrebbe essere vinta.

Dopo la battaglia fra i Kievani
e i Polovesiani

4.L’Ucraina non è “Occidentale”

Le opposte propagande sono volte ad accreditare l’idea che l’Ucraina costituisca, come voleva già Brzezinskij, “la punta di diamante dell’ Occidente”contro la barbarie asiatica. In realtà, a mio avviso, l’Ucraina ha rappresentato in passato, e ancora rappresenta oggi, come dice il suo stesso nome, una terra di transizione fra Oriente e Occidente, e sarebbe un peccato se fosse costretta a scegliere, oggi, fra Russia e Occidente.

L’Ucraina ha condiviso con la valle del Don le prime civiltà indoeuropee; è stata il paese degli Sciti, dei Sarmati, dei Goti, dei Bulgari. dei Magiari, dei Khazari, dei Cumani, dei Peceneghi, dei Mongolo-Tartari, degli Ottomani, dei Cosacchi, dei Karaim e degli Askhenzaim. I Polacchi chiamavano l’Ucraina “Campi Selvaggi”, perché ivi cavalcavano senza freni i popoli nomadi delle steppe.

La stessa strenua resistenza dimostrata oggi contro l’Armata Russa dimostra il carattere guerresco degli Ucraini, non diverso in ciò da quello dei Russi, e non alieno dagli aspetti più severi dei costumi di guerra, dai poteri assoluti del Presidente, al divieto di tutti i partiti, all’ unificazione forzata delle reti televisive, agli omicidi dei “traditori”, alle deliberate eccezioni alla Convenzione di Ginevra, all’ uso di potenti milizie private fortemente ideologizzate. In realtà, il pericolo della cosiddetta “autocrazia” denunziato dalla retorica occidentale è un fenomeno universale, derivante dalla transizione digitale, dalla “guerra senza limiti” e dalla “Società del Controllo Totale”, che conferiscono ai Governi poteri sempre più estesi in qualunque ambito territoriale e geopolitico.

Comunque, nella narrazione ucraina, il Paese sarebbe l’erede culturale soprattutto dei selvaggi Cosacchi, il cui nome stesso è turco, e significa “cavalieri erranti”. Quindi, per definizione,ancora i popoli guerrieri e nomadi delle steppe, il cui prototipo è costituito dal Taras Bul’ba messo in scena del russo-ucraino  Gogol’. L’immagine più classica dell’antica Ucraina, quella che rappresenta i Cosacchi di Zaporozhe, che, incominciado a propendere per il Gran Principe di Mosca, scrivono collettivamente una provocatoria lettera di contumelie al Sultano, li rappresenta come un branco di selvaggi mongoli.

Tra parentesi, è grottesco come i nostri media i sforzino di minimizzare le caratteristiche “neonaziste” del battaglioni speciali dell’esercito ucraino, caratteristiche che sono evidenti a tutti, a partire dalla loro origine storica, per passare alla loro simbologia, e  finire alla storia dei loro collegamenti con vari eserciti occidentali, da quello austro-ungarico, passando da quello nazista, ed arrivare, alla fine, a quello americano. Nel Dopoguerra, i battaglioni speciali occidentali sono nati da organizzazioni politiche di “rivoluzionari di professione” filo-americani attivi su tutti i fronti delle guerre post-sovietiche (difesa del Parlamento di Vilnius, guerre ex Jugoslave, Cecenia), condividendo la parabola delle analoghe formazioni baltiche. Prima ancora, essi si riallacciavano all’ UPA e al tentativo di Rosenberg (stroncato da Hitler) di favorire la nascita di un’Ucraina indipendente alleata con la Germania. Prima ancora, i fondatori dell’ UPA erano stati legati alla Repubblica ucraina fondata da ufficiali austro-ungarici al comando dell’ “Atamano” Skoropadski.

La loro simbologia è altamente significativa a questo proposito: il loro emblema risulta dalla sovrapposizione della runa “Wolfsangel”, usata da varie divisioni di SS, al “Sole Nero” che troneggiava nella sala delle riunioni del Wewelsburg, la roccaforte delle SS. Se ci si chiede perché il Governo ucraino abbia inserito queste unità nell’esercito regolare, e non sia parco neppur oggi di riconoscimenti, né per il leader dell’ UPA Bandera, né per gli attuali comandanti del Battaglione Azov, la risposta è che, senza unità così motivate e determinate, non sarebbero stati possibili, né l’Euromaidan (un caso di scuola di insurrezione di piazza), né la riconquista e la attuale difesa di Mariupol, città fondamentale dal punto strategico e simbolico. D’altronde, anche quelle dei separatisti del Donbass sono milizie volontarie, che combattono nello stesso spirito.

