Disponibile da gennaio 2018
 
 
 

2019 : “LA PICCOLA EUROPA E’ DIVENTATA UNA PREDA”

Mi piace utilizzare qui l’espressione usata da Carlos de Martin su “Affari e Finanza” per descrivere la situazione dell’economia e della società europee dinanzi alla guerra tecnologico-commerciale  e culturale in corso fra l’America e il resto del mondo. Essa è infatti particolarmente calzante per descrivere la situazione odierna dell’ Europa: spirituale, culturale, ideologica, sociale, tecnologica, politica, militare, economica…L’Europa, troppo piccola per fare alcunché, è sempre più vittima delle ambizioni altrui.

Questo è vero in tutti campi, ma soprattutto nella “politica della conoscenza” (cultura, informatica, ideologia, comunicazioni, religione, educazione, costume), che, nell’ attuale società, riveste un ruolo centrale.

E’ difficile nasconderlo quando le nostre elezioni (per esempio il referendum sulla Brexit), sono manipolate da Cambridge Analytica, quando non si riesce a tassare seriamente le big Five, quando praticamente tutte le grandi imprese europee hanno una maggioranza azionaria (o almeno una grande minoranza) di capitali extraeuropei (in Italia, più del 50% delle società quotate), quando invece non mi risulta che vi siano molte imprese americane, cinesi, russe o indiane controllate dall’ Europa.

1.La Certosa di Trisulti

In effetti, noi siamo dipendenti dall’ esterno perfino dal punto di vista culturale e religioso. Che la cultura costituisca un formidabile strumento di controllo politico è costituito dal plateale abbandono, da parte degli Stati Uniti, dell’UNESCO, abbandono motivato dalle scelte di politica culturale di quest’organizzazione, che rappresenta tutti i Paesi del mondo, e non può evidentemente riflettere solo i punti di vista degli stati Uniti, che rappresentano il 5% della popolazione mondiale.

Lo siamo, certamente, da moltissimo tempo, ma, fino a poco fa, ciò avveniva in modo impercettibile, con l’industria cinematografica le università americane la cultura pop, Internet. Oggi, invece, sono divenute praticamente la regola le invasioni di campo dirette, con la creazione in Europa di vere e proprie istituzioni culturali deliberatamente finanziate dall’ America per formare classi dirigenti europee americanizzate e quindi in conflitto con l’ambiente europeo circostante. Basti pensare alle precedenti iniziative in Est Europa di Soros, portatore di un liberalismo di sinistra d’impronta americana, e di Gülen, promotore in Turchia di un islamismo filo-occidentale partendo dalla sua casa-fortezza nel New Jersey.

Oggi, abbiamo la creazione vicino a Roma dell’istituto cattolico “Humanae Dignitatis”, creato con fondi americani per trasfondere alle giovani generazioni italiane “il pensiero di Steve Bannon”, contrastando così Soros, e, anche se non si dice, il Papa sudamericano.

Tutti costoro, per quanto fra di loro ostili, hanno in comune il fatto di rappresentare dei punti di vista ideologici particolari sul mondo partendo sempre dalla centralità dell’America. Ciò che è paradossale è che ciascuna di queste iniziative ha incontrato una resistenza da parte del territorio dove si sono istallate, anche se di segno molto diverso. Se Soros e Gülen sono nel mirino, rispettivamente, di Orban e di Erdogan, Bannon è nel mirino della sinistra italiana.

In effetti, nessuno può obiettare al fatto che in Europa si formino dei movimenti culturali, anche con legami all’ esterno, che interpretino in modo specifico e particolaristico certe tradizioni culturali: un cattolicesimo con caratteristiche europee, una socialdemocrazia con caratteristiche europee, un Islam con caratteristiche europee. Tuttavia, le tre iniziative di cui stiamo parlando si potrebbero definire, l’una, come un “cattolicesimo maccartista”, la seconda come un messianesimo secolarizzato, e, la terza un Islam politicizzato come il protestantismo americano. Quindi, l’imposizione, con la forza dei soldi, di punti di vista estranei alla nostra cultura, e il portare in Europa le lotte politiche americane.

Io capisco per altro tutti costoro, perché in Europa si è creato un vuoto culturale, e tutti i vuoti tendono ad essere riempiti.  In Europa, non esiste infatti un’Accademia dell’Identità Europea, volta a formare i futuri quadri dell’Europa secondo condizioni specifiche al nostro Continente (storia, lingue, filosofia, geografia, strategie, diritto, economia…), sulle orme di Erodoto, di Socrate, di Dante, di Matteo Ricci, di Grozio, di Clausewitz, di Kalecki…

Coloro che protestano contro le iniziative di Soros, di Gülen o di Bannon dovrebbero invece organizzare loro stessi una diversa Accademia Europea. Quest’ultima non  è oggi rappresentata, né dall’ Istituto Universitario di Studi Europei di Firenze, né dal Collegio di Bruges, nati a suo tempo con questa missione, ma che sono assolutamente muti e inattivi dinanzi alle grandi battaglie del nostro tempo per il futuro dell’Europa: pluralismo culturale; identità; missione storica; riforma delle istituzioni, crisi economica…, sulla falsariga dei “cantieri” che Alpina e l’Associazione Culturale Diàlexis stanno organizzando (“Baustellen Europas”).

Le nostre battaglie mirano anche a creare i presupposti per la nascita di una siffatta Accademia, premessa necessaria per la rinascita di una cultura europea e, di conseguenza, di un movimento politico veramente europeo. Una cultura dove le diverse tradizioni culturali dell’Europa possano essere rappresentate re confrontarsi

liberamente, senza pre-imposizioni ideologiche o teologiche.

2.Più del 50% delle azioni quotate in borsa in mani straniere

L’establishment continua a dire che non conta la proprietà delle imprese, bensì che queste investano nel Paese. Però, bisogna vedere che cosa tengono nel Paese: la cassaforte, la residenza degli azionisti, la sede fiscale, la holding finanziaria, i server, la residenza del management, i centri di ricerca, la direzione generale, gli uffici, le fabbriche o delle sedi commerciali. E’ ben difficile che la Microsoft, la Apple, Google o Facebook, invece di tenere i quartieri generali e i centri di ricerca nella Silicon Valley, li posizionino a Dublino o a Sophia Antipolis, come pure che la Huawei, la ZTE o Alibaba decidano di stabilire le loro centrali a Belfast, a Milano o a Monaco. Al contrario, la Fiat, dopo la fusione con la Chrysler, ha trasferito la sua direzione generale a Auburn Hill. E, tutto ciò, nonostante le varie agevolazioni fiscali che molti Paesi europei danno agl’investimenti esteri. Infatti, le cosa più importante è essere vicini al potere, sotto le cui ali si possono risolvere anche le vicende più disperate.

Questo ancor più nel caso delle imprese informatiche, che hanno in America (o in Cina) i loro uffici ideativi e i server dove sono immagazzinati i nostri dati, e in Europa hanno solo i commercialisti e i “call center”. Tant’è vero che America e Cina stanno penalizzando molto, ciascuna, le multinazionali con sede nell’ altro Paese, sostenendo (e giustamente), che queste svolgono un’opera di spionaggio a favore del proprio Paese d’origine. Invece, in Europa tutti fanno ciò che vogliono.

In queste condizioni, la ricerca spasmodica, da parte delle Autorità europee, di “investimenti esteri” si può leggere addirittura come una forma di tradimento verso l’Europa, poiché la maggior parte degli investimenti  rivela un carattere quasi coloniale: nella maggior parte dei casi, imprese che erano a loro volta delle multinazionali vengono declassate al ruolo di filiali locali e destinate a un progressivo svuotamento.

I problemi spesso evocati: la perdita di posti di lavoro, le delocalizzazioni, il furto di tecnologia, non sono che dei sintomi, delle conseguenze, dello spostamento del potere in corso a partire dalla 1° Guerra Mondiale.

Vediamo la situazione nei diversi settori dell’economia della conoscenza, dell’informatica e della difesa.

3.La lotta per il controllo digitale mondiale

Il tanto vituperato Trump si rende, in realtà, conto della realtà dell’economia mondiale realtà molto più dei politici europei e dei generali americani che si preoccupano tanto di qualche migliaio di soldati in Medio Oriente, mentre invece la vera posta in gioco in tutto il mondo è, oramai,  il controllo del sistema tecnologico e, in particolare, digitale, mondiale. Come ha dichiarato in una  a “Formiche” Ermano Dottori, docente di Studi strategici alla Luiss Guido Carli e consigliere scientifico di Limes, Trump“Sta solo passando ad una modalità di controllo ’ in remoto’ degli affari mondiali. Creare un comando indipendente per le forze ‘spaziali’ questo significa. Inoltre, visto che la condivisione consensuale dei costi e dei ruoli nel mantenimento della sicurezza internazionale non funziona – il famoso livello delle spese militari al 2 per cento del Pil in area Nato è più lontano che mai – Trump la impone per default. E in questo opera esattamente come il suo predecessore Barack Obama. In effetti, si tratta di due presidenze strettamente connesse. Quella di Trump è il secondo tempo di un cambio di paradigma che è iniziato sotto il predecessore. “

Ci stiamo finalmente rendendo conto di questi cambiamenti di paradigma solo grazie all’ antipatia viscerale che l’establishment nutre per Trump, antipatia che sta perfino realizzando (fortunatamente) il miracolo di far cadere, a uno a uno, i miti che fino a ora avevano occultato il reale stato della cultura e della politica dell’ Europa. Se l’esito catastrofico delle politiche “umanitarie” occidentali ha riportato a Roma gli ufficiali libici (che il premier Conte addirittura bacia e abbraccia come faceva Brezhnev con i suoi vassalli), dopo il breve intervallo in cui si era inneggiato al linciaggio del, già alleato, colonnello Gheddhafi; se, dopo parecchi decenni di immotivate ed autolesionistiche privatizzazioni, si ricomincia a pretendere che i servizi strategici facciano nuovamente capo allo Stato; se  ci si accorge perfino che Trump  non fa che ripresentare in modo plateale quell’egemonia che il “Deep State” persegue da sempre, non avremmo però sperato, almeno per ora, che, anche se per vie traverse,  Macron arrivasse addirittura a rivalutare  la teoria gollista della “force de frappe à tous les azimuts” (la difesa in tutte le direzioni), né a tassare le Big Five anche in assenza di un accordo a livello europeo (venendo subito imitato dal “Governo gialloverde” italiano).

Abbiamo invece sentito il presidente francese invocare addirittura un esercito europeo “anche contro gli Stati Uniti” (ma guarda caso, dopo pochi giorni si sono scatenati i “giubbotti gialli”). Quanto alla “web tax”, essa è rispuntata fuori, dopo la vergognosa marcia indietro della UE, grazie alla necessità, per Italia e Francia, di fare quadrare i conti dello Stato per mantenerli all’ interno dei “Parametri di Maastricht”. Con il che abbiamo avuto, “a contrario”, la prova che l’ininterrotta crisi economica dell’Europa deriva soltanto dal trasferimento occulto di risorse negli Stati Uniti, tramite i costi della NATO, le royalties, l’erosione fiscale e il trasferimento di dati. Basterebbe una politica più assertiva dell’Europa, che puntasse, non soltanto a riequilibrare parzialmente queste partite, bensì anche a recuperare le enormi risorse già trasferite negli ultimi 70 anni, e i famosi deficit di bilancio scomparirebbero come per incanto.

4.Macron come De Gaulle?

Insospettisce certamente, a questo proposito, il fatto che, non appena Macron ha lanciato questa sua nuova tendenza neo-gollista, siano spuntati i “gilets jaunes”. Come pure che, non appena l’Unione Europea ha approntato il suo “Special purpose vehicle” per aggirare le sanzioni all’ Iran, sia spuntato l’arresto di Meng Wanzhou, la figlia dell’azionista di riferimento della Huawei, accusata di aver fatto esattamente la stessa cosa. Come per ricordare a Heiko Maas, a Federica Mogherini, e perfino a Xi Jinping,  che ancor oggi, in tutto il mondo, comandano  sempre gli Stati Uniti, che hanno ancora le leve per rovinare la vita a qualunque loro oppositore, sia egli un blogger o un manager, un Australiano o una Cinese.

La stampa russa è fermamente convinta che la rivolta dei “gilets jaunes” altro non sia che l’ennesima “rivoluzione colorata” finanziata da Washington per destabilizzare un politico straniero non abbastanza succube. Questo giustificherebbe la voce, sparsa dai servizi segreti francesi, che la rivolta altro non sia che un tentativo di colpo di stato, così come il Maggio Francese era stato un tentativo, in parte riuscito, di abbattere De Gaulle, colpevole di aver creato la “force de Frappe” (1966, viaggio in Russia; agosto 1968: test nucleare programmato all’atollo di Muroroa).

