Mi piace utilizzare qui l’espressione usata da Carlos de Martin su “Affari e Finanza” per descrivere la situazione dell’economia e della società europee dinanzi alla guerra tecnologico-commerciale e culturale in corso fra l’America e il resto del mondo. Essa è infatti particolarmente calzante per descrivere la situazione odierna dell’ Europa: spirituale, culturale, ideologica, sociale, tecnologica, politica, militare, economica…L’Europa, troppo piccola per fare alcunché, è sempre più vittima delle ambizioni altrui.
Questo è vero in tutti campi, ma soprattutto nella “politica della conoscenza” (cultura, informatica, ideologia, comunicazioni, religione, educazione, costume), che, nell’ attuale società, riveste un ruolo centrale.
E’ difficile nasconderlo quando le nostre elezioni (per esempio il referendum sulla Brexit), sono manipolate da Cambridge Analytica, quando non si riesce a tassare seriamente le big Five, quando praticamente tutte le grandi imprese europee hanno una maggioranza azionaria (o almeno una grande minoranza) di capitali extraeuropei (in Italia, più del 50% delle società quotate), quando invece non mi risulta che vi siano molte imprese americane, cinesi, russe o indiane controllate dall’ Europa.
1.La Certosa di Trisulti
In effetti, noi siamo dipendenti dall’ esterno perfino dal punto di vista culturale e religioso. Che la cultura costituisca un formidabile strumento di controllo politico è costituito dal plateale abbandono, da parte degli Stati Uniti, dell’UNESCO, abbandono motivato dalle scelte di politica culturale di quest’organizzazione, che rappresenta tutti i Paesi del mondo, e non può evidentemente riflettere solo i punti di vista degli stati Uniti, che rappresentano il 5% della popolazione mondiale.
Lo siamo, certamente, da moltissimo tempo, ma, fino a poco fa, ciò avveniva in modo impercettibile, con l’industria cinematografica le università americane la cultura pop, Internet. Oggi, invece, sono divenute praticamente la regola le invasioni di campo dirette, con la creazione in Europa di vere e proprie istituzioni culturali deliberatamente finanziate dall’ America per formare classi dirigenti europee americanizzate e quindi in conflitto con l’ambiente europeo circostante. Basti pensare alle precedenti iniziative in Est Europa di Soros, portatore di un liberalismo di sinistra d’impronta americana, e di Gülen, promotore in Turchia di un islamismo filo-occidentale partendo dalla sua casa-fortezza nel New Jersey.
Oggi, abbiamo la creazione vicino a Roma dell’istituto cattolico “Humanae Dignitatis”, creato con fondi americani per trasfondere alle giovani generazioni italiane “il pensiero di Steve Bannon”, contrastando così Soros, e, anche se non si dice, il Papa sudamericano.
Tutti costoro, per quanto fra di loro ostili, hanno in comune il fatto di rappresentare dei punti di vista ideologici particolari sul mondo partendo sempre dalla centralità dell’America. Ciò che è paradossale è che ciascuna di queste iniziative ha incontrato una resistenza da parte del territorio dove si sono istallate, anche se di segno molto diverso. Se Soros e Gülen sono nel mirino, rispettivamente, di Orban e di Erdogan, Bannon è nel mirino della sinistra italiana.
In effetti, nessuno può obiettare al fatto che in Europa si formino dei movimenti culturali, anche con legami all’ esterno, che interpretino in modo specifico e particolaristico certe tradizioni culturali: un cattolicesimo con caratteristiche europee, una socialdemocrazia con caratteristiche europee, un Islam con caratteristiche europee. Tuttavia, le tre iniziative di cui stiamo parlando si potrebbero definire, l’una, come un “cattolicesimo maccartista”, la seconda come un messianesimo secolarizzato, e, la terza un Islam politicizzato come il protestantismo americano. Quindi, l’imposizione, con la forza dei soldi, di punti di vista estranei alla nostra cultura, e il portare in Europa le lotte politiche americane.