Credo che non sia irrilevante, a questo proposito, ricordare che il Donbass è vicinissimo a Stalingrado: è la “Sacca del Don” dove sono morti tanti Italiani, proprio a Doneck, allora chiamata “Stalino”(per via delle acciaierie).E che il Battaglione Azov è stato fondato a Mariupol, dopo una prima occupazione dei separatisti. Certamente, nella memoria collettiva, tanto dei Russi, quanto degli Ucraini, questo ricordo è tutt’altro che irrilevante.

L’insieme di questa vicenda appare caratterizzato fin dalle origini da un uso abnorme della propaganda di guerra e della disinformazione, non solo da parte dei soggetti implicati direttamente nel conflitto, ma da parte di tutti. Non parliamo qui delle polemiche sulla strage di Bucha, che dimostrano, se non altro, l’assurdità di questa guerra, dove tutti possono essere tutto e il contrario di tutto: le vittime sono “ucraine” o “Russe”? Le hanno uccise i Russi, i Siberiani, gli Ucraini,, i “nazisti”? Ma situazioni di questo genere possono e debbono essere valutate adeguatamente solo da tribunali internazionali (che per lo più non ci riescono neppur essi), perché perfino le Nazioni Unite se ne stanno rivelando incapaci

Osserviamo solo un al fatto veramente imbarazzane: che tutti, nei filmati degli “Ucraini”, soprattutto quelli  più anti-russi, parlano fra di loro inRusso, e non ne fanno neppure mistero. Basti guardare la versione originale della serie televisiva “Sluga Narodu”, che ha come protagonista Zelenskij, e che ha costituito base delle sue fortune elettorali, dove l’unico a parlare , sempre in Russo, ma con accento ucraino, è un politico che viene ridicolizzato e isolato da tutti i membri del governo (fittizio) di Zelenskij. Si badi bene, non un accenno di accento ucraino, e neppure russo-meridionale, neanche una “G” o una “o” all posto di una “a” aspirata: purissimo Russo moscovita (tant’è vero che Zelenskii era stato scambiato per un “filo-russo”.Anche il doppiaggio in Italiano  ha suscitato corrispondenti critiche.Ma ciò che è più impressionante che, anche  sul sito del famigerato “Battaglione Azov” ,  i colloqui sono anche qui in purissimo Russo, in particolare quelli che mostrano l’addestramento dal vivo dei miliziani. Hanno un accento più “meridionale” i comandanti dei separatisti. Dal che si evince con tutta evidenza che non siamo in presenza, come si dice in Occidente, di uno scontro fra opposti nazionalismi (o patriottismi), bensì di una guerra civile inter-russa per procura, fra “eurasiatisti” e ”atlantisti”, che procede dal 2008, ma ha le sue radici ben prima. Cosa che non stupirebbe nessuno, dopo le rivolte cosacche, gli scontri fra Bianchi e Rossi, le Repubblichette rivoluzionarie, l’Holodomor, la guerra partigiana e i “Fratelli della Foresta”. Tra l’altro, come riuscire a comunicare, fra tanti “volontari” e “mercenari”, in una lingua così sconosciuta come l’Ucraino? Nello stesso modo che nell’Assedio di Vienna, i soldati di Sobieski avevano dovuto, per distinguersi dai Turchi, usare bracciali colorati, così accade oggi in Ucraina fra i bracciali azzurri e gialli degli Ucraini e quelli bianchi dei Russi.

Se scadente è la qualità delle messe in scena ucraine, altrettanto  non convincenti i propagandisti russi. Come si farebbe, anche potendo e volendo, a “denazificare”, e perfino a “de-ucrainizzare”l’ Ucraina?Qui non siamo nel 1945, non ci sono i “Tedeschi” da “convertire”. Russi e Ucraini si confondono veramente, come si confondono fra loro un po’ tutti i popoli d’ Europa, che sono un continuum di civiltà, di culture, di lingue, dialetti, paesaggi, idee, da Gibilterra alla Čukotka, già feudo di Abramović. Anche nel rapporto della politica ufficiale verso la Russia vi è una transizione impercettibile, con l’”establishment” occidentale sempre più ostile, proprio mentre Ungheria e Serbia  confermano a schiacciante maggioranza i loro leaders pro-russi.

L’“internazionalità” della guerra è per altro comprensibile a causa dell’inaudita posta in gioco, che coinvolge da un lato, la sopravvivenza stessa dei Paesi belligeranti, ma, dall’ altra, anche l’intera struttura ideologica ed economica degli equilibri mondiali.

Colin Powel mostra alle Nazioni Unite una fiala di finta arma batteriologica

4.L’Ucraina, centro dell’Europa sulla Via della Seta.

Per tutti questi motivi, non avrebbe senso, né che l’Ucraina venisse annessa, totalmente o parzialmente, alla Russia, né che divenisse un membro ordinario della UE, né, infine,  che le fosse semplicemente attribuito uno “status” di neutralità. La sua forza deriva proprio dall’essere essa un elemento di equilibrio fra Est e Ovest, con eccezionali rapporti con l’Europa, la Cina e, soprattutto, la Turchia, che infatti è stata ben lieta di ospitare le trattative addirittura nel palazzo imperiale ottomano di Dolmabahce. Ricordiamoci, infatti, che buona parte dell’Ucraina era appartenuta, fino al 1700, direttamente o indirettamente, all’ Impero Ottomano, e Maidan è una parola persiana (mediata dal Turco e dal Tataro di Crimea).