Le voci su un intervento americano dietro i “gilets jaunes” sono avvalorate dai tweet di alcuni fedelissimi di Trump, che hanno asserito che, tanto nelle manifestazioni dei “gilets Jaunes”, quanto in quelle di Londra per la “Hard Brexit”, ci fosse gente che gridava “Vogliamo Trump”. D’altronde, Trump, Bannon e i loro simpatizzanti in Russia sostengono apertamente i “gilets jaunes”.

Comunque, oggi, l’Europa è più distante che mai dalla possibilità di dotarsi di una sua credibile forza nucleare, la quale presuppone la capacità di tenere sotto controllo in modo integrato l’intero “Sistema Paese”, così come fecero, durante la corsa alla bomba atomica, i Paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale, e come pretendono le più recenti dottrine militari degli USA e della Cina. La guerra nucleare essendo basata sulla sorpresa, uno Stato nucleare è per forza di cose uno Stato altamente militarizzato, in cui ogni attività viene controllata in modo ferreo, in un permanente “Stato di Eccezione”, per contrastare ogni minaccia. E’ per questo che, negli USA, ci sono ben 16 diverse agenzie d’intelligence in concorrenza fra di loro, e una parte non indifferente della popolazione americana è, direttamente o indirettamente, a libro paga del Department of Defence. E’ per questo che, fin dalla 1° Guerra Mondiale, è in vigore una legislazione postale che autorizza un’ampia violazione della corrispondenza da parte dei servizi segreti-una legislazione che svuota completamente di importanza la tanto lodata legislazione europea sulla privacy- .

L’Europa di oggi manca di tutto ciò che serve per poter gestire efficacemente in sicurezza un conflitto totale. Di un’ideologia olistica, come quelle americana, incentrata sulla missione salvifica della “casa sulla collina”, capace di mobilitare il popolo intorno verso obiettivi di vittoria; di una cultura nazionale ben radicata come quella iraniana; di un’oligarchia  nazionale coesa come quella russa; d’ industrie nazionali di alta tecnologia come quelle indiane; di un’intelligence operante sul piano globale come quella israeliana; di un’industria informatica indipendente come quella cinese…

E, infine, oggi è dubbio proprio se la Francia sarebbe disponibile a mettere la sua “force de frappe” al servizio dell’Europa, come si era discusso negli Anni 50, prima della creazione della stessa.

Paradossalmente, l’Italia non sarebbe poi neppure mal piazzata in questa corsa, perché Leonardo (ex Alenia) produce navicelle spaziali riusabili che sono agilmente convertibili in missili ipersonici.

5.La Web tax in Francia (e in Italia)?

Se la bomba atomica europea continua a latitare, qualcosa sembra muoversi (ma a livello nazionale, italiano e francese) sul fronte della tassazione dell’e-commerce.

Quanto all’ Italia, la Web tax è oramai già compresa nella Legge Finanziaria appena approvata.

Quanto alla Francia, Emmanuel Macron ha dichiarato: “Le grandi società che producono profitti [in Francia] devono pagare le tasse in Francia. Semplicemente è giusto così. Di fatto

, le grandi aziende digitali “pagano in media il 9% di tasse in Europa, mentre le società tradizionali pagano il 23%”, come denuncia regolarmente Pierre Moscovici, il commissario europeo che sta gestendo la questione a Bruxelles.

Prendiamo ad esempio il  meccanismo di Google, basato su una sede in Irlanda.I redditi che affluiscono a “Ireland Limited” sono assoggettati alla Corporate Income Tax

irlandese del 12,5%, ma la base imponibile viene abbattuta grazie alla notevole deduzione

della royalty che la società corrisponde a Google BV (olandese) per l’utilizzo della tecnologia.

Google BV, a sua volta, paga una royalty di quasi uguale importo a Ireland Holdings, che

per il sistema irlandese è residente alle Bermuda, dove non esiste imposta sul reddito delle società.

Se il pagamento della royalty avvenisse in maniera diretta da Ireland Limited a Ireland Holdings, sarebbe assoggettato a ritenuta alla fonte in Irlanda, ma i Paesi Bassi non applicano alcuna imposta sulle royalties in uscita, ed effettuano soltanto un piccolo prelievo sulla differenza tra la royalty che Google BV riceve e quella che paga a Ireland Holdings.

6.Una nuova cultura economica europea

Nel totale abbrutimento culturale che caratterizza la nostra società, è ovvio che anche la cultura economica sia oramai atrofizzata. I nostri professori, educati alla scuola liberista o a quella marxista, alla scuola neoliberale o a quella keynesiana, sono oramai totalmente avulsi dalla realtà.

Negli anni ’60, teorizzavano il salario come variabile indipendente; negli anni ’70, le “nuove classi emergenti”; negli anni ’80, le liberalizzazioni; negli anni 90, le privatizzazioni; nel primo decennio del XXI° secolo, l’equilibrio di bilancio, e, ora, il “deficit spending”. Ma, nonostante tutte le loro peregrinazioni ideologiche, non sono riusciti a prevedere, né lo choc petrolifero, né la crescita della Cina, né la crisi permanente dell’ Europa, né il ruolo dell’ informatica… E si capisce anche perché. Il loro ruolo è stato quello d’impedire agli Europei di rendersi conto del progetto occulto per ridimensionare eternamente l’ Europa, a favore dell’ America, dell’ URSS, dei Paesi afro-asiatici, e, ora, anche della Cina. Così, si trovava sempre un capro espiatorio diverso dal colpevole effettivo: le assurdità del consumismo venivano attribuite alle colpe dei capitalisti; la perdita di competitività, alla Guerra del Kippur; il decadimento culturale a vizi reconditi del carattere italiano; la crisi finanziaria a delle anomalie del mercato finanziario… Ovviamente, nessuno ha mai parlato del contingentamento dell’Europa da parte dell’ America, di cui discorreva già Trockij; della dipendenza delle nostre aziende…

Comunque, la verità si sta vendicando. Questa società neo-coloniale e amorfa non è capace di difendere gli Europei, di produrre un progetto di avvenire, di stimolare la nascita di nostre multinazionali (i cosiddetti fantomatici “campioni europei”, in particolare nel settore informatico…).

Sta ora a noi costruire una cultura economica europea di carattere olistico, che tenga conto non solo dei fatti materiali, ma anche di quelli cognitivi ed etici e consideri realisticamente il peso delle questioni di potere e militari, ecc..

 

 

 

 

TASK FORCE CINA DEL MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO

Lunedì, 20 Agosto 2018

Trasmettiamo qui di seguito il testo del Ministero dello Sviluppo Economico, con il quale si comunica la creazione della nuova Task Force del Ministero, che si affianca a quella italo-russa. Da Lunedì, il Sottosegretario Geraci sarà in Cina per sviluppare le attività della nuova task force.

Il MISE lancia la Task Force Cina

Il Ministero dello Sviluppo Economico, su impulso del Vicepresidente del Consiglio e Ministro Di Maio e del Sottosegretario Prof. Geraci ha costituito la Task Force Cina, un meccanismo operativo di lavoro, cooperazione e dialogo fra Governo, associazioni di categoria e società civile, volto all’elaborazione di una nuova strategia nazionale di sistema, destinata a rafforzare le relazioni economiche e commerciali con la Cina.

La costituzione della Task Force è una iniziativa che s’inserisce nelle linee guida per l’internazionalizzazione definite dalla Cabina di Regia presieduta da Mise e MAECI, in costante concerto con MEF, MIUR, MIT, MIPAAFT, Ministero degli Interni e MIBAC. Essa si colloca nel solco di continuità tracciato dalla visita di Stato del Presidente della Repubblica Mattarella in Cina del febbraio del 2017.

La Task Force Cina verrà coordinata dalla Segreteria del Sottosegretario Geraci e si avvarrà del contributo, output e know-how delle Direzioni Generali del Mise e del MAECI competenti in materia di politica commerciale internazionale e di internazionalizzazione e promozione degli scambi e del retreat annuale di Yanqi Lake coordinato dall’Ambasciata d’Italia in Cina.

La velocità con cui la Cina sta trasformando il proprio sistema rende obsoleti molti degli schemi di analisi tradizionali dello sviluppo economico. La costituzione della Task Force Cina è quindi dettata, inter alia, dall‘opportunità di costituire un meccanismo di analisi in grado di reagire alla stessa velocità, onde evitare di restare a guardare passivamente l’asse mondiale spostarsi verso est.

Tra gli obiettivi primari della Task Force si evidenzia quello di potenziare i rapporti fra Cina e Italia in materia di commercio, finanza, investimenti e R&D e cooperazione in Paesi terzi, facendo sì che l’Italia possa posizionarsi come partner privilegiato e leader in Europa in progetti strategici quali la Belt and Road Initiative e Made in China 2025.

“Il cambiamento che vuole realizzare questo Governo – ha dichiarato il Sottosegretario Prof Geraci –in uno spirito armonico e di concertazione con tutte le parti interessate, passa anche attraverso la costituzione di questo innovativo strumento di riflessione, analisi e intervento di cui ci vogliamo dotare per fornire una risposta concertata e ben informata nel dialogo con la Cina. Questa Cina, che ha lanciato il suo ambizioso programma di avanzamento tecnologico Made in China 2025 e che ha un immenso mercato interno sempre più desideroso di beni di qualità, presenta per l’Italia sia dei rischi (in quanto sempre più concorrente diretto nel comparto manifatturiero), ma anche delle imperdibili opportunità, sia sul piano dell’incremento del nostro export sia per quanto riguarda l’attrazione degli investimenti: è giunto il momento per l’Italia di cogliere queste opportunità e cavalcare l’onda cinese, invece di lasciarci travolgere da essa. Nei miei dieci anni vissuti in Cina ho constatato che agire in modo individuale e disconnesso è una strategia perdente nei confronti della Cina: è invece utile avere un approccio sistemico”.

La Task Force, che viene istituita nell’imminenza della prima missione istituzionale del Sottosegretario Geraci in Cina a fine mese e che avviene in vista dei due grandi appuntamenti fieristici di Shanghai e Chengdu del prossimo autunno, sarà aperta – come quella già istituita nelle scorse settimane sul Libero Scambio – ai contributi di tutte le parti sociali interessate, e al mondo delle università, think-tank e della consulenza, e organizzerà una serie di incontri a frequenza regolare in cui si affronteranno di volta in volta a 360 gradi temi specifici prendendo in considerazione tutte le variabili in gioco.

Chiunque volesse partecipare ai lavori e alle discussioni della Task Force Cina è pregato di contattarci per registrare il proprio interesse all’indirizzo segreteria.geraci@mise.gov.it.

Appendice

Più in particolare, la Task Force avrà l’intento di:

  • Incentivare l’ingresso in Italia di capitali strategici e gli investimenti diretti di natura greenfield.  Gli investimenti cinesi in Italia (appena 25 miliardi di dollari nel corso dell’ultimo decennio) non solo rimangono ben al di sotto degli investimenti cinesi in paesi quali il Regno Unito (che ha ricevuto ben 75 miliardi dalla Cina) ma rimangono anche focalizzati prevalentemente su attività di M&A. Dei 25 miliardi di dollari entrati in Italia negli ultimi 10 anni, neanche 200 milioni sono stati investiti in attività greenfield, contro i 6 miliardi investiti in progetti greenfield nel Regno Unito, 1,4 in Germania e addirittura 2,2 in Grecia e 1,8 in Ungheria, col conseguente limitato impatto per l’Italia in termini di valore aggiunto, trasferimento di know-how tecnologico e livelli occupazionali. Dopo un attento e dettagliato esame della struttura di incentivi in essere (includendo incentivi fiscali e regolamentari), e allo scopo di renderla più efficace in termini di stimolo agli investimenti, la Task Force Cina proporrà una serie di misure atte a ricalibrare il regime di incentivi vigente in Italia.
  • Favorire gli investimenti cinesi in titoli di Stato e di imprese private allo scopo di garantire all’Italia una maggiore diversificazione e stabilità nelle fonti di finanziamento del debito pubblico e delle attività delle imprese pubbliche e private (con la conseguente riduzione nel rischio e costo del finanziamento), tenendo anche conto dell’imminente fine del programma di quantitative easing da parte della Banca Centrale Europea, e offrendo allo stesso tempo alla Cina opportunità di investimenti di portafoglio con ritorni relativamente più attraenti.
  • Promuovere l’export italiano in Cina e il turismo cinese in Italia. L’Italia stenta a capitalizzare e far leva sulla forza del brand “Made in Italy” in quello che è diventato il primo mercato mondiale in termini di importazioni e domanda interna, nonché il principale motore della crescita economica e del turismo globale. Il valore delle esportazioni italiane rimane limitato, nonostante qualche segnale di miglioramento. Ad oggi la Francia esporta circa il 35% in più dell’Italia in termini assoluti, la Svizzera più del doppio e la Germania 5 volte di più.
  • Assistere le imprese italiane del comparto agro-alimentare a cogliere le opportunità di esportazione e/o di internalizzazione e localizzazione in Cina facendo leva sul crescente focus da parte della Cina sulla sicurezza e qualità dell’approvvigionamento alimentare.
  • Facilitare l’espansione in Cina e in Italia della Green Economy. A fronte di un serio problema di inquinamento legato ad un tasso di sviluppo economico eccezionalmente elevato, la Cina è diventata un attore globale cruciale nella Green Economy, in settori quali le energie rinnovabili e i trasporti. In quest’ultimo settore, per esempio, la Cina si è posta il target di raggiungere un parco di auto circolanti elettriche di 35 milioni già dal 2022. Obiettivo della Task force quello di coinvolgere le imprese italiane nello sviluppo della Green Economy in Cina, e quello di favorire il trasferimento di know-how e capitali cinesi in materia in Italia.
  • Aiutare le imprese italiane ad agganciare i programmi di investimenti cinesi finanziati dalla Belt and Road Initiative, sia in Cina che lungo tutta la tratta della nuova Via della Seta, stimolando allo stesso tempo gli investimenti e il trasferimento di know-how cinesi per lo sviluppo delle reti di Infrastrutture, Energia e Trasporti in Italia. Con 25.000 chilometri di rete di treni ad alta velocità già realizzati, ed altri 21.000 chilometri in programma, per citare solo uno dei tanti possibili esempi, la Cina è attualmente il paese che più di ogni altro al mondo possiede la miglior conoscenza nel settore dello sviluppo di infrastrutture.
  • Valorizzare i meccanismi di collaborazione scientifica e R&D fra istituti e laboratori di ricerca, Università e imprese, anche mediante programmi di interscambio di studenti, ricercatori, scienziati e tecnici allo scopo di facilitare lo scambio di know-how tecnologico e i rapporti culturali fra i due paesi.
  • Rafforzare la cooperazione con la Cina in Africa. La Cina può aiutare l’Italia a risolvere il problema dell’immigrazione aiutando l’Africa: la Cina è il paese che più ha investito in Africa (già 340 miliardi di dollari, molti di più dei soli 70 miliardi stimati normalmente dagli analisti), con effetti che sono già visibili in termini di impatto sui tassi di povertà e che nel lungo periodo dovrebbero gradualmente contribuire a far diminuire i flussi migratori verso l’Europa. Il coinvolgimento della Cina in Africa offre all’Italia un’opportunità storica di cooperazione internazionale per la stabilizzazione socioeconomica del continente, cruciale non solo per una soluzione sostenibile e solidale del problema dell’immigrazione ma anche per le opportunità economiche che sorgeranno nel continente per le imprese italiane.