Io capisco per altro tutti costoro, perché in Europa si è creato un vuoto culturale, e tutti i vuoti tendono ad essere riempiti. In Europa, non esiste infatti un’Accademia dell’Identità Europea, volta a formare i futuri quadri dell’Europa secondo condizioni specifiche al nostro Continente (storia, lingue, filosofia, geografia, strategie, diritto, economia…), sulle orme di Erodoto, di Socrate, di Dante, di Matteo Ricci, di Grozio, di Clausewitz, di Kalecki…
Coloro che protestano contro le iniziative di Soros, di Gülen o di Bannon dovrebbero invece organizzare loro stessi una diversa Accademia Europea. Quest’ultima non è oggi rappresentata, né dall’ Istituto Universitario di Studi Europei di Firenze, né dal Collegio di Bruges, nati a suo tempo con questa missione, ma che sono assolutamente muti e inattivi dinanzi alle grandi battaglie del nostro tempo per il futuro dell’Europa: pluralismo culturale; identità; missione storica; riforma delle istituzioni, crisi economica…, sulla falsariga dei “cantieri” che Alpina e l’Associazione Culturale Diàlexis stanno organizzando (“Baustellen Europas”).
Le nostre battaglie mirano anche a creare i presupposti per la nascita di una siffatta Accademia, premessa necessaria per la rinascita di una cultura europea e, di conseguenza, di un movimento politico veramente europeo. Una cultura dove le diverse tradizioni culturali dell’Europa possano essere rappresentate re confrontarsi
liberamente, senza pre-imposizioni ideologiche o teologiche.
2.Più del 50% delle azioni quotate in borsa in mani straniere
L’establishment continua a dire che non conta la proprietà delle imprese, bensì che queste investano nel Paese. Però, bisogna vedere che cosa tengono nel Paese: la cassaforte, la residenza degli azionisti, la sede fiscale, la holding finanziaria, i server, la residenza del management, i centri di ricerca, la direzione generale, gli uffici, le fabbriche o delle sedi commerciali. E’ ben difficile che la Microsoft, la Apple, Google o Facebook, invece di tenere i quartieri generali e i centri di ricerca nella Silicon Valley, li posizionino a Dublino o a Sophia Antipolis, come pure che la Huawei, la ZTE o Alibaba decidano di stabilire le loro centrali a Belfast, a Milano o a Monaco. Al contrario, la Fiat, dopo la fusione con la Chrysler, ha trasferito la sua direzione generale a Auburn Hill. E, tutto ciò, nonostante le varie agevolazioni fiscali che molti Paesi europei danno agl’investimenti esteri. Infatti, le cosa più importante è essere vicini al potere, sotto le cui ali si possono risolvere anche le vicende più disperate.
Questo ancor più nel caso delle imprese informatiche, che hanno in America (o in Cina) i loro uffici ideativi e i server dove sono immagazzinati i nostri dati, e in Europa hanno solo i commercialisti e i “call center”. Tant’è vero che America e Cina stanno penalizzando molto, ciascuna, le multinazionali con sede nell’ altro Paese, sostenendo (e giustamente), che queste svolgono un’opera di spionaggio a favore del proprio Paese d’origine. Invece, in Europa tutti fanno ciò che vogliono.
In queste condizioni, la ricerca spasmodica, da parte delle Autorità europee, di “investimenti esteri” si può leggere addirittura come una forma di tradimento verso l’Europa, poiché la maggior parte degli investimenti rivela un carattere quasi coloniale: nella maggior parte dei casi, imprese che erano a loro volta delle multinazionali vengono declassate al ruolo di filiali locali e destinate a un progressivo svuotamento.
I problemi spesso evocati: la perdita di posti di lavoro, le delocalizzazioni, il furto di tecnologia, non sono che dei sintomi, delle conseguenze, dello spostamento del potere in corso a partire dalla 1° Guerra Mondiale.