Durante il colloquio annuale fra Cina e Ue tenutosi un paio di giorni fa a Bruxelles, la Cina ha affermato di stare lavorando per la pace in Ucraina, “ma a modo suo”. Prima dell’inizio della guerra, Wang Yi aveva già affermato che il ruolo dell’Ucraina era quello di costituire un ponte fra Est ed Ovest.

Questa tesi era quella che avevamo già sostenuto nel Quaderno n. 3 dei nostri Quaderni di Azione Europeista, che stiamo per ripubblicare come Quaderno 1-2022, con qualche correzione della tempistica, giacché esso appare ancor oggi attualissimo.

Infatti, indipendentemente dall’ esito del conflitto russo-ucraino, sta procedendo il progetto della Via della Seta, che non è solo cinese. Tra l’altro, sono stati terminati, o in via di completamento, i ponti di Pamukkale, sull’ Ellesponto/Dardanelli) e di Pelješac (fra la Dalmazia e Dubrovnik), e il tunnel sotto il Bosforo.

L’integrazione dell’ Eurasia procede,dunque,  nonostante tuti i “decoupling” (e gli embargo e le sanzioni con cui li si mettono in pratica).Dopo il recente incontro con i vertici UE, il Presidente Xi  ha affermato che la Cina and  l’Unione Europea  devono respingere la rinascita della “mentalità dei blocchi e della Guerra Fredda”. Perciò, la Cina accoglie con calore gl’investimenti europei  e vorrebbe esplorare una accresciuta complementarietà fra questo suo atteggiamento aperto e un’ autonomia strategica aperta, come si addice a “due grandi civiltà”.Peccato che, fra embarghi e sanzioni, alle imprese europee non lasciamo più fare commercio estero.

Quanto all’ Ucraina, Xi ha citato: l’urgenza che tutte le parti favoriscano le  trattative, anziché boicottarle; lavorare concretamente contro l’aggravarsi dell’ emergenza umanitaria; ricercare, con il supporto della Cina, un quadro di sicurezza europea equilibrato, efficace e sostenibile e completo.

A nostro avviso, tale “quadro equilibrato” potrà essere raggiunto solo se l’”Europa  da Brest a Vladivostok” diverrà, come la Cina, uno Stato-Civiltà, con una sua chiara e distinta identità, un suo Governo autorevole ed efficace, un suo esercito autonomo, quale reso possibile già dall’ attuale elevatissimo livello di spesa militare, se del caso ulteriormente rafforzato nelle direzioni di una comune cultura militare, della messa in comune delle armi nucleari e spaziali e della digitalizzazione a tappeto.

Oltre a ciò, l’ Europa e la Cina dovrebbero farsi portatori, a livello mondiale, di serie trattative per un’Organizzazione Mondiale di Difesa del Principio di Precauzione, che assorba AIEA, UNESCO, OMS e Agenzia per la lotta contro le armi chimiche e biologiche, che sostituisca gli obsoleti trattati in campo missilistico, per stabilire un controllo a tappeto sulle nuove tecnologie per impedire il superamento degli uomini da parte dei robot, lo scatenamento a sorpresa di guerre totali, la diffusione di propaganda di guerra, la gestione politica delle epidemie, la dipendenza dal web, ecc…

LETTERA APERTA A MASSIMO CACCIARI. AMARE L’EUROPA; NARRARE L’EUROPA

 

 

Caro Professore,

Appena terminato un Salone del Libro in cui la nostra casa editrice si è prodigata in modo speciale per fare avanzare il dibattito sull’Europa, la lettura del Suo articolo su “L’Espresso” del 19 u.s., “Patria Europa”, così vicino alle nostre preoccupazioni, mi ha stimolato a prendere posizione come segue sul tema della comunicazione dell’Europa, nella speranza di contribuire così a un dibattito autentico nella cultura “alta” anche su questo , centrale, tema.