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PROTEZIONISMO E INFORMATICA, In margine alla multa di Google

L’’imporsi dell’ informatica come fenomeno centrale del XXI Secolo ha stravolto,  già di per sé, molti dei presupposti -filosofici, politici, economici e giuridici- delle società contemporanee, a partire dalle idee di libertà, di Stato e di concorrenza, rendendo obsolete, tra l’altro, le vecchie ideologie e le vecchie scuole economiche e giuridiche. E’evidente, infatti, che le Big Five non sono soltanto delle imprese, ma corrispondono anche, contemporaneamente,  a ciò che un tempo erano     gli Stati, le Chiese e i servizi segreti. Difendere l’Umano contro i Big Data e l’uomo artificiale richiede molta più energia e ingegnosità che non difendere i cittadini  separatamente contro lo Stato, la Chiesa o la repressione poliziesca, come si era fatto nel ‘600 con l’Habeas Corpus, nel ‘700 con il Toleration Act, o nell’ Ottocento con le costituzioni liberali.

Per questo le Autorità americane stanno giustamente ripensando all’intero impianto della legislazione antimonopolistica, nata proprio in America per difendere, prima che i consumatori, la stessa democrazia, la quale non può coesistere con un potere preponderante, superiore a quello di Stato, Chiesa e polizia messe insieme. Infatti, le Big Five spiano quotidianamente ciascuno di noi, a cominciare dal Papa e dal Presidente degli Stati Uniti, manipolano le elezioni in tutti i Paesi del mondo, ma soprattutto in America, rivendono i nostri dati acquisendo un potere economico che permette loro di acquistare aziende aerospaziali e interi territori, catene editoriali e fabbriche automobilistiche, catene distributive e fabbriche di robot: distruggendo l’intero ceto imprenditoriale e gran parte di quelli tecnici e operai, in tutto l’ Occidente.

Ma, per fermare le Big Five, non resta che ricreare la concorrenza (per esempio, quella dei concorrenti europei che oggi non ci sono).

La polemica forzata di Trump contro la decisione della Commissione ha se non altro il pregio di mettere in evidenza una serie di verità lapalissiane che tutti hanno preferito ignorare per molti decenni. Al di là dei mutevoli e mistificati rapporti in politica interna, vi è una sostanziale convergenza fra, da un lato, il perpetuarsi dello strapotere delle Big Five, e, dall’ altra, le politiche protezionistiche, aperte o nascoste, dello Stato Americano, di oggi e di ieri.

1.L’informatica quale arma suprema del XXI Secolo

Dato, infatti, il carattere centrale dell’ informatica nella società di oggi, e, soprattutto, di domani, essa rappresenta oggi l’arma suprema, superiore perfino a quella nucleare. Come ha detto il Presidente Putin, “chi controlla l’ Intelligenza Artificiale controlla il mondo”. Questo l’avevano scritto per primi Eric Schmidt e Jared Cohen, membri del CdA di Google: “mentre,  nel XX Secolo, era stata la Lockheed a guidare l’America alla conquista del mondo, nel XXI secolo, questo compito spetterà a Google”. D’altra parte, questo lo sapeva per primo il Department of Defence americano, che, in piena Seconda Guerra Mondiale, aveva lanciato “AAA Predictor”, un programma che aspirava  nientemeno che a prevedere le mosse del nemico. Se non è questa l’Intelligenza Artificiale! E, nello stesso modo, lo sapevano  i vertici del PCUS, che, dal 1983, avevano affidato la decisione della eventuale rappresaglia nucleare, a un sistema informatico detto “OKO” (Occhio).

E’ questo il motivo per cui tutti gli Europei (Governi, Istituzioni, partiti, imprenditoria) non hanno mai fatto nulla contro lo strapotere delle Big Five, concepito come una semplice e logica estensione della cessione agli Stati Uniti del diritto di pace e di guerra. Ed è questo per cui il seppur modesto attacco odierno della Commissione alla Google viene descritto da Trump come un’insopportabile prevaricazione degli Europei, che va repressa al più presto.

L’approccio di Trump si differenzia perciò da quello di Obama solamente per lo stile. L’Amministrazione Obama si era illusa di rendere irreversibile il predominio delle Big Five (e, quindi, del proprio Complesso Informatico-Militare), attraverso il TTIP e il TTP, mettendo al bando  come “protezionismo” ogni misura volta a rafforzare le nascenti industrie europea e giapponese del Web Poiché non si sono potuti stipulare i due trattati, si è scelto ora il rude approccio di Trump: non potete multare la Google (seppure applicando la normativa antitrust, che è un prodotto del liberismo giuridico americano) perché la Google è americana, e gli Europei stanno già  traendo fin troppi  vantaggi (quali?) dalla cooperazione con l’America. L’atteggiamento di Trump è simile a quello del lupo nella favola di Esopo/Fedro e Lamartine, in cui  questo  animale divora l’agnello dopo averlo accusato di una colpa irrisoria e comunque impossibile (avere sporcato l’acqua d’un ruscello quando in realtà era l’agnello ad essere a valle del lupo).

2.L’insostenibilità della subordinazione europea

Addirittura, l’insufficienza economica, a parere di tutti, della multa miliardaria comminata a Google dalla Commissione, rispetto all’ enormità dei danni causati dall’ impresa, mette a nudo l’insostenibilità di un tipo di rapporto, fra Europa e America, fondato su una totale sproporzione di potere. Infatti, già soltanto  mantenendosi entro i ristrettissimi limiti del diritto europeo positivo (ripetiamolo, di origine americana) esisterebbero  strumenti ben più efficaci, come l’”order to divest”, che nessuno si sogna però neppure di suggerire. Ricordo che questa soluzione era stata applicata fin dagli inizi dell’antitrust americano a conglomerate, come la Standard Oil, ben meno minacciose che non le Big Five di oggi. Quanto poi alle diatribe euro-americane, avevo avuto modo già negli anni ’70 di assistere ad un “order to divest” piuttosto discutibile, quello contro la SKF svedese (per cui lavoravo), evidentemente per favorire i suoi concorrenti americani.

Ma c’e di più: sempre secondo la stessa teoria liberistica, lo Stato deve intervenire nell’ipotesi di un “fallimento del mercato”. Ebbene, questo è appunto il nostro caso, perché, senza un aiuto dello Stato (o meglio dell’ Unione Europea), un’industria europea del web non sorgerà mai, e, quindi, in Occidente non sorgeranno mai dei concorrenti delle Big Five come Alibaba o Baidu in Cina .E giacché, senza un’industria informatica autonoma, non è possibile, né una politica di difesa, né un’industria delle comunicazioni, né un sistema commerciale efficiente, né un’industria dei trasporti, ecc…, se l’ Europa non si dota della sua autonoma  industria del web, essa sarà condannata a una decadenza rapidissima, sul genere di quella che stiamo già sperimentando in Italia, dove da più di un decennio,  la “crescita”, mai superiore all’ 1%, non compensa neppure l’inflazione programmata. Non per nulla, l’Italia costituisce un caso estremo di rinunzia a tutte le tecnologie di punta: dall’ informatica (ricordiamo il caso Olivetti), al nucleare (vedi referendum), alle portaerei (vedi il caso delle nostre portaelicotteri), alla propulsione aerospaziale (caso Fiat Avio). Un’Italia priva delle industrie di punta è condannata a non offrire più alcun posto di lavoro interessante, soprattutto per gl’intellettuali, i managers, gl’ingegneri, i finanzieri, i legali, perché questi si concentrano ovunque là dove c’è un potere effettivo: intorno alla Silicon Valley, a Shenzhen, al Pentagono, al Cremlino,  a Wall Street, a Gerusalemme, a Pechino, a Riad….Qui restano solo posti da politici di second’ordine, da burocrati esecutori, da camerieri, da contabili e  lavoratori manuali in attesa di essere sostituiti dai robot…

La difesa d’ufficio che il Presidente Trump sta facendo di Google conferma che si tratta di una lotta per la sopravvivenza fra le economie americana ed europea. D’altronde, il caso di Cambridge Analytica dimostra che anch’egli, come già Obama, non avrebbe vinto le elezioni senza l’appoggio determinante delle Big Five. Dove poi l’influenza russa, per altro non dimostrata e non specificata, sarebbe stata infinitesimale rispetto a quella, confessa, di Facebook e di suoi partners.

Urge un’azione da parte della società civile per fare pressione sulle Autorità Europee. Se l’Unione Europea non saprà tutelare i suoi cittadini contro questa che è la minaccia più grave nei confronti della nostra libertà e della nostra stessa sopravvivenza, non vedo come essa possa rivendicare una qualsivoglia legittimità democratica, e come faccia a evitare il prevalere di forze che promettono (sinceramente o meno), nuovi assetti, radicalmente diversi.

 

DOPO IL G7: è il momento di agire

Il G7 non poteva concludersi in un modo più significativo – con una grottesca rissa in cui i membri degli ex “sette Grandi” si lasciano fra insulti e minacce-. Il colmo è costituito dalla provocazione iniziale di Trump, che ha proposto di ri-invitare la Russia (a suo tempo cacciata per volontà degli Stati Uniti), a cui hanno risposto la Russia stessa, che ha precisato di preferire l’ Organizzazione di Cooperazione di Shanghai, e gli Europei, che hanno rifiutato di associarsi all’ invito.

1.Carattere surreale del G7 

Non poteva finire se non così, viste le premesse concettuali sbagliate. Che senso ha costituire un gruppo di Paesi che riunisce meno di 800 milioni di abitanti su una popolazione mondiale di 7 miliardi e mezzo (invitando il Canada, che ne ha appena 25, e l’ Italia, che ha un PIL inferiore non solo a quello della Cina, ma anche a quello della Spagna), e pretendere che decida sulle grandi questioni del mondo, alla faccia della democrazia internazionale e delle Nazioni Unite?

Il carattere surreale del G7 è stato messo in evidenza anche dalla concomitanza della riunione in Canada  con il vertice di Qingdao dell’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai, a cui ha partecipato tutta l’ Eurasia, e in cui si è decisa l’ammissione anche dell’ India e del Pakistan.

Il primo a rendersi conto dell’ irrealtà del G7 è stato proprio il presidente Trump, che ha deciso di affossarlo e ridicolizzarlo con una marea di sgarbi, arrivando in ritardo e partendo in anticipo per incontrare il dittatore nordcoreano, al punto che il premier canadese Trudeau ha parlato di “un insulto”(tra l’altro, nel summit, Trump gli aveva rinfacciato l’incendio di Washington nel 1814 da parte delle truppe canadesi).