Vediamo la situazione nei diversi settori dell’economia della conoscenza, dell’informatica e della difesa.
3.La lotta per il controllo digitale mondiale
Il tanto vituperato Trump si rende, in realtà, conto della realtà dell’economia mondiale realtà molto più dei politici europei e dei generali americani che si preoccupano tanto di qualche migliaio di soldati in Medio Oriente, mentre invece la vera posta in gioco in tutto il mondo è, oramai, il controllo del sistema tecnologico e, in particolare, digitale, mondiale. Come ha dichiarato in una a “Formiche” Ermano Dottori, docente di Studi strategici alla Luiss Guido Carli e consigliere scientifico di Limes, Trump“Sta solo passando ad una modalità di controllo ’ in remoto’ degli affari mondiali. Creare un comando indipendente per le forze ‘spaziali’ questo significa. Inoltre, visto che la condivisione consensuale dei costi e dei ruoli nel mantenimento della sicurezza internazionale non funziona – il famoso livello delle spese militari al 2 per cento del Pil in area Nato è più lontano che mai – Trump la impone per default. E in questo opera esattamente come il suo predecessore Barack Obama. In effetti, si tratta di due presidenze strettamente connesse. Quella di Trump è il secondo tempo di un cambio di paradigma che è iniziato sotto il predecessore. “
Ci stiamo finalmente rendendo conto di questi cambiamenti di paradigma solo grazie all’ antipatia viscerale che l’establishment nutre per Trump, antipatia che sta perfino realizzando (fortunatamente) il miracolo di far cadere, a uno a uno, i miti che fino a ora avevano occultato il reale stato della cultura e della politica dell’ Europa. Se l’esito catastrofico delle politiche “umanitarie” occidentali ha riportato a Roma gli ufficiali libici (che il premier Conte addirittura bacia e abbraccia come faceva Brezhnev con i suoi vassalli), dopo il breve intervallo in cui si era inneggiato al linciaggio del, già alleato, colonnello Gheddhafi; se, dopo parecchi decenni di immotivate ed autolesionistiche privatizzazioni, si ricomincia a pretendere che i servizi strategici facciano nuovamente capo allo Stato; se ci si accorge perfino che Trump non fa che ripresentare in modo plateale quell’egemonia che il “Deep State” persegue da sempre, non avremmo però sperato, almeno per ora, che, anche se per vie traverse, Macron arrivasse addirittura a rivalutare la teoria gollista della “force de frappe à tous les azimuts” (la difesa in tutte le direzioni), né a tassare le Big Five anche in assenza di un accordo a livello europeo (venendo subito imitato dal “Governo gialloverde” italiano).
Abbiamo invece sentito il presidente francese invocare addirittura un esercito europeo “anche contro gli Stati Uniti” (ma guarda caso, dopo pochi giorni si sono scatenati i “giubbotti gialli”). Quanto alla “web tax”, essa è rispuntata fuori, dopo la vergognosa marcia indietro della UE, grazie alla necessità, per Italia e Francia, di fare quadrare i conti dello Stato per mantenerli all’ interno dei “Parametri di Maastricht”. Con il che abbiamo avuto, “a contrario”, la prova che l’ininterrotta crisi economica dell’Europa deriva soltanto dal trasferimento occulto di risorse negli Stati Uniti, tramite i costi della NATO, le royalties, l’erosione fiscale e il trasferimento di dati. Basterebbe una politica più assertiva dell’Europa, che puntasse, non soltanto a riequilibrare parzialmente queste partite, bensì anche a recuperare le enormi risorse già trasferite negli ultimi 70 anni, e i famosi deficit di bilancio scomparirebbero come per incanto.