Intanto, a me sembra che ciò che Lei ha scritto molto bene in quell’articolo, cioè che “..non si vince una grande battaglia politica e ideale come l’unione federale dell’Europa senza un’idea intorno ai suoi fini, e cioè al cammino che ha di fronte, ovvero alla sua missione o destinazione”, chi non fosse obnubilato da pregiudizi ideologici  o da interessi particolari, lo avrebbe potuto comprendere  già perfino a partire dal 1957, data di firma dei Trattati di Roma. Invece, proprio nella “Dichiarazione Schuman” si parlava di “realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”, un cammino fatto di “piccoli passi” senza una precisa meta finale (il “funzionalismo” deprecato, tra gli altri, da Spinelli e da Przywara).  La cultura europea sta forse cominciando a comprendere il vicolo cieco in cui si è messa in quel modo la politica, anche se, purtroppo, l’incertezza circa l’obiettivo finale, anziché svanire, sembra oggi addirittura infittirsi. Eppure, quelli erano gli anni in cui in America si tenevano le cosiddette “Conferenze Macy” sul futuro delle scienze e della tecnologia, nell’URSS venivano lanciati nello spazio gli Sputnik e Gagarin, e Asimov e Lem scrivevano i loro insuperabili romanzi distopici. Certo, lo stato di obiettiva depressione della politica europea in seguito alla 2° Guerra Mondiale e alla divisione di Yalta giustificavano il tono minimalistico dei discorsi europei, ma una cultura che annoverava personaggi come Heidegger e Russell, Croce e Heysenberg, Einstein e Anders, avrebbe dovuto prevedere quali sarebbero stati i veri temi con cui i vertici dell’Europa si sarebbero dovuti prima o poi a scontrare. E invece, ancor oggi, il “rischio esistenziale” non è ancora entrato nel cuore del dibattito  politico.

Nonostante quella scelta funzionalistica (e, quindi, implicitamente materialistica e minimalistica) dei Padri fondatori, le idee idonee a “narrare la Patria europea” esistevano già da tempo, seppur solo “in nuce”, disperse  attraverso la cultura alta, e si sarebbero potute ricostruire, nelle loro grandi linee, semplicemente “collegando i puntini” contenuti, come in un grande rebus, nelle opere dei grandi autori che citerò qui di seguito.Intanto, già all’ epoca dei Trattati, alcuni, come Simone Weil, Husserl, Jaspers, Heidegger, Anders, Guardini e  Przywara, ci avevano avvertiti che, come Lei ha scritto in modo pregnante, “fine dello spirito europeo non è lo sviluppo di scienza, tecnica, economia in se stesse, il mero incrementum scientiarum, bensì la sua connessione con il sistema delle libertà”. E infatti, fin dai primordi della cultura europea,  come per esempio  nelle opere  di Ippocrate e di Erodoto, era stato considerato come insito nell’identità europea (la “physis ton Europaion”) il fatto d’ identificarsi con la libertà un po’ selvaggia di Leonida, contro il progetto di conquista dell’Europa e di stabilizzazione universale incarnato dalla Persia di Serse (vedi il discorso di quest’ultimo riportato  nelle Storie e le iscrizioni funerarie di Behistun e Naqsh-e-Rustam, che anticipano i programmi di tanti imperi successivi, da quello romano, a quello sovietico,  a quello americano).

Nello stesso modo, era stato chiarito proprio allora (per esempio nell’opera di Federico Chabod) che, all’amore per la libertà politica, si collega, nell’ identità europea, la ricerca della verità, da ritrovarsi innanzitutto nell’autenticità con se stessi. Insomma, il motto dell’oracolo di Delfi: “Conosci te stesso”. Non per nulla, è l’oracolo stesso a profetizzare che ”la grande rocca gloriosa verrà devastata dai discendenti di
Perseo, oppure questo non avverrà, ma la terra dei Lacedemoni piangerà la
morte di un re della stirpe di Eracle.”
La morte per la libertà della patria quale esempio estremo di coerenza con se stessi e di dedizione alla libertà. Quello che tanto viene esaltato nel mito della Resistenza, ma che oggi nessuno sarebbe propenso a imitare.