La debolezza del G7 è la stessa di tutte le iniziative internazionali degli Stati Uniti, che partono nel nome del progresso universale guidato dagli Stati Uniti, ma vengono sistematicamente rinnegate da questi ultimi non appena esse possono dare qualche vantaggio agli altri Paesi.

Per questo, l’alternanza dei presidenti piace tanto negli Stati Uniti: per attribuire alla responsabilità  successivi leader  quei  cambiamenti di casacca che sono iscritti nel DNA del loro imperialismo, ambiguo come tutti gli universalismi. Paritetici fintantoché resiste un insuperabile dislivello fra dominanti e dominati, nazionalisti non appena questo dislivello rischia di colmarsi. L'”isolazionismo” corrisponde a questa seconda fase, in cui si rinnegano i patti stipulati nei periodi espansionistici.

2.Una simbiosi sempre più difficile

Oggi, Trump si sente offeso del fatto che ( suo avviso), i Paesi occidentali dovrebbero il loro preteso benessere alla protezione da parte degli Stati Uniti, ma si permettano, da un lato di contribuire meno alla difesa dell’ Occidente, e, dall’ altro, di esportare con maggiore successo degli USA. Premesso che, se l’ Europa non facesse parte del sistema americano e spendesse per la Difesa quanto spende  ora (cioè quanto Cina e Russia messe insieme), ma in modo autonomo, sarebbe oggi una grande potenza ed esporterebbe ben di più, nei settori della cultura, dell’ informatica, dell’industria aerospaziale e della difesa, senza pagare tributi all’ America in termini di acquisti militari (vedi F35), di mantenimento di centinaia di basi, di “guerre umanitarie”, di immigrazione, di apertura alle multinazionali del web e della consulenza, anche lo squilibrio della bilancia americana dei pagamenti è stato voluto dagli USA come forma semi-schiavistica di dominio mondiale, in particolare nei confronti della Cina, verso la quale, negli anni 80, si subappaltò la quasi totalità dei prodotti delle multinazionali per sfruttare il basso costo della mano d’opera.

Oggi, gli Stati Uniti sono uno Stato imperiale, dove prosperano solo le funzioni che servono all’ Impero (il cosiddetto sistema “QUANGO”:politica, informatica, cultura, servizi segreti, finanza, difesa…, mantenute dai “satelliti”), e tutti gli altri boccheggiano. Tuttavia, con la riduzione del suo ruolo imperiale, perfino le attività strategiche stanno incontrando difficoltà. Di qui la missione di Trump: distruggere ciò che è stato fatto, per ritentare un’ennesima strategia egemonica. Missione impossibile, perché i rapporti di forza a livello mondiale sono cambiati, e il blocco di potere eurasiatico, sempre più coeso, ha sottratto all'”Occidente” un’ampia parte del mondo (circa la metà in termini di popolazione, un po’ meno in termini di PIL).

Di qui il frenetico nervosismo di Trump.

Oggi, la palla sta nel campo egli Europei, che, di fronte alle oscillazioni delle grandi Potenze, sono finalmente liberi di scegliere il loro destino, e, in primo luogo, le loro alleanze. Altro che fare l'”esame del sangue” a ogni forza politica per controllare il suo “livello di fedeltà” alla NATO!

Però, occorre urgentemente che gli Europei alzino un poco lo sguardo, dalle miserie quotidiane (come il deficit spending e la ripartizione dei migranti), per alzarlo verso l’ avvenire del mondo : la libertà di tutti i Popoli,l’ umanità vs. la tecnica, la nuova cultura multiculturale e multipolare….

Solo così si rimedierebbe anche all’interminabile declino economico, rendendo l’ Europa capace di commerciare su un piede di parità con il resto del mondo.

 

PER RISOLVERE I PROBLEMI DELL’EUROPA, decostruire ordoliberalismo e keynesismo.

Fin dal 2014, l’Associazione Culturale Diàlexis aveva predisposto e pubblicato uno studio, “Restarting EU Economy via Technology Intensive Industries”, nel quale illustravamo la nostra visione fortemente anticonformista circa la situazione economica e le ricette per rimediare alla crisi cronica dell’Europa.

Questo opuscolo era stato inviato nel 2014 al Presidente Juncker, al Presidente Hoyer e al Commissario Oettinger, perché ne tenessero conto nell’elaborazione del Piano Juncker. E in effetti, essi, dopo averciringraziato, ne hanno tenuto conto nel “Piano Juncker”, ma di nascosto, in modo insoddisfacente ed inefficace, puntando su soggetti sostenuti dai loro rispettivi Governi, ma incapaci di svolgere la loro funzione, e rafforzando così, anziché indebolire, il dominio, sull’ Europa delle Big Five e dell’ America in generale. Chi non ne aveva tenuto conto in alcun modo era stato Renzi, il quale non aveva dato, ad esso, alcun seguito, né riscontro.

I più recenti eventi, con la corsa generalizzata all’ Intelligenza Artificiale, lo stabilizzarsi del declino europeo e l’insistenza di Trump sull’ulteriore contingentamento dell’Europa (sanzioni e dazi) confermano la preveggenza della nostra impostazione e l’urgenza di porre la Sovranità  Europea all’ ordine del giorno delle prossime Elezioni Europee, ma anche del programma del Governo italiano, improvvisamente dichiaratosi paladino dell’ Europa.

Per questo riproponiamo le tesi di quel Quaderno subito dopo la fatidica data del 1° Giugno, quando sono state confermate le sanzioni americane contro l’ Europa, e, contemporaneamente, sono stati nominati due governi europei  espressione di radicali cambiamenti: quello italiano e quello spagnolo.

1.Le ragioni dell’arretramento dell’economia europea.

Le radici del cosiddetto “miracolo economico”, come pure quelle della successiva, interminabile, crisi, sono soprattutto culturali e politiche.

Perciò, le spiegazioni riproposte da tutti circa trent’anni senz’alcun riscontro pratico non solo sono  false, ma mi sono divenute addirittura fisicamente insopportabili: burocrazia, assistenzialismo, pansindacalismo, ecc…(come se queste cose non ci fossero dovunque, anche nei Paesi con le migliori “performances”).

Per capire i problemi dell’ Europa, occorre risalire piuttosto lontano, vale a dire almeno alla corsa, avviata fin dal secolo 15°, all’ accaparramento, da parte degli Europei, di beni materiali in tutto il mondo, descritta ideologicamente come “progresso dell’ Occidente”, che era stata la conseguenza diretta  della scelta teorizzata nel Settecento, sulla base del cosiddetto “Primo Programma Sistemico dell’Idealismo Tedesco”, ove si proclamava che l’uomo si sarebbe salvato da sé, attraverso “una nuova scienza”. Questa scelta aveva portato in primo piano i portatori di progresso economico-imprenditori e ingegneri-, sempre meno controllati e frenati dai ceti culturali e politici. Il “doux commerce” sostituiva così, la “sete di gloria ed onore”. Costituiva parte integrante ed essenziale del “Progetto della Modernità” il colonialismo, lanciato anch’esso sotto il pretesto ideologico (Turgot, Condorcet, Marx, Hugo, Mazzini) di portare il progresso ai popoli afroasiatici, ma, in realtà, volto soprattutto ad accrescere il potere dell’”élite” tecnocratica borghese, in Europa e nel mondo, anche, quando necessario, attraverso il genocidio e la schiavitù (Americhe, Congo).Fichte, Mazzini, Hugo e Nietzsche avevano posto chiaramente in evidenza il nesso fra la pace in Europa e la colonizzazione del mondo. Ancor oggi questo nesso è facilmente discernibile quando si giustifica l'”esportazione della democrazia” con la nostra superiore civiltà, che sarebbe dimostrata dall’assenza di guerre fra i Paesi della NATO (ma non con gli altri).

Tuttavia, nonostante gli appelli all’unione fra gli Europei per salvaguardare i propri privilegi, dopo che Kipling e Fiske avevano profetizzato un governo mondiale degli USA, questi ultimi  si erano prefissi l’obiettivo di scalzare l’Europa dall’ egemonia finanziaria mondiale e dalle colonie, per sostituire il loro colonialismo soft (neo-colonialismo) al vecchio colonialismo hard.

Nella nuova situazione, come aveva profetizzato Trotskij fin dal 1921: “..l’America dirà all’ Europa, quante tonnellate, litri o chilogrammi di questa o di quell’ altra merce dovrà comprare o vendere”. Cosa che si è verificata alla lettera negli ultimi 30 anni, ma aveva già cominciato a manifestarsi  con i 14 punti di Wilson e con il trasferimento del centro finanziario mondiale dalla City a Wall Street. Oggi si parla espressamente di quote di produzione e dell’autolimitazione delle esportazioni e dei disavanzi commerciali a carico degli Stati europei.

Tuttavia, all’ inizio del XX Secolo,  le colonie rimanevano ancora soggette, formalmente, agli Stati europei, almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando Roosevelt costrinse Churchill a firmare (controvoglia) la Carta Atlantica. A partire dalla fine della guerra, iniziò infatti il processo di decolonizzazione, con l’attribuzione,  alle potenze ex coloniali, dell’ incarico di amministrare fiduciariamente pro- tempore  le ex colonie-per l’Italia, la Somalia- (sempre “per portarvi il progresso”). Con le amministrazioni fiduciarie era cominciato anche  l’“aiuto allo sviluppo”, sempre col pretesto di portare il progresso in Africa, ma, in realtà, per continuare a tenere sotto controllo i prodotti agricoli e minerari e per contingentare l’import-export. Tuttavia, l’aiuto allo sviluppo fu modesto e inefficace. Come si poteva evincere da uno studio che avevo pubblicato fin dal 1981 (“Les procédures de la coopération financière et technique dans le cadre de la IIe Convention de Lomé”), buona parte degli esigui fondi dello Sviluppo veniva speso, in realtà, in attività amministrative dei Governi e delle Comunità Europee, sicché ben poco restava per l’economia africana. L ‘aiuto allo sviluppo serviva in modo egregio per mascherare la diminuzione del peso economico dell’Europa, presentando il suo rapporto con l’Africa come una filantropica decisione di egualizzare le sorti dei continenti, il che presupporrebbe un maggiore tasso di crescita nei “Paesi in via di sviluppo”. Cosa che in effetti si sta realizzando, ma con ben scarsa soddisfazione, tanto per i Paesi europei, che per quelli afro-asiatici.

2.La “Sfida americana”

La prima e la seconda guerra mondiale avevano costituito un grandioso business per le imprese dei paesi belligeranti, che avevano realizzato una crescita inaudita di fatturato e si erano trovate ad avere, alla fine della guerra, tanto in America quanto in Europa, gli impianti nuovi pagati dal contribuente. Questo fu  il “Miracolo Economico”. Certo, meno spettacolare in Europa a causa di una parziale distruzione degli apparati produttivi, dello smantellamento delle fabbriche e degli ostacoli frapposti dagli Americani alle imprese militari e di alta tecnologia europee (vedi problemi per Renault, Olivetti, Porsche, ENI, Volkswagen e BMW).

Al contrario, negli USA, le imprese di alta tecnologia si erano sviluppate in modo frenetico  con il Progetto Manhattan, AAA Predictor, la corsa allo spazio e agli armamenti, lo sviluppo dell’informatica e delle nuove tecnologie, finanziati dai fondi militari dell’ ARPA, agenzia governativa per lo sviluppo delle tecnologie “duali”. In Europa non vi erano stati Enti comparabili alla DARPA, ma, al contrario, gli ostacoli (politici e altri) frapposti, per esempio, a Olivetti e a Mattei, nei loro sforzi per realizzare in Italia nuove imprese in concorrenza con quelle americane.

Così, le industrie di alta tecnologia qui non si svilupparono mai, salvo che in maniera modesta, intorno alla Francia del Generale De Gaulle (Force de Frappe, Arianespace, Airbus, TGV). Cosa relativamente poco grave fintantoché si trattava dell’aerospaziale, ma micidiale oggi, quando si parla dell’informatica e della rete, che condizionano, oltre alla stessa economia, l’intera vita sociale. Questa situazione era già stata prevista con estrema lucidità fin dal 1968 da Jean-Jacques Servan-Schreiber nel suo libro “La sfida americana”, ma nessuno (tranne de Gaulle) se n’era allora preoccupato.

Dopo quarant’anni, come noto,   le industrie del web, fino a poco tempo fa esclusivamente americane, controllano da parecchi decenni, dagli Stati Uniti e dai paradisi fiscali, la politica, la finanza, l’industria e il commercio mondiale, ed esportano i loro profitti dall’Europa con il consenso, tacito o espresso, delle autorità europee (vedi i Tax Rulings lussemburghesi e il caso Google-Irlanda), che, nonostante tutti i clamori mediatici, non hanno ancora neppure deciso di tassarle. Ne deriva un’insopportabile concorrenza sleale ai danni dei potenziali concorrenti europei, che nessuno osa reprimere secondo i principi antitrust e fiscali generalmente applicabili. Soltanto Orban aveva provato ad introdurre in Ungheria una Internet Tax, ma era stato prontamente privato del potere da una (spontanea?) rivolta popolare.