Insospettisce certamente, a questo proposito, il fatto che, non appena Macron ha lanciato questa sua nuova tendenza neo-gollista, siano spuntati i “gilets jaunes”. Come pure che, non appena l’Unione Europea ha approntato il suo “Special purpose vehicle” per aggirare le sanzioni all’ Iran, sia spuntato l’arresto di Meng Wanzhou, la figlia dell’azionista di riferimento della Huawei, accusata di aver fatto esattamente la stessa cosa. Come per ricordare a Heiko Maas, a Federica Mogherini, e perfino a Xi Jinping, che ancor oggi, in tutto il mondo, comandano sempre gli Stati Uniti, che hanno ancora le leve per rovinare la vita a qualunque loro oppositore, sia egli un blogger o un manager, un Australiano o una Cinese.
La stampa russa è fermamente convinta che la rivolta dei “gilets jaunes” altro non sia che l’ennesima “rivoluzione colorata” finanziata da Washington per destabilizzare un politico straniero non abbastanza succube. Questo giustificherebbe la voce, sparsa dai servizi segreti francesi, che la rivolta altro non sia che un tentativo di colpo di stato, così come il Maggio Francese era stato un tentativo, in parte riuscito, di abbattere De Gaulle, colpevole di aver creato la “force de Frappe” (1966, viaggio in Russia; agosto 1968: test nucleare programmato all’atollo di Muroroa).
Le voci su un intervento americano dietro i “gilets jaunes” sono avvalorate dai tweet di alcuni fedelissimi di Trump, che hanno asserito che, tanto nelle manifestazioni dei “gilets Jaunes”, quanto in quelle di Londra per la “Hard Brexit”, ci fosse gente che gridava “Vogliamo Trump”. D’altronde, Trump, Bannon e i loro simpatizzanti in Russia sostengono apertamente i “gilets jaunes”.
Comunque, oggi, l’Europa è più distante che mai dalla possibilità di dotarsi di una sua credibile forza nucleare, la quale presuppone la capacità di tenere sotto controllo in modo integrato l’intero “Sistema Paese”, così come fecero, durante la corsa alla bomba atomica, i Paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale, e come pretendono le più recenti dottrine militari degli USA e della Cina. La guerra nucleare essendo basata sulla sorpresa, uno Stato nucleare è per forza di cose uno Stato altamente militarizzato, in cui ogni attività viene controllata in modo ferreo, in un permanente “Stato di Eccezione”, per contrastare ogni minaccia. E’ per questo che, negli USA, ci sono ben 16 diverse agenzie d’intelligence in concorrenza fra di loro, e una parte non indifferente della popolazione americana è, direttamente o indirettamente, a libro paga del Department of Defence. E’ per questo che, fin dalla 1° Guerra Mondiale, è in vigore una legislazione postale che autorizza un’ampia violazione della corrispondenza da parte dei servizi segreti-una legislazione che svuota completamente di importanza la tanto lodata legislazione europea sulla privacy- .
L’Europa di oggi manca di tutto ciò che serve per poter gestire efficacemente in sicurezza un conflitto totale. Di un’ideologia olistica, come quelle americana, incentrata sulla missione salvifica della “casa sulla collina”, capace di mobilitare il popolo intorno verso obiettivi di vittoria; di una cultura nazionale ben radicata come quella iraniana; di un’oligarchia nazionale coesa come quella russa; d’ industrie nazionali di alta tecnologia come quelle indiane; di un’intelligence operante sul piano globale come quella israeliana; di un’industria informatica indipendente come quella cinese…
E, infine, oggi è dubbio proprio se la Francia sarebbe disponibile a mettere la sua “force de frappe” al servizio dell’Europa, come si era discusso negli Anni 50, prima della creazione della stessa.
Paradossalmente, l’Italia non sarebbe poi neppure mal piazzata in questa corsa, perché Leonardo (ex Alenia) produce navicelle spaziali riusabili che sono agilmente convertibili in missili ipersonici.