1.Un sistema informatico mondiale: il vero nemico della libertà

Innanzitutto , oggi il  “mondo della libertà” è messo in pericolo quanto mai prima nella storia, non solo in Europa, ma nel mondo intero, non già dai diversi sistemi politici e sociali (i quali sono tutti ancora fondamentalmente “umanistici” e/o “culturali”: vedi Lévy Strauss e Luc Ferry), bensì proprio dalla “gabbia d’acciaio”, prima teologica, poi giuridica,  poi ideologica, e, infine,  tecnologica, che ci si siamo costruiti addosso con l’economia, l’industria e la tecnocrazia, che costituisce lo sbocco ultimo da sempre implicito in qualsivoglia progetto di “Fine della Storia”. Non vi è quindi alcuna contraddizione fra la tesi (oramai divenuta luogo comune) dell’egemonia della finanza internazionale e quella, da me qui ripresa, dell’egemonia della tecnica, l’una essendo la continuazione naturale dell’altra. La postulata condizione finale di assenza di conflitto (la “Pace Perpetua”) non può infatti essere raggiunta semplicemente con una qualche forma di eterodirezione “soft” della società da parte dei “poteri forti”, bensì solo eliminando la fonte prima dei conflitti, vale a dire l’Uomo. L’orrore per il “Diverso” è solo il primo passo verso la negazione della pluralità delle Persone, a favore del carattere seriale dei cyborg e degli androidi (la “vergogna prometeica”). Come avevano previsto Max Weber, Horkheimer e Adorno e Arnold Gehlen, l’apparato tecnico e amministrativo non è dunque uno strumento di libertà, bensì, vincolando l’uomo a prassi e a meccanismi consolidati, costituisce una fonte di omologazione e di entropia, che distrugge la libera creatività, e lo stesso slancio vitale, portando all’ eterna ripetizione di standard già dati (i pretesi “principi etici di progettazione” delle macchine intelligenti). C’è di più: con la “trasfusione senza spargimento di sangue” dei profili umani nell’Intelligenza Artificiale (De Landa) si  finisce per congelare, e quindi per eternare, i pregiudizi del XXI secolo, così come il sistema “OKO”, fortunatamente bloccato una notte dell’’83 dal maggiore Petrov, pretendeva di incarnare senza sbavature la dottrina nucleare del PCUS. La più importante di tutte le decisioni della storia dell’umanità, quella circa lo scatenamento della guerra totale, è stata così delegata da gran tempo a sistemi elettronici automatizzati, lo “Hair trigger alert”, al quale è stata affidata, da tutte le grandi potenze (quindi, sempre al di fuori dell’Europa), la reazione al primo attacco nucleare dell’avversario. In una simile situazione, a meno che non intervengano nuovi, stringenti, accordi internazionali (di cui solo l’ Europa può farsi propugnatrice), la distruzione reciproca mondiale per effetto di una “Cernobyl militare” è praticamente assicurata. La controprova del carattere centrale della militarizzazione della società e della sua cura per la segretezza e la manipolazione delle informazioni è costituita dall’accanimento con cui si sta perseguitando Julian Assange, reo di avere reso palese il carattere onnipervasivo del sistema di controllo del complesso informatico-militare. L’indifferenza dell’Europa (sempre così attenta ai diritti umani là dove essa non può farci nulla) verso la persecuzione di Assange che ha luogo nell’ Inghilterra della Brexit, che sta ancora eleggendo i suoi Europarlamentari, fa perdere di credibilità al richiamo all’amore per la libertà che si leva dall’establishment politico e culturale, nonché all’esaltazione acritica della tradizione costituzionalistica inglese. All’accordo “Five Eyes” spetta dunque una superiorità costituzionale rispetto all’Habeas Corpus?

Una volta che  decisioni come quelle militari siano state delegate alle macchine, tutto l’insieme dei comportamenti umani tenderà sempre più ad essere subordinato al fine di agevolare il “proprio” sistema di Hair trigger alert, per farlo prevalere sul sistema nemico: dal controllo di massa del comportamento della popolazione, all’infiltrazione delle reti di comunicazione amiche e nemiche, alla disinformazione delle opinioni pubbliche…Che altro s’ intende quando si afferma che ovviamente ogni decisione in vari campi dev’essere subordinata alle esigenze della “sicurezza”? Occorre innanzitutto evitare che possano nascere dei protagonisti autonomi, che esercitino in modo obiettivo, e perfino eroico come il maggiore Petrov, quel ruolo di critica del sistema che perfino l’Armata Rossa aveva affidato ad “analisti militari” indipendenti come quest’ultimo.

Come facciamo dunque a sentirci liberi se tutto il flusso delle opinioni pubbliche è condizionato a tavolino dai big data e dagli spin doctors dei sistemi informativi delle grandi potenze, se ciascuno di noi è monitorato giorno e notte dal sistema (attraverso i cellulari, i personal, i social…) per spiarne le più recondite movenze e per condizionarlo di conseguenza? In queste condizioni, perdono di senso i tradizionali strumenti della libertà di stampa, di parola, le stesse elezioni. Non per nulla, è il carattere stesso dei cittadini che è alla fine pervertito dal minimalismo, dal conformismo e dall’ autocensura, portando all’ inconcludenza di ogni discorso e alla supina accettazione del “destino della tecnica” e delle cosiddette “lezioni della Storia”.

La “perdita di democrazia”, di cui taluni incolpano il populismo, altri l’Unione Europea, altri ancora l’egemonia culturale della sinistra, trae in realtà ovunque la propria origine prima proprio dall’ inevitabile centralizzazione delle decisioni richiesta dalla delega al sistema informatico-militare della gestione  della cosiddetta “guerra senza limiti” già in corso fra i grandi blocchi continentali, che non lascia spazio, né a un reale pluralismo, né a un aperto dibattito.