Tutto ciò ha portato a un progressivo svuotamento dell’economia europea, con il trasferimento del controllo su varie imprese europee sotto gruppi americani (cfr. Nuovo Pignone, MTU, Fiat, Fiat Avio, ecc..). Sembra quasi che, per  un tacito accordo, gli Europei non possano entrare in determinati settori, o, se vi entrano, lo possano fare solo come partners di minoranza. Soprattutto, le autorità europee e nazionali si guardano bene dal finanziare progetti concorrenti a quelli dell’ARPA.Ma così non avremo mai un’economia europea avanzata.

Antonio Cantaro parla di uno “Stato commerciale” europeo, “autorizzato” a perseguire ampi successi sul piano economico ma al quale è “vietato” tradurre questo successo sul piano politico e militare.

3.Fra la Googleization of the World e la Nuova Via della Seta

Attualmente, assistiamo a tre opposte tendenze:

-da un lato, la presa di controllo, da parte dei giganti del web, di settori assolutamente disparati dell’economia, dall’ industria automobilistica, ai trasporti, all’editoria, al commercio al dettaglio, in USA e all’ estero, con un attacco perfino al Presidente, al “deep State” e alle multinazionali tradizionali…

-dall’ altro, lo sviluppo di multinazionali eurasiatiche (cinesi, giapponesi, indiane, russe, dei Paesi arabi), che si affiancano a quelle americane anche nel prendere il controllo delle imprese europee;

-infine, lo scatenamento, da parte dell’America di Trump, di una “Guerra economica in tempo di pace”(come la chiama Cantaro) contro tutti i Paesi esteri, allo scopo di tentare di rallentare oi loro tentativi di superare gli stati Uniti.

In questa situazione, perché mai dovrebbero aumentare in Europa il PIL e l’occupazione? I cosiddetti “investimenti esteri” tanto ambiti dai Governi europei, si riducono infatti al fatto che i gruppi stranieri comprano le imprese europee per eliminare un concorrente e per ottenere agevolazioni dai governi locali, ma è evidente che declassano progressivamente il ruolo delle nuove controllate (quando non le chiudono).

Il trasferimento all’ estero della proprietà e del controllo è, per l’economia locale, catastrofico, molto più catastrofico di quanto non lo presentino i media. Se si pensa che, oggi, gli amministratori delegati delle grandi imprese guadagnano decine di milioni di Euro all’ anno (cioè mille volte più di un operaio), ci si renderà conto che non avere più fra noi le staff dirigenziali comporta una perdita ingente per l’erario, per il mercato immobiliare, per il commercio e per l’indotto, ben più ingente della perdita di qualche migliaio di posti di lavoro operai. Basti guardare la città di Torino, dove la pletora di ville del Valentino, della Collina e della Crocetta segnalavano la presenza di decine di migliaia di grandi azionisti, imprenditori, presidenti, amministratori delegati, dei loro dirigenti, professionisti, famiglie e servitù, ora scomparsi. Il fatto che siano stati mantenute alcune decine di migliaia di impieghi operai e impiegatizi a continuo rischio di licenziamento non compensa certo la perdita dell’alta borghesia imprenditoriale.

Inoltre, le società del primo e del secondo dopoguerra erano basate sulla “mobilità verso l’alto”, che costituiva l’obiettivo dell’enorme sforzo lavorativo richiesto dalla società industriale. Orbene, solo la presenza di grandi imprese permette una carriera completa, che vada dai gradini più bassi fino ai vertici della finanza e della politica. I nostri laureati emigrano perché da noi sono rimasti solo i ruoli esecutivi (o comunque ancillari), mentre quelli apicali e veramente remunerativi sono finiti altrove.

Ma questo porta  a un atteggiamento di disinteresse per il lavoro, di mediocrità, di clientelismo e fatalismo.

3.Il declino dell’ “Occidente”.

Non credo alla presunta superiorità dell’Occidente, e nemmeno alla sua maggiore idoneità ad organizzare efficacemente una società industriale. Perciò, non mi stupisce affatto  il suo ininterrotto declino (tra l’altro tempestivamente ed efficacemente profetizzato da Spengler). La “Crescita Pacifica della Cina” avvenuta nel II dopoguerra conferma le previsioni di Max Weber, secondo cui il Confucianesimo è più efficace del Puritanesimo quale scuola di formazione della società industriale, nonché quelle di Spengler sull’inevitabile declino dell’Occidente. Scrive Spengler, “gli insostituibili privilegi dei popoli bianchi sono stati sperperati, dissipati, traditi. Gli avversari hanno eguagliato i loro modelli. E, forse, con la scaltrezza della razza di colore e con la matura intelligenza di antichissime civilizzazioni, li hanno superati”.

Le guerre commerciali di Trump mirano anche e soprattutto a reagire a questo fenomeno:

-da un lato, a ristabilire le distanze con i Paesi in Via di Sviluppo;

-dall’ altro, a mantenere la distanza dall’ Europa.

Se, infatti, venisse meno il mito plurisecolare “dell’America First”, crollerebbe un intero castello di carte fondato sull’ insostituibilità dell’egemonia americana (la “nazione Indispensabile”), e sulla superiorità ontologica della sua “civilisation”, tanto nei confronti degli Afroasiatici, quanto in quelli degli Europei (superiorità teorizzata già  da Winthrop, Mather,  Washington, Emerson, Whitman e Fiske).

Mettendo in evidenza che l’intero ordine mondiale è fondato su questo rapporto di forza con l’ America, da ristabilirsi anche con metodi coercitivi, Trump toglie, indirettamente, credibilità alle Retoriche dell’Idea di Europa, fondate invece sull’assunto della “benignità” del “federatore esterno” americano e sulla conseguente rinunzia dell’ Europa a perseguire, almeno verso l’America,delle guerre commerciali.

Inoltre, se queste retoriche non sono credibili, che senso hanno anche le politiche di stabilità della moneta e il divieto di aiuti alle imprese, fondati su una pacificazione dei rapporti commerciali?

  1. Ordoliberalismo e Germania

La polemica sovranista tende, a mio avviso abusivamente, ad attribuire alla Germania, non già all’ America, la colpa dell’insostenibilità dell’economia europea. Certo, la Germania ha tratto un certo vantaggio dalle retoriche dell’idea di Europa, e, in particolare, dal divieto generalizzato di politiche mercantilistiche (che, infatti, ha teorizzato sotto l’etichetta dell’ “ordoliberalismo” di Walther Eucken). Infatti, da un lato questo divieto ha reso, tra l’altro, più difficile agli altri Europei attaccare con metodi aggressivi l’obiettiva superiorità del sistema tedesco, e, dall’ altro, le ha attribuito la funzione di garante per l’ America della disciplina degli Europei.

Tutto ciò è perfettamente logico: da un lato, è impensabile un’Europa unita senza una forza egemone (sia essa etnica, culturale, religiosa o militare); d’altro canto, all’America va benissimo che il carattere ordoliberale, smilitarizzato e asettico, dell’egemonia regionale tedesca, impedisca alla Germania, e, quindi, agli Europei, di proporsi come potenza mondiale. A questo punto non stupisce che la “stabilizzazione” economica dell’Europa di oggi costituisca la prosecuzione senza soluzione di continuità della “Grossraumwirtschaft” teorizzata e realizzata dai ministeri del Terzo Reich al tempo dell’occupazione militare nazista. Non per nulla il primo presidente della CECA era stato Hallstein, già lobbista delle grandi industrie tedesche presso il comando della Wehrmacht.

Comunque, la superiorità dell’industria tedesca non è stata creata, né dal regime nazionalsocialista, né dall’ America, né dall’ Unione Europea, bensì dalla obiettiva centralità storica e geopolitica del “Deutschtum” in generale, fra il Belgio e l’Estonia, fra lo Juetland e la Transilvania,dal suo modello partecipativo, e, infine, dalla riunificazione tedesca, che ha comunque messo insieme 100 milioni di abitanti (una potenza di fuoco inferiore di poco a quella della Russia).

Giacché non si crea nessun’organizzazione statuale senza egemonia, se non si vuole l’egemonia della Germania  né quella della Russia, occorrerà costruire un’egemonia alternativa: quella di un “movimento sovranista europeo” che si faccia veramente carico di rivendicare, contro la globalizzazione occidentale, l’autonoma civiltà dell’ Europa, e doti quest’ultima di quel sistema informatico-industriale-militare che, solo, può garantire, oggi,  a un Continente (o uno “Stato-civiltà”) la libertà a l’indipendenza.

5.L’unica svolta possibile: una rivoluzione culturale

Questa frettolosa analisi della situazione dell’ Europa dopo l’ondata protezionistica di Trump ha messo in luce l’urgenza di un’approfondita ed accelerata riflessione sulla infondatezza dell’attuale  ideologia europea e delle (non)politiche economiche dell’Europa e dei suoi Stati membri, smitizzando le stesse ragioni del contendere fra i pretesi “sovranisti” e l'”establishment” continentale.

L’erroneità, o meglio, la deliberata falsificazione di tale situazione, sono quelle che hanno giustificato la persistenza di forze politiche e culturali obsolete e l’insistenza su politiche (come la stabilità della moneta, il divieto di aiuti di Stato, la subordinazione alla NATO), che non hanno rafforzato, bensì indebolito l’Europa e i suoi Stati (Membri o non membri), rendendoli tutti incapaci di reagire adeguatamente alle ingerenze americane e, per ultimo, agli attacchi di Trump.Le misure in cantiere nei vari Stati membri (tanto quelle neo-liberiste come le liberalizzazioni, quanto quelle “sovraniste”, come le restrizioni all’ immigrazione, o quelle “populiste”, come la defiscalizzazione o l’assistenzialismo), non intaccando questa realtà fondamentale, non costituiscono passi in avanti verso la soluzione.

Occorre invece ripensare le basi culturali dell’identità europea, il rapporto uomo-tecnica, la missione dell’Europa e i rapporti, culturali e politici, con il resto del mondo, per costruire una nuova egemonia euroentusiastica . Nel fare ciò, occorrerà studiare con attenzione che cosa hanno fatto e che cosa stanno facendo, per affrontare situazioni simili, altri “Stati-civilizzazioni”), come Cina, India e Russia.

 

24 MAGGIO: PRESENTAZIONE DI DA QIN PRESSO “IL LABORATORIO”

Giovedì, 24 maggio, ore 18

Presso “Il Laboratorio”

Via Carisio 12

Riccardo Lala

Da Qin. Un’Europa sovrana lungo la Via della Seta

Chi, come il Presidente Macron, invoca un “sovranismo europeo”,  ha poi anche la responsabilità di trasformare questo slogan in realtà, rendendo l’ Europa veramente autonoma: nella cultura, nella tecnologia, nella politica, nell’ economia, nei costumi, nella difesa, nel rispetto delle tradizioni pluralistiche delle nostre terre. A ciò basterebbe forse un serio ri-orientamento delle istituzioni esistenti verso i loro compiti autentici: della scuola, verso una cultura alta; dei fondi dell’Unione e delle Forze Armate, verso tecnologie di punta e autonome; dell’Unione, verso le nostre antiche tradizioni costituzionali; delle industrie verso i “campioni europei di alta tecnologia”; delle imprese, verso il “modello sociale europeo”.

 

L’autore, che ha vissuto in prima persona le successive crisi dell’Europa, come studioso, eurofunzionario, manager, editore, scrive di tutto ciò, come ha detto Roberto Esposito, “guardando all’ Europa da fuori”, cioè senza pregiudizi “eurocentrici”, e, innanzitutto, partendo dal Paese che, per antichità e dimensioni, più ci assomiglia: la Cina. Per questa somiglianza, gli antichi Cinesi chiamavano l’Europa addirittura “Da Qin” (la “Grande Cina”). La Via della Seta, che fin dai tempi dell’Impero Romano e di quello germanico univa Roma con le capitali cinesi, è stata anche l’asse delle altre grandi civiltà: persiane, greco-macedoni, islamiche e turco-mongole. La Nuova Via della Seta -una rete inestricabile, già in costruzione, di treni, autostrade e porti-, costituisce una fondamentale speranza per rilanciare, attraverso le nuove tecnologie, il commercio e il turismo, l’economia e la cultura dell’Italia e dell’Europa, travolte da un’interminabile decadenza.

 

INCONTRO DEL 14 MAGGIO SUL RUOLO DEI LAVORATORI NELLA SOCIETA’ DELLE MACCHINE INTELLIGENTI

 

Il tema in discussione oggi, quello del ruolo dei lavoratori nella società delle macchine intelligenti, può sembrare distante dall’ oggetto del libro che presentiamo. In realtà, esso ne costituisce una sorta di “punta dell’iceberg”, vale a dire l’implicazione conclusiva ed operativa di un libro forse troppo ambizioso e complesso, il n. 1-2018 dei Quaderni di Azione Europeista” dell’Associazione Culturale Diàlexis, intitolato “Modello sociale europeo e pensiero cristiano dopo l’enciclica ‘Laudato sì’”.