5.La Web tax in Francia (e in Italia)?
Se la bomba atomica europea continua a latitare, qualcosa sembra muoversi (ma a livello nazionale, italiano e francese) sul fronte della tassazione dell’e-commerce.
Quanto all’ Italia, la Web tax è oramai già compresa nella Legge Finanziaria appena approvata.
Quanto alla Francia, Emmanuel Macron ha dichiarato: “Le grandi società che producono profitti [in Francia] devono pagare le tasse in Francia. Semplicemente è giusto così. Di fatto
, le grandi aziende digitali “pagano in media il 9% di tasse in Europa, mentre le società tradizionali pagano il 23%”, come denuncia regolarmente Pierre Moscovici, il commissario europeo che sta gestendo la questione a Bruxelles.
Prendiamo ad esempio il meccanismo di Google, basato su una sede in Irlanda.I redditi che affluiscono a “Ireland Limited” sono assoggettati alla Corporate Income Tax
irlandese del 12,5%, ma la base imponibile viene abbattuta grazie alla notevole deduzione
della royalty che la società corrisponde a Google BV (olandese) per l’utilizzo della tecnologia.
Google BV, a sua volta, paga una royalty di quasi uguale importo a Ireland Holdings, che
per il sistema irlandese è residente alle Bermuda, dove non esiste imposta sul reddito delle società.
Se il pagamento della royalty avvenisse in maniera diretta da Ireland Limited a Ireland Holdings, sarebbe assoggettato a ritenuta alla fonte in Irlanda, ma i Paesi Bassi non applicano alcuna imposta sulle royalties in uscita, ed effettuano soltanto un piccolo prelievo sulla differenza tra la royalty che Google BV riceve e quella che paga a Ireland Holdings.
6.Una nuova cultura economica europea
Nel totale abbrutimento culturale che caratterizza la nostra società, è ovvio che anche la cultura economica sia oramai atrofizzata. I nostri professori, educati alla scuola liberista o a quella marxista, alla scuola neoliberale o a quella keynesiana, sono oramai totalmente avulsi dalla realtà.
Negli anni ’60, teorizzavano il salario come variabile indipendente; negli anni ’70, le “nuove classi emergenti”; negli anni ’80, le liberalizzazioni; negli anni 90, le privatizzazioni; nel primo decennio del XXI° secolo, l’equilibrio di bilancio, e, ora, il “deficit spending”. Ma, nonostante tutte le loro peregrinazioni ideologiche, non sono riusciti a prevedere, né lo choc petrolifero, né la crescita della Cina, né la crisi permanente dell’ Europa, né il ruolo dell’ informatica… E si capisce anche perché. Il loro ruolo è stato quello d’impedire agli Europei di rendersi conto del progetto occulto per ridimensionare eternamente l’ Europa, a favore dell’ America, dell’ URSS, dei Paesi afro-asiatici, e, ora, anche della Cina. Così, si trovava sempre un capro espiatorio diverso dal colpevole effettivo: le assurdità del consumismo venivano attribuite alle colpe dei capitalisti; la perdita di competitività, alla Guerra del Kippur; il decadimento culturale a vizi reconditi del carattere italiano; la crisi finanziaria a delle anomalie del mercato finanziario… Ovviamente, nessuno ha mai parlato del contingentamento dell’Europa da parte dell’ America, di cui discorreva già Trockij; della dipendenza delle nostre aziende…
Comunque, la verità si sta vendicando. Questa società neo-coloniale e amorfa non è capace di difendere gli Europei, di produrre un progetto di avvenire, di stimolare la nascita di nostre multinazionali (i cosiddetti fantomatici “campioni europei”, in particolare nel settore informatico…).
Sta ora a noi costruire una cultura economica europea di carattere olistico, che tenga conto non solo dei fatti materiali, ma anche di quelli cognitivi ed etici e consideri realisticamente il peso delle questioni di potere e militari, ecc..