Se anche la UE ha la tendenza a centralizzare progressivamente le decisioni più importanti come le politiche della ricerca, dell’informazione, finanziaria, estera e di difesa, è  perché essa  deve confrontarsi quotidianamente con USA, Cina e Russia; in queste ultime, il potere “politico” si centralizza e si personalizza a sua volta per contrastare, chi il deep State,  chi gli oligarchi,  chi la burocrazia…Quando Federica  Mogherini deve rispondere alle missive minatorie delle sottosegretarie americane alla Difesa, è sola; non può convocare il Parlamento Europeo (ormai a fine mandato) o i Parlamenti nazionali, come pretenderebbero i politici di tutti gli orientamenti. Si potrà porre freno a queste tendenze solo con la ricostituzione di una classe dirigente dotata di “virtus”, come quelle del mondo classico, indispensabile da sempre per una gestione collegiale della Res Publica, ispirata da un ethos e non da incentivi materiali, capace di superare indenni anche i periodi dello “stato d’eccezione” come questo delle Macchine Intelligenti.

Per questo la polemica contro la pretesa “dittatura di Bruxelles” è fuori luogo: se riferita a oggi, quando la UE, con meno dipendenti del Comune di Torino e con risorse inferiori all’ 1% del PIL europeo, non può fare praticamente nulla, ma anche  se riferita a un futuro in cui un’eventuale federazione europea, diretta da una nuova classe dirigente, per fare “più Europa”, dovrebbe, non già sovrapporsi agli Stati membri, bensì occuparsi di ciò che gli Stati membri non hanno mai fatto: una politica culturale; una difesa tecnologica; una programmazione operativa; la creazione di “campioni nazionali”; una politica monetaria proattiva.

2.La missione dell’Europa

All’Europa spetterebbe dunque, all’ interno di questa sfida mondiale, grazie al suo tradizionale attaccamento alla libertà, una  specifica “missione” prioritaria: quella d’ inventare (o reinventare) una cultura capace di tenere a freno le pretese totalitarie del sistema macchinico, opponendo ad esse la “prassi liberante” propria dell’Umano (Burgess, Kubrick, Barcellona). Tuttavia, l’attuale cultura occidentale, imperniata sul sansimonismo, sull’etica puritana, sui miti deterministici dell’”intelligenza collettiva” e del “lavoratore”, non è la più adatta a generare questo nuovo tipo di uomo, signore e padrone del mondo macchinico. L’Europa si trova perciò oggi in un vicolo cieco.

L’attuale debolezza politica, culturale e militare del Continente non può costituire una scusa, ma, anzi, deve costituire uno stimolo per l’impresa memorabile di “rovesciare il tavolo”. Per essere all’altezza della situazione, la cultura deve ritornare ai valori “assiali” della saggezza, della filosofia, dell’“humanitas”, che l’accomunano alle altre antiche civiltà, contrapposti al “banauson ergon” (quel “lavoro bruto” che oggi si identifica con le macchine intelligenti, mentre il lavoratore-macchina sta finalmente sparendo dall’orizzonte). Un compito ciclopico che, anche in questo caso, è destinato a travolgere tutte le prospettive di corto respiro che si fronteggiano nei dibattiti politici sul futuro della società europea. Nel fare ciò, la cultura, oltre a rileggere in una luce nuova le idee classiche di “eu zen” e di “kalokagathia” e quella cristiana di “askesis”, dovrebbe aprirsi a quelle confuciane, di “junzi” e di “ren”:come Lei scrive,  ”etiche nel senso più profondo e radicale del termine: non qualche massima morale, ma insieme di consuetudini, costumi, forme di vita, che sembrano quasi affondare in passati immemorabili, dentro ai quali abitiamo.”.

Solo educando il carattere umano come si faceva in Grecia, a Roma o nei monasteri asiatici e cristiani, non già tentando, come si sta facendo oggi, di trasferire nelle macchine principi astratti (come i codici etici) che neppure noi umani riusciamo ad applicare, si potrà evitare la presa del controllo delle macchine sugli uomini e l’estinzione dell’Umano. L’Unione Europea è già oggi, certamente, un elemento di resistenza contro questo progetto totalitario, e lo sta dimostrando con la legislazione sulla privacy, con le multe ai grandi operatori, con la lotta all’ erosione fiscale. Tuttavia, l’energia impiegata in questa lotta prometeica è troppo modesta rispetto all’unicità del compito, e, soprattutto, manca a monte un modello culturale forte che supporti l’intera azione dell’Unione: il “mito della Patria Europa”, di cui parla il Suo articolo. L’azione europea su questo tema appare episodica, marginale e decontestualizzata rispetto a tanti altri temi, certamente meno urgenti che non il “Rischio Esistenziale” (Hawking, Martin Rees).

Ma, soprattutto, l’Europa  di oggi è talmente arretrata, rispetto a USA, Cina, Russia, India, Israele e Giappone, per ciò che concerne la cultura e la tecnologia informatica (intelligenza artificiale, cyberguerra, internet, intelligence, ingegneria genetica….), da non disporre neppure dei necessari strumenti di sperimentazione (come per esempio i Big Data); figuriamoci se essa è in grado di costruire un’alternativa agli attuali approcci verso l’informatica, o addirittura di imporli agli altri. Lo sforzo che l’Europa deve compiere in questo campo nei prossimi pochissimi anni è prometeico, e richiederebbe un suo specifico “mythomoteur”. Ecco quello che, a mio avviso, costituisce, come Lei scrive, “forse un valido mito per la sua rifondazione”. Del resto, i miti sono inevitabilmente congiunti a un’etica eroica, indispensabile per questo sforzo disperato (Foscolo, Carlyle).