Intanto, occorre precisare che, tanto “Macchine Intelligenti”, quanto “Macchine Spirituali”, quanto, infine, “Intelligenza Artificiale” sono tutti termini coniati dai guru dell’informatica e funzionali alla loro ideologia, o meglio, teologia politica, e quindi non hanno, secondo me, un riscontro obiettivo, per così dire, “ingegneristico”. Assomigliano piuttosto a termini come “proletariato”, oppure “razza ariana”, i quali, pur non avendo alcun significato tecnico, hanno avuto una potente forza ideologica e politica. Certamente, espressioni come “agenti autonomi” e “sistemi esperti” sarebbero più appropriate.

Il tema di questa sera si riferisce dunque a una questione urgente, presente concretamente già oggi, sotto i nostri occhi, nella cosiddetta “Quarta Rivoluzione Industriale”, ma che si aggraverà nella successiva fase, quella delle Macchine Intelligenti. La sua principale manifestazione è costituita dalla crescente disoccupazione, e, soprattutto, sottoccupazione, tecnologica, la quale si cumula, da un lato, a quella endemica nel nostro Paese e, dall’ altro, a quella provocata dalle altre gravi disfunzioni del sistema economico europeo, e italiano in particolare. È quindi difficile quantificare, tanto la disoccupazione e sottoccupazione tecnologica, quanto la disoccupazione non tecnologica, o dovuta a cause non tecnologiche. La disoccupazione non è in definitiva che una delle tante manifestazioni del declino dell’Europa, e, quindi, la sua soluzione non può essere trovata se non in un quadro più ampio, non solo industriale, ma tecnologico, giuridico, politico e, soprattutto, ideologico e culturale.

Pertanto, prima di illustrare il tema specifico della giornata, analizzerò brevemente in che modo le idee esposte nel libro circa il modello sociale europeo, il pensiero cristiano e l’Enciclica “Laudato si’”, possano influenzare la sua soluzione in una prospettiva di medio termine, vale a dire quella della transizione dalla società 4.0 alla Società delle Macchine Intelligenti, e nell’ambito dell’integrazione europea.

Premetto che, nelle vulgate sindacale, mediatica, accademica e politica, il modello sociale europeo e il pensiero sociale cristiano, ma, in generale, lo stesso il ruolo sociale  dei lavoratori, sembrerebbero destinati a ridimensionarsi  inevitabilmente per effetto della globalizzazione e dell’automazione. Semplificando, la disoccupazione tecnologica, che a troppi osservatori appare ineludibile, deriverebbe dal fatto che le macchine svolgono i compiti umani in modo progressivamente sempre più efficiente degli umani stessi, sicché la sostituzione dei secondi da parte delle prime costituirebbe una tendenza naturale della società. Dalla ricerca The Future of the Jobs presentata dal Boston Consulting Group al World Economic Forum, è emerso però che vi sarebbe invece, soprattutto in Italia, una sorta di bilanciamento fra perdita e creazione di posti di lavoro. Questa visione rassicurante deriva dal fatto che il Boston Consulting Group ignora gli aspetti geopolitici della questione, e il ruolo della divisione diseguale del lavoro in un mondo bipolare.   Io invece, seguendo in questo Erasmo contro Lutero, non credo esista, nella storia umana, alcuna tendenza naturale e inevitabile, poiché, grazie al libero arbitrio, è l’uomo stesso ad essere il fabbro della propria fortuna (e/o rovina). Il nostro è proprio uno di quei casi in cui un forte slancio volontaristico potrebbe alterare anche radicalmente il corso naturale dello sviluppo storico, e, in particolare, la configurazione attuale della globalizzazione.

Questo slancio non può venire, a mio avviso, se non da una chiara concezione europea delle politiche economiche e sociali, una concezione che prenda congedo dall’esaltazione acritica del mito del progresso alla luce degl’immani pericoli creati dall’incombere delle cosiddette Macchine Intelligenti.

Come scriveva Romano Guardini, di cui ricorre il 50° anniversario della morte: “l’interpretazione meccanicistica dell’ esistenza è fallita.”. Infatti, l’inveramento di questa interpretazione nella società industriale ha prodotto il gigantismo degli “Apparati” (razionali, sociali, economici, tecnici, informatici- Heidegger-), che imprigionano l’ uomo nella loro “gabbia d’ acciaio” (Max Weber): “Nasce il problema di governare la tecnica.”, che Guardini vedeva, come più tardi Pietro Barcellona, come la missione  specifica dell’ Europa nel mondo:”Ma la possibilità di governare la tecnica è subordinata alla ‘speranza che sia in divenire un uomo che non soggiaccia alle forze scatenate, ma sia capace di ricondurle all’ ordine.’”

Infatti, l’umanità stanca del mondo si affida sempre più all’Apparato per effetto di un’abissale accidia, che le fa desiderare la dissoluzione di se stessa e di tutto il resto. In tal modo, l’Apparato si  raggruma intorno alla persona, paralizzandola, e togliendole la capacità di realizzare la propria missione. Seguendo il linguaggio delle Encicliche, il “Lavoro in senso oggettivo” si impone sul “Lavoro in senso Soggettivo”. Affinché una nuova umanità non macchinica divenga possibile, occorre invertire la direzione di marcia, fondata sull’egemonia del meccanicismo (nella politica, nella cultura, nell’economia), sull’irrisione del sublime, sull’omologazione totalitaria, sulla dissoluzione del soggetto, sulla pedagogia dell’indifferenziato. Si tratta di rafforzare la persona perché possa liberarsi dalla dittatura della banalità quotidiana: “Ma facciamo bene a convincerci che mai nulla è diventato grande senza ascesi e ciò di cui si tratta è qualche cosa di molto grande, anzi di decisivo. E’ il decidere se con il nostro lavoro vogliamo attuare la sovranità a noi affidata in modo che essa conduca alla libertà o all’ asservimento”.

E’ l’applicazione pratica dell’idea di Jaeger dell’ ascesi cristiana come attualizzazione della Paideia greca.

  1. GEOPOLITICA DELLA QUARTA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

Per rifuggire dai luoghi comuni e dalle indebite generalizzazioni, occorre intanto intenderci sulle definizioni, evitando, innanzitutto, l’abusata equazione, di origine marxista, fra “lavoratori” e “operai” (tutti “Arbeiter”), e, in secondo luogo, quella fra la “globalizzazione” e l‘“americanizzazione”.  Intanto, già oggi gli operai costituiscono in Italia una quota modesta degli occupati (meno di 4 milioni di persone su 50 milioni, vale a dire meno del 10%), mentre, invece, i “lavoratori” in senso generale, o meglio “gli occupati” sono più di 25 milioni. Oltre tutto, gli operai non sono considerati “poveri” dall’ ISTAT, e, per esempio, non avrebbero diritto al reddito di cittadinanza. Per questo, il fatto che gli operai tendano a diminuire ulteriormente non costituirà certamente un problema insolubile. Piuttosto, secondo il Boston Consulting Group, ben più gravida di conseguenze sarà l’automatizzazione dei, ben più numerosi, lavori nel campo dei servizi e del terziario avanzato (esempi: le segretarie, i taxisti, i camionisti, i ferrovieri, i bancari, i camerieri, i militari…). Questo soprattutto quando l’automazione raggiungerà i livelli più elevati della gerarchia (secondo la nuova classificazione ISTAT, la “Classe dirigente”: pubblici funzionari, ufficiali, giornalisti, insegnanti, medici, avvocati…).

Il concentrarsi dell’attenzione di tutti  sulla “Quarta Rivoluzione Industriale”, cioè su qualcosa già attuato, falsa gravemente la prospettiva, perché i decisori che contano,  come il direttore tecnico delle Google e il presidente cinese, puntano dichiaratamente, come scadenza dei progetti d’Intelligenza Artificiale, alla quarta decade del XXI Secolo, vale a dire fra 30 anni. Orbene, su un tale arco di tempo, le trasformazioni perseguite dagli Stati e dalle multinazionali saranno ben superiori a quelle attuali. Si perverrà infatti a quella completa automazione di tutti i processi economici a cui ci ha oramai abituati da un secolo la fantascienza.

Dal punto di vista strettamente economico, il fatto che, a parità di output, l’aumento della produttività comporti la riduzione delle ore lavorate, o, a parità di ore lavorate, produca un maggiore output, non dovrebbe costituire un problema, perché ciò dovrebbe comportare anche un aumento dei margini operativi delle imprese. A questo punto, si potrebbe optare, teoricamente, a seconda delle esigenze del mercato, o per la riduzione delle ore lavorate a parità di salario, o per l’incremento della produzione e il mantenimento dell’orario. Tutto ciò si scontra però con il fatto che, come brillantemente illustrato da Evgeny Morozov, le grandi imprese informatiche americane riscuotono, attraverso il controllo dei dati degli Europei, una rendita di posizione, grazie alla quale realizzano in Europa, attraverso la pubblicità, la rivendita dei dati e la gestione di servizi, enormi profitti fuori del Continente, profitti che non possono essere tassati con i metodi tradizionali, perché non possono neppure essere contabilizzati in Europa, essendo anche i server fuori della sovranità europea, sicché diventa impossibile, come dimostra la vicenda della “Internet Tax”, realizzare i trasferimenti di risorse necessari per una divisione degli extra-profitti su tutto il sistema dell’ economia nazionale. L’ Unione Europea, pesantemente danneggiata, prima, dagl’incredibili privilegi fiscali delle Big Five, e, ora, dal cumularsi di una pluralità di “atti emulativi” degli Stati Uniti, non è ancora riuscita, dal 2014, quando il neo-presidente Juncker era finito sotto inchiesta per i Tax Rulings del Lussemburgo, a concordare una forma di tassazione adeguata per le attività delle Big Five in Europa. Eppure, questa sarebbe la precondizione per poter garantire i necessari trasferimenti di risorse all’interno dell’ Europa stessa. Cosa resa evidente dal fatto che, nelle trattative per la formazione del nuovo Governo italiano, la copertura del “reddito di cittadinanza” viene prevista non già, come sarebbe logico, attraverso la tassazione delle Big Five, bensì attraverso altre poste del bilancio dello Stato.

Il problema numero uno dell’ Italia -il blocco, da circa 30 anni, della crescita  del PIL -, non si può quindi certo rimediare con una politica di trasferimenti interni, comunque strutturata, bensì implica invece la necessità d’intervenire severamente sulla divisione internazionale del lavoro -sia contro le infinite forme di “contingentamento dell’Europa” (ultima fra le quali la richiesta di nuove sanzioni contro l’Iran), quanto contro il “fallimenti del mercato”, che hanno visto da decenni l’Italia e l’Europa cedere, senza colpo ferire, intere fette di mercato, interno e internazionale, a multinazionali extraeuropee-.

Prendo atto con soddisfazione che il ministro francese Lemaire ha finalmente affermato che, dinanzi alle misure anti-europee, l’Europa deve dotarsi di strumenti legislativi che le permettano di reagire. Si spera solo che non ci si limiti a imporre dazi contro dazi, ma si colpisca soprattutto ciò che veramente preme agli USA, come le sanzioni alla Russia e all’ Iran e le tasse delle multinazionali. Solo così, recuperando i moltissimi miliardi trasferiti in questi decenni fuori dell’ Europa, e soprattutto creando imprese competitive con le Big Five, si potrà evitare che si crei un gran numero di disoccupati cronici che basino la loro sussistenza sul reddito di cittadinanza (che per altro, nella configurazione proposta dalla coalizione Salvini-Di Maio, si deve definire più sobriamente come “sussidio di disoccupazione”).

 

 

2.I PROBLEMI SOCIALI

Una volta risolti, per ipotesi, il problema politico di un’adeguata tassazione dei reali profitti delle multinazionali e della creazione di campioni europei dell’ informatica, resterebbe comunque la non indifferente questione della ripartizione, fra i vari ceti, dei benefici e degli oneri dell’automazione.

E’ certo intanto che questa comporta, e comporterà sempre più, per la sua stessa natura:

(a)un incremento, a scapito delle attività manuali, di quelle intellettuali, e, in particolare:

-futurologi;

-esperti in cybersecurity;

-imprenditori informatici;

-studiosi d’informatica;

-gestori di fondi pubblici;

-operatori culturali;

-hackers…

(b)All’ interno stesso delle attività produttive e di servizi, il cosiddetto “upgrading” delle funzioni, grazie alle quali ogni lavoratore potrà gestire, tramite l’informatica, le attività prima svolte da un intero gruppo: l’operaio informatizzato, il lavoro di un’intera squadra; una segretaria informatizzata, il lavoro di un intero pool segretariale; un medico informatizzato, il lavoro di un’intera clinica, compreso il direttore; un avvocato informatizzato, il lavoro di un intero studio legale, ecc… Tutto questo non è fantascienza; anzi, viene già attuato in gran parte in molte realtà lavorative, anche italiane (pensiamo innanzitutto alle multinazionali della logistica, come per esempio Amazon, ma anche nel costruendo stabilimento Lamborghini di Bologna, e in Prima Industrie, dove già ora i “blue collars” sono inquadrati come operai ma hanno un diploma tecnico e uno stipendio da impiegati).