Questa sarebbe l’unica interpretazione concreta di quell’impegno totale per la formazione permanente alla rivoluzione digitale che tutti invocano, ma nessuno attua, non avendone compreso, né la vera posta, né i necessari contenuti e sacrifici. Non è infatti l’integrazione europea a mancare di fascino, bensì la classe dirigente in essa coinvolta. Se essa prendesse a cuore con un’etica eroica la rivoluzione digitale e quanto la circonda, si conquisterebbe quell’aura che aveva circondato, nella vita come nella fiction, i protagonisti delle prime imprese spaziali sovietiche e americane.

3.Il posto dell’Europa fra i grandi Subcontinenti

Intanto, è ben vero che i valori dell’Epoca Assiale (Jaspers) sono comuni a tutte le grandi civiltà del mondo, e questo è il significato vero da dare al concetto di “universalità” e di “diritti umani”. Come Lei scrive, “…il loro valore, nel senso più reale, materiale del termine, è ancora ben riconoscibile, in America come in Russia, in Cina come in India.” Tuttavia, la specificità dell’Europa è quella di rivendicare, all’interno della comune lotta contro il totalitarismo delle macchine intelligenti, una particolare attenzione per la tutela della libertà personale e comunitaria. Purtroppo, in un mondo in cui, tanto la cultura tecnologica, quanto il controllo del web, sono in mano alle Big Five dell’informatica, e al di fuori dello spazio di controllo europeo, non bastano, né le sterili invocazioni di sacri principi, né una sofisticatissima rete di norme UE. Solo se gli Europei si battessero con spirito prometeico per contestare quel controllo, quell’auspicabile “curvatura europea” dei valori universali uscirebbe finalmente dal mondo delle sterili declamazioni. Infatti, il Caso Schrems ha messo in evidenza che anche i migliori principi del diritto europeo restano lettera morta se i nostri dati sono immagazzinati fuori dell’Europa.

Se esistono, infatti, anche fuori dell’Europa- per esempio in America e in Cina- forze che si muovono di fatto a favore della tutela dell’Umano contro l’onnipotenza delle macchine, tuttavia solo l’Europa ha posto e pone ancor oggi la libertà al centro delle questioni sociali dell’informatica. In America, dove pure è nato il movimento dei “whistleblowers”, lo spirito di libertà è soffocato dall’etica puritana, dal “politicamente corretto” e dal senso ossessivo della missione dell’esportazione della democrazia. La Cina, come tutti i Paesi socialisti,  manifesta in modo paradossale e parossistico (per esempio attraverso il sistema del “credito sociale”) proprio quelle tendenze liberticide che in America sono occultate sotto lo smalto del mercato e della “rule of law” (il “totalitarismo invertito”), tendenze ch’ essa ha clonato e clona sempre più nel suo sforzo ciclopico di superare l’Occidente per recuperare la propria autonomia anche spirituale (Zhongxue wei ti, xixue wei yong 中学为体,西学为用; come direbbe René Girard: “rivalità mimetica”).La libertà è stata tradizionalmente concepita in Cina come una liberazione collettiva con un moto atemporale verso il Datong, la Grande Armonia, ma, per raggiungere quest’ultima, s’impongono nel frattempo le dure leggi dei Legisti. Certo, la Cina costituisce anche, oggi, in pratica, con il suo formidabile sistema informatico, il principale baluardo oggettivo contro l’imposizione in tempi brevi della Singularity (unione di umano e macchinico) da parte delle Big Five (Baidu contro Google, Alibaba contro Amazon, Hwawei contro tutti). Infatti, se la Singularity non riesce ad essere unica, non è tale: non realizza, cioè, la fusione in un’unica entità dell’intero sistema pensante mondiale; quindi, non può sopprimere totalmente l’Umano. Il sopraggiungere dell’informatica cinese sta dunque dando a tutto il mondo il tempo per riorganizzarsi contro la dittatura delle Big Five.

Tuttavia, solo un’Europa molto più forte sui piani politico, militare e tecnologico, ma soprattutto culturale, potrebbe interloquire autorevolmente con le Grandi Potenze anche e soprattutto su questi delicatissimi aspetti. Se e nella misura in cui riuscirà a imporre un dialogo e un accordo internazionale, essa avrà realizzato la sola forma possibile e necessaria oggi (e filosoficamente difendibile) della “potenza assimilatrice delle proprie idee”,  da Lei auspicata.