Personalmente, sono stato coinvolto da 35 anni in esperimenti diautomatizzazione del lavoro intellettuale, come per esempio, già nel 1978, nelle ricerche giurisprudenziali parzialmente automatizzate presso la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, e, dal 1982,  nella creazione standardizzata di atti giuridici nella gestione informatizzata di grandi quantità di contenzioso in grandi studi legali e uffici legali di multinazionali).

Lo studio del Boston Consulting Group è stracolmo di dati statistici e di esempi concreti, in base ai quali la transizione verso nuovi ruoli avrà effetti imprevedibili per il singolo, con la possibilità, a seconda dei casi, di migliorare o di peggiorare la propria situazione. Il rapporto non tiene però conto delle “politiche attive del lavoro”- per esempio, della ri-localizzazione negli USA imposta da Trump, oppure  di una seria politica di ristrutturazione europea più efficace, che potrebbe sostituire la cosiddetta “Industria.4”-.

 

5.LA NUOVA ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

Dallo studio di Boston Consulting emerge che l’”Industria 4.0” si incentra sull’adozione di alcune tecnologie definite come “abilitanti”, per altro non tutte innovative. Ricordiamo:

Le “Advanced manufacturing solutions”: sistemi avanzati di produzione, ovvero sistemi interconnessi e modulari che permettono flessibilità e performance. Fra queste tecnologie rientrano i sistemi di movimentazione automatica dei materiali e la robotica avanzata, che oggi entra sul mercato con i robot collaborativi o cobot;

Le “Big Data Analytics”: tecniche di gestione di grandissime quantità di dati attraverso sistemi aperti che permettono previsioni o predizioni.

 

Tuttavia, la caratteristica principale dell’ Industria 4.0 è quella di modificare l’organizzazione del lavoro, eliminando la funzione dell’ operaio specializzato, confondendola con quella del tecnico di produzione, e permettendo un flusso più aperto d’informazioni e di semilavorati fra imprese indipendenti. Senza entrare nei dettagli, si può dire che l’insieme di queste attività implicherà una più forte responsabilizzazione di tutti gli elementi della catena produttiva, che saranno sempre più coinvolti nelle scelte imprenditoriali a mano a mano ch’esso potranno gestire autonomamente un segmento più ampio del processo.

Queste tendenze si sposano perciò egregiamente con l’avanzata travolgente in tutta Europa di forme di partecipazione dei lavoratori, secondo la falsariga delineata già dalla fine dell’Ottocento dal pensiero sociale cristiano (Vogelsang, Toniolo), e ribadito durante tutto il Novecento, da un lato, dalle Encicliche sociali, e, dall’altro, dalla legislazione sociale dei Paesi Europei, con particolare riguardo alla Costituzione italiana e alla legislazione tedesca sulla cogestione.

Questo trend è stato favorito dalla spinta data dalla legislazione europea (con particolare riguardo a quella sui diritti d’informazione dei lavoratori e sul sistema duale di governance societaria), e dall’ influenza del modello tedesco. Introdotta in Germania dopo la IIa Guerra Mondiale soprattutto per impedire l’appropriazione dei grandi gruppi da parte degli occupanti anglo-americani, ha costituito, e ancora costituisce, la miglior protezione contro quella svendita delle imprese nazionali che tanto spaventa la Merkel e il legislatore europeo. Basti pensare ai casi della Continental e della Chrysler.  L’impressionante tabella che si trova a pagina 207 del libro dimostra che la quasi totalità dei Paesi dell’Unione a 27 possiede istituti di cogestione, con la rimarchevole assenza dell’Italia, del Belgio, di Cipro e di Malta.

Esso dimostra, a mio avviso, ed eloquentemente, che il modello sociale europeo e il pensiero sociale cristiano sono tutt’altro che obsoleti, anzi stanno esplicitando proprio ora tutta la loro forza, costituendo uno degli elementi fondamentali che fanno della Germania il leader dell’ Unione.

  1. COGESTIONE TEDESCA E INDUSTRIA 4.0

E’ impressionante come tutti in Europa, e, soprattutto, in Italia,  abbiano da sempre predicato la necessità della partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese, e, poi, di fatto, abbiano sempre mantenuto in piedi un’organizzazione estremamente accentratrice. Dall’idea di Lenin “tutto il potere ai soviet” alla Carta del Lavoro (la socializzazione), dalla Costituzione italiana al Movimento Comunità, dalle Encicliche Sociali alla Legge Fornero, non si è mai vista, almeno in Italia, una qualsivoglia realizzazione pratica. Anzi, spesso i più accaniti fautori della partecipazione, come per esempio Adriano Olivetti, si erano rivelati poi in pratica degl’imprenditori assolutamente autocratici.

Paradossalmente, in Germania la cogestione, che si è rivelata così provvidenziale per il successo delle imprese tedesche, si è affermata quasi per caso, per un’intrinseca esigenza del popolo tedesco, da sempre incline al comunitarismo e allo spirito organizzativo. Basti pensare ch’essa nacque subito dopo la guerra, quando perfino gl’industriali dell’industria carbosiderurgica la vedevano con favore, come strumento per evitare il controllo delle potenze occupanti

Vi sono praticamente 3 tipi di cogestione: paritetica; 1/3-2/3; modello Volkswagen.

Nel 1947 era creata, dunque, la prima cogestione paritaria, su base contrattuale. Con la Legge del 1951, tutte le industrie del settore carbosiderurgico avevano ottenuto la cogestione paritetica. Dal 1952, si introdusse nelle altre imprese una cogestione1/3-2/3.

La Volkswagen, che è la maggiore impresa mondiale del settore automobilistico, è retta da una legge speciale (la Volkwagengesetz), approvata nel 1960, in occasione della privatizzazione dell’azienda. In base a tale legge, nessun azionista può esercitare, indipendentemente dalle quote possedute, più del 20% dei diritti di voto, in modo tale che l’azionista di riferimento resti sempre il Land della Bassa Sassonia (una forma di Golden Share).

Nel 1976, Helmut Schmidt introduceva la cogestione paritetica in tutte le grandi imprese tedesche.

Oggi, dopo l’avvio dell’iniziativa Industria 4.0, vi è in Germania tutta un’attività, da parte di studiosi, sindacalisti, manager e consulenti aziendali, volte a trovare sistemi di raccordo fra la normativa sulla cogestione e le nuove tecnologie. In effetti, da un lato, la configurazione del posto di lavoro costituisce uno dei primi contenuti della cogestione; dall’ altra, le nuove tecniche, in particolare con i robot collaborativi, richiedono inevitabilmente un coinvolgimento attivo dei lavoratori, che, anziché essere vincolati ai processi della macchina, la possono utilizzare in modo flessibile, come un tempo i singoli utensili.

 

3.I I COMPITI  DEL LEGISLATORE

Il legislatore (europeo e nazionale) ha ora almeno tre compiti:

(a)quello di riqualificare tutti i lavoratori attraverso la modifica dei curricula e la formazione permanente;

(b)quello di garantire un’equa ripartizione, fra i vari “stakeholders”, dei benefici (e/o degli oneri) del sistema;

(c)quello di riorganizzare lo Stato e le imprese in modo da essere compatibili con questa nuova realtà

Ne conseguono, per il legislatore, tre nuove attività:

a)la definizione di nuovi curricula scolastici e di formazione permanente, erogando i corrispondenti finanziamenti;

b)la definizione legislativa degl’incentivi all’ innovazione e dei carichi fiscali sugl’incrementi di redditività;

c)la riforma della pubblica amministrazione e del diritto economico, per incorporare e trasformare   queste novità.

I Governi e le istituzioni europei hanno iniziato da alcuni anni a occuparsi  della questione (con molto ritardo sui concorrenti americani e cinesi), con l’ iniziativa “Industria 4.0”, la quale tuttavia affronta ancora la questione in un’ottica parziale, in quanto interpreta le trasformazioni in corso come fatti prevalentemente ingegneristici, non già come fenomeni politici e soprattutto culturali, in una visione che, pur non sottovalutando il ruolo indiscutibile della tecnica e della tecnologia, rimetta al centro della riflessione il ruolo dei popoli e della persona –della persona che lavora – nei nuovi processi di produzione. Che l’Unione giochi sempre di rimessa, rispetto alle iniziative di USA e Cina è dimostrato dal fatto che:

a)tanto l’iniziativa “Industria 4.0” quanto quella per l’ Intelligenza Artificiale di cui alla Comunicazione della Commissione SWD 2018 sono state adottate alcuni anni dopo le analoghe iniziative americane e cinesi;

b)”Industria 4.0” è già superata dalla Comunicazione per l’ Intelligenza Artificiale, che rende obsolete il tipo di automatizzazione di cui alla precedente iniziativa;

c)ambedue le iniziative mancano di un respiro umanistico, quali quelli delle analoghe iniziative americane e cinesi, che sono pienamente inserite in una precisa visione del mondo (nell’ un caso, puritana; nell’ altro, confuciana), a cui le relative strategie sono funzionali. L’espressione contenuta nella Comunicazione: “Prepare for socio-economic changes brought about by AI by encouraging the modernisation of education and training systems, nurturing talent, anticipating changes in the labour market, supporting labour market transitions and adaptation of social protection systems” è assolutamente asettica e puramente ingegneristica, non affrontando affatto le gravi questioni trattate nei punti precedenti.

Anche la “Politica nazionale Industria 4.0” del Governo italiano è purtroppo tutta concentrata, come quella europea, sulla produzione manifatturiera e sulla fabbrica in un momento storico nel quale, proprio grazie all’internet delle cose, industria e servizi sono sempre più interconnessi tra loro dando origine a nuovi modelli di business, mercati, processi, prodotti e dinamiche del consumo. Tuttavia, almeno, per poter fruire delle agevolazioni finanziarie europee, l’Italia deve promuovere e incentivare le iniziative di informazione e formazione, anche se queste sono incredibilmente arretrate rispetto alla media degli altri Paesi, soprattutto per ciò che concerne la formazione.

  1. UNA NUOVA POLITICA DEI REDDITI

E’ paradossale che vi sia un enorme “esercito di riserva” di disoccupati cronici, quando invece:

(a)tutti i lavoratori avrebbero bisogno di ridurre, a parità di salario, le ore lavorate, se non altro per poter frequentare veri corsi di riqualificazione;

(b)vi sono infiniti compiti indispensabili, ma non svolti da nessuno, come ovviare al degrado ecologico e urbanistico, gestire il turismo, costituire basi di dati, fare formazione informatica –tutte cose che si addirebbero benissimo a dei giovani disoccupati, specie a dei giovani disoccupati intellettuali con tanto di master, che potrebbero benissimo lavorare come formatori, non solo degli operai, ma perfino dei manager e dei funzionari dello Stato-;

(c)occorrerebbe accumulare esperienze pratiche in imprese innovative, per contrastare la concorrenza extraeuropea;

(d)occorrerebbe contrastare l’allontanamento, fisico e psicologico, dei giovani dal mondo del lavoro, che ne deteriora progressivamente le motivazioni, le competenze e l’occupabilità.

Quindi, piuttosto che pagare, con il reddito di cittadinanza, 780  Euro al mese a ogni disoccupato, occorrerebbe creare posti di lavoro a basso salario, ma che servano per la formazione di curricula, per esempio nelle forze armate o nel servizio civile, per coprire le carenze urgenti nei settori sopra indicati. Ricordo, nella mia qualità di ex ufficiale pagatore, che, nel 1974, il soldo di un soldato di leva era di 150 lire (75 centesimi di Euro) a settimana, più vitto e alloggio, sì che il suo costo non eccederebbe oggi certo quello del reddito di cittadinanza, ma in cambio si otterrebbero, da una parte, una prestazione lavorativa, e, dall’ altra, un automatico “learning on the job”, come quello offerto dall’ Esercito Israeliano, che costituisce una miniera di giovani esperti per l’industria informatica.

5.LA FORMAZIONE

La nuova strutturazione della società implicherà ingenti fabbisogni formativi radicalmente diversi da quelli attuali:

(a)Cambierà la natura della prestazione regolata e definita dal contratto di lavoro, incidendo profondamente sull’ idea per la quale lo scambio negoziale avviene tra salario e tempo di lavoro del prestatore, e aprendo lo spazio per un rapporto di collaborazione che può fondarsi sulla corresponsabilità o anche sulla compartecipazione dei risultati o degli utili, secondo forme più o meno spinte di partecipazione economica e di partecipazione ai processi decisionali;

 (b)La formazione pratica sarà basata sempre più su competenze informatiche, per abilitare tutti alla gestione di sistemi complessi. Per esempio, negli ITI collegati all’ industria, come quelli creati in Emilia-Romagna, si creano, attraverso l’alternanza scuola-lavoro, tecnici specializzati per le nuove fabbriche sofisticatissime come quella della Lamborghini;

(c)La formazione specialistica dovrà abbinare competenze professionali (per esempio, mediche, legali), alle corrispondenti competenze informatiche, in modo da poter gestire senza l’appoggio di ausiliari, ma con quello di apparati automatici, funzioni ancillari come la gestione degli esami clinici, l’assistenza personale ai malati, i rapporti con mutue e assicurazioni, le ricerche di giurisprudenza, la redazione automatica di atti standardizzati…);

(d)la formazione a compiti dirigenziali e politici dovrà includere conoscenze filologiche, linguistiche, di culture comparate, delle scienze esatte, comprensive della cibernetica e delle neuroscienze, delle nuove tecnologie, comprensive di quelle informatiche e biomediche

(e)tutto ciò implicherà la necessità di inserire organicamente la formazione permanente nella vita del lavoro (e perfino nella vita politica), con una quota ben precisa dell’orario di lavoro dedicata alla formazione (sulla falsariga delle libere professioni e delle Forze Armate), secondo piani coordinati con l’avanzamento nella carriera e una certificazione seria e obiettiva delle competenze acquisite.

Ne deriva che, con il determinante apporto dello Stato, sarà possibile realizzare, nel corso di 4/5 anni, l’”upgrading” di tutte le funzioni, a cui dovrebbe corrispondere un parallelo incremento della competitività del sistema, con la conseguente maggior penetrazione sui mercati mondiali, la quale dovrebbe finanziare i costi della formazione permanente e dell’incremento del tempo dedicato alla formazione.

La cosiddetta “funzione anticiclica dell’ investimento pubblico”, oggi tornata improvvisamente di moda, funzionerebbe veramente se l’investimento si orientasse verso la creazione di campioni nazionali e alla riqualificazione del lavoro, anziché a misure puramente assistenziali ed espansive della spesa.

  1. LA COGESTIONE IN ITALIA

La vicenda della cogestione in Italia è veramente paradossale. Proposta per primo da Toniolo a fine ‘800 sulla falsariga della Rerum Novarum, iscritta nella Carta del Carnaro e nella Costituzione Repubblicana, e adottata, almeno sulla carta, tanto dalla Repubblica Sociale che dal CLNAI; oggetto di progetti di legge, mai approvati (ultimo fra i quali il “Progetto di Legge Ichino”,  in tutte le legislature, essa è stata introdotta in Italia in dosi omeopatiche e quasi per sbaglio, sempre sulla base di un accordo specifico in sede aziendale.

All’ interno dell’ ampia categoria della “partecipazione”, si distinguono:

a)L’azionariato dei dipendenti

Recentemente, sono state introdotte effettuate ulteriori sperimentazioni ma solo nel campo dell’azionariato popolare, senza apprezzabili ricadute in termini di potere decisionale dei lavoratori, come  nei 4 casi più importanti: Unicredit, Telecom Italia, Intesa Sanpaolo e Prysmian.

Con la delega al Governo attribuita dall’art. 4 (commi 62,63) della l. n.92 del 2012, ”Al fine di conferire organicità e sistematicità alle norme in materia di informazione e consultazione dei lavoratori, nonché di partecipazione dei dipendenti agli utili e al capitale”8La delega riproposta nel ddl. n.1051 conferiva al Governo il compito di formulare uno o più decreti legislativi che avrebbero favorito il coinvolgimento del lavoratore nell’impresa. Sia nel comma 62 dell’art.4 della legge 92/2012 che nel ddl 1051 è stipulato un elenco di possibili soluzioni partecipative finalizzate al coinvolgimento nella quale è contenuta anche la partecipazione finanziaria. La volontà di conferire a forme di partecipazione finanziaria una valenza di coinvolgimento del lavoratore è presente anche nella ”proposta DLM”, proposta di legge sindacale del gruppo di giuslavoristi coordinato. Dall’esame della delega all’art 4 l.92/2012 del ddl n.1051 e della proposta DLM emerge una linea comune che vede nella contrattazione la via per l’introduzione delle diverse forme di coinvolgimento.

2)La partecipazione contrattuale all’ organizzazione del lavoro

Un recente passo in avanti è stato fatto con  la legge di bilancio 2016, il governo italiano ha inteso favorire la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione del lavoro, purché introdotta e condivisa nell’ambito di contratti collettivi aziendali o territoriali. Dapprima, ha consentito un’estensione dell’ammontare massimo dei premi di risultato (fino a 2.500 euro nel 2016 e fino a 4.000 euro nel 2017) soggetti all’imposta sostitutiva dell’IRPEF pari al 10%; successivamente (per i contratti collettivi sottoscritti dal 24 aprile 2017), ha alleggerito l’onere contributivo associato a una parte di premio di risultato (il cui importo massimo resta fissato a 3.000 euro) non superiore a 800 euro.

Da allora, il coinvolgimento paritetico dei lavoratori (le cui modalità di realizzazione sono state inizialmente specificate nel decreto interministeriale del 25 marzo 2016) ha conquistato sempre più spazio nei contratti collettivi aziendali e territoriali, pur non eguagliando il successo dei premi di risultato e delle prestazioni di welfare. In base alle ultime informazioni fornite dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali a marzo 2018, dei 9.389 contratti attivi e depositati, 1.387 prevedono un piano di partecipazione dei lavoratori.

Tentando di seguire le orme delle attività congiunte svolte con “Arbeit 2020” nella Renania Settentrionale-, che coinvolge diversi sindacati tra cui IG METALL e un network consolidato di esperti, con il contributo economico delle istituzioni pubbliche regionali e del Fondo Sociale Europeo, con la Circolare n. 5/E del 29 marzo 2018, oltre a ribadire che il coinvolgimento paritetico dei lavoratori è realizzabile «mediante schemi organizzativi che permettono di coinvolgere in modo diretto e attivo i lavoratori (i) nei processi di innovazione e di miglioramento delle prestazioni aziendali, con incrementi di efficienza e produttività, e (ii) nel miglioramento della qualità della vita e del lavoro», l’Agenzia delle Entrate ha inteso fornire ulteriori indicazioni sul tema e ha essenzialmente subordinato l’erogazione del beneficio contributivo alla redazione, a livello aziendale, di un apposito Piano di Innovazione.

L’auspicio, quindi, è che  si promuovano percorsi congiunti di formazione adeguata su questi temi e provando a costituire insieme reti qualificate di esperti e consulenti in grado di affiancare lavoratori e imprese nella definizione e realizzazione di piani di innovazione tecnologica e organizzativa.

c)Il caso Alcoa

Il caso che ha fatto parlare molto di cogestione è stato quello dell’ALCOA, dove il Ministro Calenda ha contrattato con i  nuovi investitori svizzeri una, seppur modestissima, forma di collaborazione”alla tedesca”, con una seppur piccola presenza nel Consiglio di Sorveglianza.

La confusione che regna in questa materia richiederebbe che un movimento sociale trasversale prendesse su di sé l’onere di portare avanti questa complessa materia, facendo almeno un po’ di chiarezza. su tutti gli scacchieri-politico, giuslavoristico, sindacale. A questo fine, con gli altri oratori di quest’incontro, stiamo organizzando un convegno a ottobre, che potrebbe costituire il punto di partenza di questo movimento,

PRESENTAZIONE DI DAQIN IL 24 MAGGIO

Giovedì 24 maggio, ore 18,

Il Laboratorio Associazione Culturale

Via Carisio 12

Da Qin Un’Europa sovrana sulla Via della Seta

Nel fervore delle discussioni sulla politica italiana, si tende a dimenticare quanto la nostra vita, già nel passato, ma soprattutto oggi, sia stata, e ancora sia, condizionata da quanto accade, non soltanto in Europa, ma anche nel resto del mondo.

La stagnazione delle nostre economie, il dramma permanente delle migrazioni, la mancanza di significative innovazioni culturali, derivano da fatti apparentemente lontani nello spazio e nel tempo, come il colonialismo, la subordinazione alle grandi potenze, le guerre umanitarie, la lotta ideologica fra i blocchi…

Anche il rapporto con la Cina ha influenzato molto più di quanto non si pensi la vita degli Europei fino dai tempi di Marco Polo, dei monarchi assoluti, dei Gesuiti e degl’Illuministi, introducendo da noi nuovi concetti filosofici e nuove tecnologie, incrinando l’unita del movimento comunista internazionale, che tanto peso aveva anche in Europa, surriscaldando la competizione globale sui prezzi, introducendo “cordate” industriali concorrenti con quelle occidentali.

I Cinesi hanno espresso l’idea di questa interdipendenza con il termine “Da Qin”, “Grande Cina”, riferito per millenni a Roma, all’ Italia, all’Impero Romano, al Sacro Romano Impero, all’Europa, al Cristianesimo, visti come qualcosa di speculare all’ Impero Cinese. Oggi, con la Nuova Via della Seta, che si protende verso Occidente, ci troviamo con importanti investimenti cinesi in ogni città europea, e con un’Europa alleata della Cina nel resistere alle imposizioni del Presidente Trump.

Per l’importanza centrale della Cina nel sistema mondiale, il libro DA QIN tenta di leggere i problemi più scottanti dell’Europa con occhi cinesi, nella speranza di superare, con ciò, l’impasse, prima di tutto culturale, in cui si trova invischiata l’integrazione europea.

 

14 MAGGIO: PRESENTAZIONE DEL LIBRO MODELLO SOCIALE EUROPEO E PENSIERO CRISTIANO DOPO L’ENCICLICA ‘LAUDATO SI’

Lunedì 14 maggio, ore 18
Centro Studi San Carlo, Via Monte di Pietà, 1
Incontro con gli autori
“Il ruolo dei lavoratori nella società delle macchine intelligenti”
In occasione della pubblicazione di “Modello sociale europeo e pensiero cristiano dopo l’Enciclica “Laudato si’”, di Alberto Acquaviva e Riccardo Lala

A cura di Alpina, in collaborazione con Associazione Culturale Diàlexis e Rinascimento Europeo.
Il sempre crescente predominio della tecnica dispiegata, che si manifesta innanzitutto sotto la forma della disoccupazione tecnologica, rende oramai inevitabile un controllo rafforzato, da parte di tutti gli stakeholders, sulle interrelazioni fra l’ uomo e la macchina, con approcci nuovi, tanto rispetto alla vecchia contrapposizione lavoro-capitale, quanto nei confronti di concezioni formalistiche della partecipazione dei lavoratori che sono oramai  sempre più incompatibili con i nuovi aspetti dell’ organizzazione del lavoro.

Il modello sociale europeo e il pensiero sociale cristiano, spregiati e negletti negli ultimi decenni, potrebbero fornire, meglio ancora che non i paradigmi pragmatistici e post-umanistici oggi in voga, idee innovative, fondate sul rinnovamento e il potenziamento dell’umano a partire dall’ irriducibile libertà e imprevedibilità della persona. La critica, da parte dell’Enciclica “Laudato sì”, delle “colonizzazioni culturali”, e le formule di partecipazione nell’impresa collaudate da decenni in Europa Centrale, forniscono basi concettuali da cui partire.

Il libro costituisce un tentativo di sintesi fra discipline troppo spesso disgiunte, quali la teologia, la storia del diritto e dell’economia, le relazioni industriali e la cibernetica.

Ne discutono con gli autori l’avvocato Stefano Commodo, animatore del movimento della società civile “Rinascimento Europeo”, Riccardo Ghidella, Presidente dell’Associazione Cristiana Imprenditori e Dirigenti, e Ezio Ercole, Vice-presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte.

La presenza di Alpina al Salone Off 2018: una proposta articolata.

Ieri, 10 maggio, abbiamo presentato “DA QIN, L’Europa sovrana in un mondo multipolare, Tredici proposte di studio per un federalismo del XXI secolo”.
Il dibattito che ne è seguito ha permesso di delineare linee d’azione per il futuro: -proseguire nelle nostre attività di ricerca, nella direzione di una pubblicistica orientata soprattutto alla Via della Seta;
stabilire un legame più stretto con la comunità cinese, per organizzare iniziative d’interesse comune;
avviare un dibattito sui rapporti Europa-Cina, da un lato, con le imprese, e, dall’ altro, con il Movimento Federalista e le forze politiche.

Lunedì 14 maggio, presenteremo il libro sul modello sociale europeo e il pensiero cristiano.

In realtà, il dibattito verterà soprattutto sul come le tradizionali fonti di pensiero sociale europeo possano essere proficuamente utilizzate anche e soprattutto nella fase storica che ci attende, caratterizzata dall’ Intelligenza Artificiale e dalle macchine intelligenti.

L’obiettivo è mettere a fuoco lo stato dell’arte in un momento caratterizzato da una grande confusione, in cui non si riesce a distinguere chiaramente fra la sfida ontologica delle macchine intelligenti, le minacce allo Stato di diritto e alla democrazia, gli aspetti monopolistici e quelli geopolitici.