E certamente solo un’Europa vittoriosa sul fronte dell’interfaccia uomo-macchina potrebbe prendersi serenamente cura della propria identità – e, innanzitutto, della propria poliedricità-, che va ben al di là delle “diverse nazioni e le loro lingue”, bensì comprende anche il pluralismo delle  religioni, culture, ideologie, ceti sociali, regioni, città. Gli Europaioi di Ippocrate e di Erodoto sono, infatti, oltre che gli amanti della libertà, anche il popolo federale per eccellenza. La Grecia ne era il modello (con i suoi dialetti omerico, esiodeo, arcado-cipriota, ionico, attico, dorico, eolico); con le sue leghe (peloponnesiaca, delio-attica, ionica,  tebana, cretese, etolica…);con le sue poleis e i suoi koinà. Ma  gli autori classici esaltavano anche i popoli vicini, in particolare gli “Sciti” e i “Sarmati”, in quanto animati dallo stesso amore per la libertà.

 

  1. Come narrare la Patria Europea

Per narrare, come Lei propone, la Patria Europea, s’impone, come pensava già Freud, la liberazione, dalle retoriche dell’idea di Europa, dell’autentica identità europea. Identità che, come Lei scrive, non definisce “né radici, né confini, né dimore dove poter essere ‘in pace.” Quindi, l’esatto contrario della retorica dell’Europa come Fine della Storia e come strumento di “stabilizzazione”. Grazie all’ Europa, la Storia deve poter continuare, anche se alcune sue tendenze avrebbero voluto farla finire. Questo indispensabile mito dell’Europa baluardo della diversità, e quindi del conflitto, “costruito sull’ interrogazione, il dubbio, la ricerca” ci impone di liberare da censure e tabù vaste aree della nostra cultura. A mio avviso, occorre innanzitutto non vergognarci della cultura europea quale essa è, buona o cattiva ch’essa sia;  non volerla addomesticare e censurare per renderla accettabile ai poteri del momento, ai gusti dell’elettorato oppure, ancor peggio, a una lobby che pretenderebbe che il “mito della Patria Europea” sia identico a quello dell’America.

Nello stesso modo, proprio perché l’Europa è una Patria, non già una setta, essa non è di nessuno Stato in particolare (per esempio, non del duo franco-tedesco), non di una Chiesa (per esempio, quella cattolica), non di un’ideologia (per esempio, quella progressista), non di un partito (per esempio, l’attuale “centro” del Parlamento europeo). Essa è di tutti coloro che vi vivono: del mondo atlantico come di quello eurasiatico; della Mitteleuropa come dei Balcani, dei cristiani come degli ebrei e dei mussulmani; dei riformisti come dei conservatori, dei rivoluzionari come dei reazionari. Non possiamo dire a nessuno, che viva fra di noi: tu non sei Europeo. E, di converso, tutti gli Europei hanno il diritto di formulare un “loro” progetto di Europa, che esprima la loro particolare visione.

  1. I ”Cantieri d’ Europa” continuano.

Con l’iniziativa “Cantieri d’Europa”, la nostra piccola casa editrice, Alpina, ha incominciato a fare ciò per cui essa era stata fondata fin dal 2005: riunire in un solo luogo ideale, attraverso i propri libri e le proprie manifestazioni, le voci di tutti coloro che abbiano dei contributi concreti da dare alla costruzione dell’Europa, nei vari campi dello scibile (linguistica, filosofia, storia, dottrine politiche, economia, diritto, diplomazia, tecnologia…), ma vengano marginalizzati da una cultura “mainstream” che tollera solo la superficialità e la ripetizione inconcludente di luoghi comuni. Nello stesso tempo, con il nostro stand e con le nostre 8 manifestazioni, per metà al Lingotto, e per metà fuori (il “Salone Off”), abbiamo dimostrato che l’Europa si può e si deve narrare, attraverso le cose concrete, proprio oggi, quando la maggioranza ritiene che ciò sia diventato impossibile.

In particolare, i “Cantieri”, con i libri, nostri e altrui, ivi presentati, sono riusciti a realizzare nel Salone quel compito di sintesi che originariamente avrebbe dovuto essere assunto dalla grande editoria. Nell’ assenza d’iniziative maggiori, il nostro stand ha costituito il punto d’incontro dove sono confluiti il Movimento Europeo, le Istituzioni e tanti editori, italiani e stranieri, che hanno pubblicato libri sull’ Europa: Ullstein, ADD, il Mulino, Icaria Editorial, Rubbettino, Aracne, EGEA…

Dopo le elezioni europee, si apre, per la prossima legislatura, un compito appassionante: quello di recuperare l’Europa alla battaglia per la libertà tecnologica, portandola finalmente sull’unico piano veramente attuale: quello della sovranità digitale.

Last but not least: per riuscire a narrare l’Europa, bisogna amarla, per come essa è, anche con i suoi peccati, la sua decadenza e la sua vecchiaia.

Esistiamo proprio per questo, e saremmo lieti di averLa con noi su questi temi.

Per Alpina Srl,

 

Riccardo Lala